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Articolo 2119 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 26/11/2024]

Recesso per giusta causa

Dispositivo dell'art. 2119 Codice Civile

Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto [1373] prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato [2097], o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto(1) [2103, 2244]. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa compete l'indennità indicata nel secondo comma dell'articolo precedente.

Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto la liquidazione coatta amministrativa dell'impresa. Gli effetti della liquidazione giudiziale sui rapporti di lavoro sono regolati dal Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza(2)(3).

Note

(1) Tale situazione si ha quando sono commessi fatti che violano disposizioni legali e regolamentari che regolano l'esecuzione della prestazione e volti a garantire la qualità e l'affidabilità del servizio erogato dal datore di lavoro.
(2) Il D. Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, come modificato dal D.L. 8 aprile 2020, n. 23, ha disposto (con l'art. 389, comma 1) la proroga dell'entrata in vigore della modifica del comma 2 del presente articolo dal 15 agosto 2020 al 1° settembre 2021.
(3) Tale disposizione è stata modificata dall'art. 42, comma 1, lettera a), del D.L. 30 aprile 2022, n. 36, convertito, con modificazioni, dalla L. 29 giugno 2022, n. 79.
Il D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, come modificato dal D.L. 30 aprile 2022, n. 36, ha disposto (con l'art. 389, comma 1) la proroga dell'entrata in vigore della modifica del comma 2 del presente articolo dal 16 maggio 2022 al 15 luglio 2022.

Ratio Legis

Il recesso per giusta causa implica l'avveramento di un fatto di gravità tale da porre in crisi il rapporto fiduciario tra le datore di lavoro e prestatore.
La nozione di giusta causa trova la propria fonte nella legge, ne consegue che ogni elencazione contenuta nei contratti collettivi o in atti unilaterali del datore di lavoro hanno valenza esemplificativa e non tassativa.

Massime relative all'art. 2119 Codice Civile

Cass. civ. n. 7029/2023

La "giusta causa" di licenziamento ex art. 2119 c.c. integra una clausola generale che l'interprete deve concretizzare tramite fattori esterni relativi alla coscienza generale e principi tacitamente richiamati dalla norma e, quindi, mediante specificazioni di natura giuridica, la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi integranti il parametro normativo costituisce un giudizio di fatto, demandato al giudice di merito ed incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici.

Cass. civ. n. 5805/2023

In tema di licenziamento per giusta causa, la conoscenza da parte del datore di lavoro, sin dall'atto dell'assunzione, del comportamento del lavoratore invocato come giusta causa di licenziamento rende quest'ultimo illegittimo, sussistendo incompatibilità logico-giuridica tra giusta causa di licenziamento, intesa quale causa che non consente la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto, ai sensi dell'art. 2119 c.c., e la precedente scelta di avviare il rapporto di lavoro pur conoscendo quei fatti; nell'ipotesi di mera conoscibilità del fatto poi valorizzato come giusta causa, tuttavia, in difetto di una norma di diritto che equipari la conoscibilità dei fatti alla loro effettiva conoscenza, il giudice non può creare una presunzione legale relativa, ponendo a carico del datore di lavoro l'onere di provare di non avere conosciuto il fatto conoscibile.

Cass. civ. n. 12789/2022

L'art. 2119 c.c. configura una norma elastica, in quanto costituisce una disposizione di contenuto precettivo ampio e polivalente destinato ad essere progressivamente precisato, nell'estrinsecarsi della funzione nomofilattica della Corte di cassazione, fino alla formazione del diritto vivente mediante puntualizzazioni, di carattere generale ed astratto; l'operazione valutativa, compiuta dal giudice di merito nell'applicare tale clausola generale, non sfugge pertanto al sindacato di legittimità, poiché l'operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall'ordinamento.

Cass. civ. n. 33811/2021

In tema di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo, la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva non è vincolante, spettando al giudice la valutazione di gravità del fatto e della sua proporzionalità rispetto alla sanzione irrogata dal datore di lavoro, avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie

Cass. civ. n. 31202/2021

In tema di licenziamento per giusta causa, nel giudicare se la violazione disciplinare addebitata al lavoratore abbia compromesso la fiducia necessaria ai fini della conservazione del rapporto di lavoro e, quindi, costituisca giusta causa di licenziamento, rilevano la natura e la qualità del singolo rapporto, la posizione delle parti, l'oggetto delle mansioni e il grado di affidamento che queste richiedono, occorrendo altresì valutare il fatto concreto nella sua portata oggettiva e soggettiva, attribuendo rilievo determinante, ai fini in esame, alla potenzialità del fatto medesimo di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento.

Cass. civ. n. 28368/2021

La condotta illecita extralavorativa è suscettibile di rilievo disciplinare poiché il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta ma anche, quale obbligo accessorio, a non porre in essere, fuori dall'ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o compromettere il rapporto fiduciario con lo stesso; tali condotte, ove connotate da caratteri di gravità, possono anche determinare l'irrogazione della sanzione espulsiva. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva reputato legittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore - condannato, sia pure con sentenza non passata in giudicato, per produzione e detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti -, sul rilievo che tale contegno, presupponendo l'inevitabile contatto con ambienti criminali, pregiudicasse l'immagine dell'azienda, aggiudicataria di pubblici appalti). (Rigetta, CORTE D'APPELLO NAPOLI, 30/05/2019).

Cass. civ. n. 31155/2018

In tema di licenziamento, la sussunzione della fattispecie concreta nella clausola elastica della giusta causa secondo "standards" conformi ai valori dell'ordinamento, che trovino conferma nella realtà sociale, è sindacabile in sede di legittimità con riguardo alla pertinenza e non coerenza del giudizio operato, quali specificazioni del parametro normativo avente natura giuridica e del conseguente controllo nomofilattico affidato alla Cassazione. (Nella specie, è stata ritenuta carente e non in linea con i predetti principi la valutazione espressa dalla Corte territoriale in ordine alla assenza di gravità e serietà di una minaccia di morte, profferita dal lavoratore nei confronti di un superiore gerarchico "a freddo", al di fuori di una conversazione animata, peraltro in una situazione di conflittualità già riscontrata dalle autorità penali).

Cass. civ. n. 28492/2018

In materia disciplinare, non è vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva ai fini dell'apprezzamento della giusta causa di recesso, rientrando il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta nell'attività sussuntiva e valutativa del giudice, purché vengano valorizzati elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, coerenti con la scala valoriale del contratto collettivo, oltre che con i principi radicati nella coscienza sociale, idonei a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario.

Cass. civ. n. 27069/2018

In materia di licenziamento disciplinare, ove il fatto di valenza disciplinare abbia anche rilievo penale, il principio dell'immediatezza della contestazione non è violato qualora il datore abbia scelto di attendere l'esito degli accertamenti svolti in sede penale per giungere a contestare l'addebito solo quando i fatti a carico del lavoratore gli appaiano ragionevolmente sussistenti. (Nella specie, è stato ritenuto tempestivo il licenziamento disciplinare intimato dopo la celebrazione del dibattimento penale, nel corso del quale erano emersi ulteriori e determinanti elementi di fatto rispetto a quanto già acquisito in sede di indagini preliminari).

Cass. civ. n. 27004/2018

La giusta causa di licenziamento è nozione legale rispetto alla quale non sono vincolanti - al contrario che per le sanzioni disciplinari con effetto conservativo - le previsioni dei contratti collettivi, che hanno valenza esemplificativa e non precludono l'autonoma valutazione del giudice di merito in ordine alla idoneità delle specifiche condotte a compromettere il vincolo fiduciario tra datore e lavoratore, con il solo limite che non può essere irrogato un licenziamento per giusta causa quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata infrazione.

Cass. civ. n. 23605/2018

È legittimo il licenziamento disciplinare dell'impiegato di banca che, nell'istruire la pratica di concessione di un fido, appone firme apocrife del cliente e modifica un elemento essenziale dell'accordo contrattuale, quale la scadenza, trattandosi di azioni che violano i doveri di diligenza e fedeltà ed incidono in modo irreversibile sull'elemento fiduciario del rapporto di lavoro.

Cass. civ. n. 23602/2018

In tema di licenziamento disciplinare, qualora il grave nocumento morale e materiale è parte integrante della fattispecie prevista dalle parti sociali come giusta causa di recesso, occorre accertarne la relativa sussistenza, quale elemento costitutivo che osta alla prosecuzione del rapporto di lavoro, restando preclusa, in caso contrario, la sussunzione del caso concreto nell'astratta previsione della contrattazione collettiva.

Cass. civ. n. 23600/2018

L'esecuzione di un ordine illegittimo impartito dal superiore gerarchico non basta di per sé ad impedire la configurabilità di una giusta causa di recesso, non trovando applicazione nel rapporto di lavoro privato l'art. 51 c.p. in assenza di un potere di supremazia, inteso in senso pubblicistico, del superiore riconosciuto dalla legge. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito che aveva ritenuto giustificata la condotta del lavoratore - consistita nella simulazione e contabilizzazione di lavori non eseguiti - perché posta in essere in esecuzione di ordini impartitigli dal superiore gerarchico).

Cass. civ. n. 22683/2018

In tema di pubblico impiego privatizzato, ha rilievo disciplinare e legittima la sanzione espulsiva del licenziamento la condotta del dipendente, responsabile del procedimento amministrativo, il quale ometta di astenersi dalle attività di ufficio in caso di conflitto di interessi, ovvero ometta di segnalare situazioni di conflitto, anche solo potenziale, venendo in rilievo obblighi finalizzati a garantire la trasparenza ed imparzialità dell'azione amministrativa e, ad un tempo, a prevenire fenomeni corruttivi.

Cass. civ. n. 21965/2018

In tema di licenziamento disciplinare, i messaggi scambiati in una "chat" privata, seppure contenenti commenti offensivi nei confronti della società datrice di lavoro, non costituiscono giusta causa di recesso poiché, essendo diretti unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo e non ad una moltitudine indistinta di persone, vanno considerati come la corrispondenza privata, chiusa e inviolabile, e sono inidonei a realizzare una condotta diffamatoria in quanto, ove la comunicazione con più persone avvenga in un ambito riservato, non solo vi è un interesse contrario alla divulgazione, anche colposa, dei fatti e delle notizie ma si impone l'esigenza di tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni stesse.

Cass. civ. n. 19092/2018

L'esercizio del diritto di critica da parte del lavoratore nei confronti del datore di lavoro deve avvenire nel rispetto dei limiti di continenza formale, il cui superamento integra comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia che è alla base del rapporto di lavoro e può costituire giusta causa di licenziamento. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di appello che aveva ritenuto legittimo il licenziamento disciplinare intimato dall'impresa al proprio dipendente per avere proferito a voce alta, alla presenza del direttore generale e di un lavoratore, frasi ingiuriose all'indirizzo del primo, percepite anche da altri dipendenti e da due ospiti esterni).

Cass. civ. n. 19013/2018

In tema di licenziamento disciplinare, è censurabile come violazione di legge la mancata sussunzione nel concetto di giusta causa, quale elaborato dalla giurisprudenza di legittimità, di un comportamento contrario al cd. minimo etico. (Nella specie, acceso diverbio con il superiore gerarchico, seguito da vie di fatto e lesioni personali).

Cass. civ. n. 16590/2018

In materia di licenziamento per giusta causa, il contenuto di uno scritto difensivo che attribuisca al proprio datore di lavoro, in sede di giustificazioni per pregressa contestazione, atti o fatti, pur non rispondenti al vero ma concernenti in modo diretto ed immediato l'oggetto della controversia, ancorché contenga espressioni sconvenienti od offensive (soggette solo alla disciplina prevista dall'art. 89 c.p.c.), non costituisce illecito disciplinare né fattispecie determinativa di danno ingiusto, trattandosi di condotta scriminata dall'art. 598, comma 1, c.p., con portata generale, espressiva del legittimo esercizio del diritto di difesa nell'ambito di procedimento disciplinare ex artt. 24 Cost. e 51 c.p.

Cass. civ. n. 12798/2018

Per stabilire se sussiste la giusta causa di licenziamento con specifico riferimento al requisito della proporzionalità della sanzione occorre accertare in concreto se - in relazione alla qualità del singolo rapporto intercorso tra le parti, alla posizione che in esso abbia avuto il prestatore d'opera e, quindi, alla qualità e al grado del particolare vincolo di fiducia che quel rapporto comportava - la specifica mancanza commessa dal dipendente, considerata e valutata non solo nel suo contenuto obiettivo, ma anche nella sua portata soggettiva, risulti obiettivamente e soggettivamente idonea a ledere in modo irreparabile la fiducia del datore di lavoro. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito che aveva ritenuto sproporzionato il licenziamento intimato ad un lavoratore che si era appropriato di due paia di scarpe che l'azienda deteneva per avviarle alla distruzione in quanto corpo del reato, senza considerare il discredito derivatone all'azienda ed il disvalore giuridico e sociale del fatto, a prescindere dalla tenuità del valore del bene sottratto ed indipendentemente dall'esito del procedimento penale).

Cass. civ. n. 9396/2018

In tema di licenziamento disciplinare, rientra nell'attività sussuntiva e valutativa del giudice di merito la verifica della sussistenza della giusta causa, con riferimento alla violazione dei parametri posti dal codice disciplinare del c.c.n.l., le cui previsioni, anche quando la condotta del lavoratore sia astrattamente corrispondente alla fattispecie tipizzata contrattualmente, non sono vincolanti per il giudice, dovendo la scala valoriale ivi recepita costituire uno dei parametri cui fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale di cui all'art. 2119 c.c., attraverso un accertamento in concreto della proporzionalità tra sanzione ed infrazione sotto i profili oggettivo e soggettivo; ne consegue che le parti ben potranno sottoporre il risultato della valutazione cui è pervenuto il giudice di merito all'esame della S.C., sotto il profilo della violazione del parametro integrativo della clausola generale costituito dalle previsioni del codice disciplinare.

Cass. civ. n. 7305/2018

L'attività di integrazione del precetto normativo di cui all'art. 2119 c.c. (norma cd. elastica), compiuta dal giudice di merito - ai fini della individuazione della giusta causa di licenziamento - non può essere censurata in sede di legittimità allorquando detta applicazione rappresenti la risultante logica e motivata della specificità dei fatti accertati e valutati nel loro globale contesto, mentre rimane praticabile il sindacato di legittimità ex art. 360, n. 3, c.p.c. nei casi in cui gli "standards" valutativi, sulla cui base è stata definita la controversia, finiscano per collidere con i principi costituzionali, con quelli generali dell'ordinamento, con precise norme suscettibili di applicazione in via estensiva o analogica, o si pongano in contrasto con regole che si configurano, per la costante e pacifica applicazione giurisprudenziale e per il carattere di generalità assunta, come diritto vivente.

Cass. civ. n. 18836/2017

Qualora il licenziamento sia intimato per giusta causa e siano stati contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, ciascuno di essi autonomamente considerato costituisce base idonea per giustificare la sanzione. Non è dunque il datore di lavoro a dover provare di aver licenziato solo per il complesso delle condotte addebitate, bensì la parte che ne ha interesse, ossia il lavoratore, a dover provare che solo presi in considerazione congiuntamente, per la loro gravità complessiva, i singoli episodi fossero tali da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro.

Cass. civ. n. 8826/2017

La valutazione in ordine alla legittimità del licenziamento disciplinare di un lavoratore per una condotta contemplata, a titolo esemplificativo, da una norma del contratto collettivo fra le ipotesi di licenziamento per giusta causa deve essere, in ogni caso, effettuata attraverso un accertamento in concreto, da parte del giudice di merito, della reale entità e gravità del comportamento addebitato al dipendente, nonché del rapporto di proporzionalità tra sanzione ed infrazione, anche quando si riscontri l'astratta corrispondenza di quel comportamento alla fattispecie tipizzata contrattualmente, occorrendo sempre che la condotta sanzionata sia riconducibile alla nozione legale di giusta causa, tenendo conto della gravità del comportamento in concreto del lavoratore, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo, con valutazione in senso accentuativo rispetto alla regola della "non scarsa importanza" dettata dall'art. 1455 c.c. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che, attraverso un'ampia ricostruzione dei fatti, effettuata sulla base dell'istruttoria giudiziale, aveva evidenziato la sussistenza, nella diretta e personale condotta del lavoratore, di tutti gli elementi oggettivi e soggettivi idonei a legittimare il licenziamento per giusta causa senza preavviso).

Cass. civ. n. 8816/2017

In tema di licenziamento per giusta causa, la modesta entità del fatto addebitato non va riferita alla tenuità del danno patrimoniale subito dal datore di lavoro, dovendosi valutare la condotta del prestatore di lavoro sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai suoi futuri comportamenti, nonché all'idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e ad incidere sull'elemento essenziale della fiducia, sotteso al rapporto di lavoro. (Nella specie, la S.C., confermando la sentenza impugnata, ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad un tecnico addetto alla manovra dei treni, il quale, durante il turno di lavoro, si era impossessato di circa venti litri di gasolio, prelevati dal carrello che conduceva).

Cass. civ. n. 8718/2017

Il datore di lavoro non può irrogare un licenziamento per giusta causa quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata infrazione. (Nella specie, la S.C., confermando la sentenza impugnata, ha ritenuto sproporzionata, in relazione alle previsioni del contratto collettivo applicabile, la sanzione del licenziamento irrogata ad un dipendente postale che, in congedo straordinario per due mesi, al fine di assistere la madre portatrice di handicap, aveva omesso di comunicare, come imposto per fruire del beneficio, che quest'ultima, dopo una settimana dall’inizio del suddetto periodo, era stata ricoverata, ed aveva confermato la circostanza del non ricovero con una mendace dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà).

Cass. civ. n. 7127/2017

In tema di licenziamento disciplinare, non è rilevante l'assoluzione in sede penale circa i fatti oggetto di contestazione, bensì l'idoneità della condotta a ledere la fiducia del datore di lavoro, al di là della sua configurabilità come reato, e la prognosi circa il pregiudizio che agli scopi aziendali deriverebbe dalla continuazione del rapporto.(Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di appello che aveva ravvisato l'ipotesi del trafugamento di beni aziendali, di cui all'art. 25 del c.c.n.l. metalmeccanici del 7 maggio 2003, nonostante l'assoluzione del dipendente in sede penale con la formula "perché il fatto non costituisce reato").

Cass. civ. n. 4125/2017

In tema di licenziamento disciplinare, non ne integra giusta causa o giustificato motivo soggettivo la condotta del lavoratore che denunci all’autorità giudiziaria o amministrativa competenti fatti di reato o illeciti amministrativi commessi dal datore di lavoro, salvo che risulti il carattere calunnioso della denuncia o la consapevolezza dell’insussistenza dell’illecito, sempre che il lavoratore si sia astenuto da iniziative volte a dare pubblicità a quanto portato a conoscenza delle autorità competenti.

Cass. civ. n. 24259/2016

In tema di licenziamento per giusta causa, solo una condotta posta in essere mentre il rapporto di lavoro è in corso può integrare "stricto iure" una responsabilità disciplinare del dipendente, diversamente non configurandosi neppure un obbligo di diligenza e/o di fedeltà ex artt. 2104 e 2105 c.c. e, quindi, la sua ipotetica violazione sanzionabile ai sensi dell'art. 2106 c.c.; condotte costituenti reato, sebbene realizzate prima dell'instaurarsi del rapporto di lavoro, ed anche a prescindere da apposita previsione contrattuale, possono, tuttavia, integrare giusta causa di licenziamento, purché siano state giudicate con sentenza di condanna irrevocabile intervenuta a rapporto ormai in atto e si rivelino - attraverso una verifica giurisdizionale da effettuarsi sia in astratto sia in concreto - incompatibili con il permanere di quel vincolo fiduciario che lo caratterizza

Cass. civ. n. 24023/2016

In tema di licenziamento per giusta causa, l'onere di allegazione dell'incidenza, irrimediabilmente lesiva del vincolo fiduciario, del comportamento extralavorativo del dipendente sul rapporto di lavoro (nella specie, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti), è assolto dal datore di lavoro con la specifica deduzione del fatto in sé, quando lo stesso abbia un riflesso, anche solo potenziale ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto compromettendo le aspettative di un futuro puntuale adempimento, in relazione alle specifiche mansioni o alla particolare attività, perché di gravità tale, per contrarietà alle norme dell'etica e del vivere comuni, da connotare la figura morale del lavoratore, tanto più se inserito in un ufficio di rilevanza pubblica a contatto con gli utenti.

Cass. civ. n. 18715/2016

La giusta causa di licenziamento, quale clausola generale, viene integrata valutando una molteplicità di elementi fattuali, la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., solo ove si denunci che la combinazione ed il peso dei dati fattuali, come definiti ed accertati dal giudice di merito, non ne consentono la riconduzione alla nozione legale; al contrario, l'omesso esame di un parametro, tra quelli individuati dalla giurisprudenza, avente valore decisivo, nel senso che l'elemento trascurato avrebbe condotto ad un diverso esito della controversia, va denunciato come vizio di cui all'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., ferma, in tal caso, la possibilità di argomentare successivamente che tale vizio avrebbe cagionato altresì un errore di sussunzione per falsa applicazione di legge.

Cass. civ. n. 18513/2016

Il principio di non colpevolezza fino alla condanna definitiva, di cui all'art. 27, comma 2, Cost., concerne le garanzie relative all'attuazione della pretesa punitiva dello Stato, e non può quindi applicarsi, in via analogica o estensiva, all'esercizio da parte del datore di lavoro della facoltà di recesso per giusta causa in ordine ad un comportamento del lavoratore suscettibile di integrare gli estremi del reato, se i fatti commessi siano di tale gravità da determinare una situazione di improseguibilità, anche provvisoria, del rapporto, senza necessità di attendere la sentenza definitiva di condanna, neppure nel caso in cui il c.c.n.l. preveda la più grave sanzione espulsiva solo in tale circostanza. Ne consegue che il giudice, davanti al quale sia impugnato un licenziamento disciplinare, intimato a seguito del rinvio a giudizio del lavoratore, per gravi reati potenzialmente incidenti sul rapporto fiduciario - ancorché non commessi nello svolgimento del rapporto -, non può limitarsi alla valutazione del dato oggettivo del rinvio a giudizio, ma deve accertare l'effettiva sussistenza dei fatti contestati e la loro idoneità, per i profili soggettivi ed oggettivi, a supportare la massima sanzione disciplinare.

Cass. civ. n. 17912/2016

L' irrogazione al lavoratore di una sanzione conservativa in luogo di quella espulsiva, pure astrattamente applicabile in forza di previsione contrattuale, comporta la consumazione definitiva del potere disciplinare del datore di lavoro, sicché è illegittimo il licenziamento intimato per gli stessi fatti. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di appello che, aveva annullato il licenziamento comminato dopo una sospensione disposta per una quarta mancanza che, ai sensi dell'art. 225 del c.c.n.l. aziende del terziario del 18 luglio 2008, avrebbe consentito già di intimare il recesso per recidiva oltre la terza volta nell'anno solare).

Cass. civ. n. 16629/2016

In caso di impossessamento di documenti aziendali da parte del lavoratore, al fine di esercitare il diritto di difesa in giudizio, cui va in ogni caso riconosciuta prevalenza rispetto alle eventuali esigenze di segretezza dell'azienda, occorre valutare la legittimità delle modalità di apprensione ed impossessamento, posto che le stesse potrebbero di per sé concretare ipotesi delittuose o, comunque, integrare giusta causa di licenziamento per violazione dell'art. 2105 c.c., ove in contrasto con i criteri comportamentali imposti dal dovere di fedeltà e dai canoni di correttezza e buona fede, sì da ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di appello che aveva ritenuto idonee a legittimare il licenziamento le modalità di apprensione della documentazione, consistenti nella registrazione di una conversazione tra presenti all'insaputa dei partecipanti e nell'impossessamento di una e-mail non destinata alla visione del lavoratore).

Cass. civ. n. 14375/2016

In caso di licenziamento per giusta causa, dovuto alla perdurante assenza dal servizio del lavoratore presso una nuova sede di destinazione, spetta al datore di lavoro l'onere di provare la legittimità dell'ordine di trasferimento, quale fondamento della giusta causa, mediante l'allegazione delle sottese esigenze organizzative che lo giustificano ai sensi dell'art. 2103 c.c., mentre il lavoratore può limitarsi ad impugnare il licenziamento, sostenendo l'illegittimità dell'ordine inadempiuto, senza alcun onere iniziale di contestazione di fatti la cui prova ed allegazione ricade sul datore di lavoro.

Cass. civ. n. 13512/2016

Al fine di ritenere integrata la giusta causa di licenziamento, non è necessario che l'elemento soggettivo della condotta del lavoratore si presenti come intenzionale o doloso, nelle sue possibili e diverse articolazioni, posto che anche un comportamento di natura colposa, per le caratteristiche sue proprie e nel convergere degli altri indici della fattispecie, può risultare idoneo a determinare una lesione del vincolo fiduciario così grave ed irrimediabile da non consentire l'ulteriore prosecuzione del rapporto. (Omissis).

Cass. civ. n. 6901/2016

In tema di licenziamento disciplinare, costituisce giusta causa di recesso la condotta del dipendente di un istituto di credito che abbia effettuato abusive operazioni di addebito/accredito sui depositi di ignari correntisti, indipendentemente dal conseguimento di un utile personale e dalla sussistenza di un pregiudizio economico effettivo, trattandosi di comportamento, astrattamente sanzionabile anche in sede penale, idoneo a compromettere irrimediabilmente l'elemento fiduciario sotteso al rapporto di lavoro, posto in essere in violazione delle procedure interne, dei diritti dei correntisti e dello specifico interesse datoriale al mantenimento di una affidabile e trasparente organizzazione del lavoro.

Cass. civ. n. 3294/2016

In tema di visite mediche di controllo dei lavoratori subordinati assenti per malattia, l'ingiustificata assenza alla visita può essere integrata da qualsiasi condotta che sia valsa ad impedire l'esecuzione della verifica sanitaria per incuria, negligenza o altro motivo non apprezzabile sul piano giuridico e sociale, restando in capo al lavoratore sia l'onere di provare il rispetto del dovere di diligenza riguardo alla necessità dell'allontanamento sia l'onere di comunicazione tempestiva dello stesso agli organi ispettivi. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito con cui era stata ritenuta ingiustificata l'assenza del lavoratore che aveva accompagnato la sorella per presenziare al ricovero in ospedale del figlio di lei a seguito di un grave incidente stradale, non avendo il dipendente provato né l'indifferibilità dello spostamento né l'impossibilità di avvisare il datore e l'INPS).

Cass. civ. n. 1978/2016

In tema di licenziamento per giusta causa, le condotte omissive non rientranti tra quelle contrattualmente dovute, o che, comunque, non risultino ad esse complementari o accessorie, ai fini di una più utile esecuzione della prestazione lavorativa, non integrano la violazione dell'obbligo di diligenza; né tali condotte costituiscono violazione dell'obbligo di fedeltà, inteso come generale dovere di leale cooperazione nei confronti del datore, qualora risultino connesse a superiori livelli di controllo e responsabilità, in un'impresa caratterizzata da un'accentuata complessità e articolazione organizzativa. (Nella specie, la S.C. ha escluso la giusta causa di licenziamento del dipendente, addetto ai magazzini, per non essersi astenuto dal porre in essere, durante l'orario di lavoro e nei locali aziendali, "avances, battute e toccamenti reciproci", nonché per non avere informato il datore circa la reiterata presenza, all'interno dei suddetti locali e in orario di lavoro, di una persona in evidente stato di bisogno e con gravi problemi psichici, che si intratteneva, con siffatte modalità, con altri dipendenti).

In tema di licenziamento per giusta causa, nella valutazione dell'idoneità della condotta extra-lavorativa del dipendente ad incidere sulla persistenza dell'elemento fiduciario, occorre avere riguardo anche alla natura e alla qualità del rapporto, al vincolo che esso comporta e al grado di affidamento richiesto dalle mansioni espletate. (Nella specie, la S.C. ha escluso la giusta causa di licenziamento del dipendente, addetto al magazzino, cui era stato contestato di avere approfittato, al di fuori del suo orario di lavoro, all'interno della propria autovettura parcheggiata nei pressi dei locali aziendali, di una persona in evidente stato di bisogno e con gravi problemi psichici).

Cass. civ. n. 21017/2015

La sussistenza in concreto di una giusta causa di licenziamento va accertata in relazione sia della gravità dei fatti addebitati al lavoratore - desumibile dalla loro portata oggettiva e soggettiva, dalle circostanze nelle quali sono stati commessi nonché dall'intensità dell'elemento intenzionale -, sia della proporzionalità tra tali fatti e la sanzione inflitta, con valutazione dell'inadempimento in senso accentuativo rispetto alla regola generale della "non scarsa importanza" dettata dall'art. 1455 c.c. (Nella specie, relativa al licenziamento di un lavoratore che aveva aggredito verbalmente, con pesanti offese non seguite da vie di fatto, un collega al quale aveva in precedenza chiesto una collaborazione sul posto di lavoro, la S.C., nel cassare la decisione impugnata, ha sottolineato che il contratto collettivo applicabile offriva una indicazione di irrilevanza, ai fini della sanzione espulsiva, di condotte litigiose non seguite da vie di fatto e che, inoltre, l'incolpato si era alterato con il collega per aver quest'ultimo immediatamente riferito al superiore di aver ricevuto la richiesta di collaborazione, provocando a suo carico un rimprovero da parte del datore di lavoro).

Cass. civ. n. 9900/2015

La distruzione da parte del dipendente di beni aziendali, quali sono i dati aziendali memorizzati nel personal computer, costituisce violazione dei doveri di fedeltà e di diligenza ed integra, pertanto, giusta causa di licenziamento.

Cass. civ. n. 2902/2015

In materia di licenziamento disciplinare, l'immediatezza della contestazione integra elemento costitutivo del diritto di recesso del datore di lavoro in quanto, per la funzione di garanzia che assolve, l'interesse del datore di lavoro all'acquisizione di ulteriori elementi a conforto della colpevolezza del lavoratore non può pregiudicare il diritto di quest'ultimo ad una pronta ed effettiva difesa, sicché, ove la contestazione sia tardiva, resta precluso l'esercizio del potere e la sanzione irrogata è invalida. (Omissis).

Cass. civ. n. 776/2015

La condotta illecita extralavorativa è suscettibile di rilievo disciplinare poiché il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta ma anche, quale obbligo accessorio, a non porre in essere, fuori dall'ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiale del datore di lavoro o compromettere il rapporto fiduciario con lo stesso; tali condotte possono anche determinare l'irrogazione della sanzione espulsiva ove siano presenti caratteri di gravità, da apprezzarsi diversamente in relazione alla natura privatistica o pubblicistica dell'attività svolta. Ne consegue la legittimità del licenziamento intimato ad un lavoratore attinto da condanna penale per usura ed estorsione, ove il datore sia una società a partecipazione pubblica, erogatrice di un servizio pubblico (nella specie, Poste italiane S.p.A.), poiché l'assoggettamento dell'attività ai principi di imparzialità e buon andamento, di cui agli artt. 3 e 97 Cost., comporta che il lavoratore è tenuto, anche fuori dal lavoro, ad assicurare affidabilità nei confronti del datore di lavoro e dell'utenza.

Cass. civ. n. 26106/2014

In materia di licenziamento per giusta causa, non costituisce illecito disciplinare, né fattispecie determinativa di danno ingiusto - grazie alla scriminante di cui all'art. 598, primo comma, cod. pen., avente valenza generale nell'ordinamento - attribuire al proprio datore di lavoro, in uno scritto difensivo, atti o fatti, pur non rispondenti al vero, concernenti in modo diretto ed immediato l'oggetto della controversia, ancorché tale scritto contenga, in ipotesi, espressioni sconvenienti od offensive (soggette solo alla disciplina prevista dall'art. 89 cod. proc. civ.).

Cass. civ. n. 25608/2014

Non costituisce giusta causa o giustificato motivo di licenziamento una mera svista commessa dal lavoratore nell'espletamento delle proprie mansioni e priva di conseguenze dannose per il datore di lavoro e/o per terzi. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto legittimo il licenziamento irrogato al dipendente di una banca che, operando al terminale, aveva erroneamente addebitato un'operazione di prelievo sul conto corrente di un cliente diverso da quello che aveva l'aveva ordinata).

Cass. civ. n. 22388/2014

L'avvenuta irrogazione al dipendente di una sanzione conservativa per condotte di rilevanza penale esclude che, a seguito del passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna per i medesimi fatti, possa essere intimato il licenziamento disciplinare, non essendo consentito (in linea con quanto affermato dalla Corte EDU, sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens ed altri contro Italia, che ha affermato la portata generale, estesa a tutti i rami del diritto, del principio del divieto di "ne bis in idem"), per il principio di consunzione del potere disciplinare, che una identica condotta sia sanzionata più volte a seguito di una diversa valutazione o configurazione giuridica.

Cass. civ. n. 19684/2014

In tema di licenziamento per giusta causa, la modesta entità del fatto addebitato non va riferita alla tenuità del danno patrimoniale subito dal datore di lavoro, dovendosi valutare la condotta del prestatore di lavoro sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai suoi futuri comportamenti, nonché all'idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento e ad incidere sull'elemento essenziale della fiducia, sotteso al rapporto di lavoro. (Nella specie, la S.C., confermando la sentenza di merito, ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad una prestatrice di lavoro che, quale addetta al reparto abbigliamento e ai camerini di prova di un grande magazzino, aveva intenzionalmente cambiato i talloncini segnaprezzo di due capi di abbigliamento, al fine di acquistare il capo più caro al minor prezzo).

Cass. civ. n. 19612/2014

In tema di licenziamento disciplinare, costituisce giusta causa di recesso la condotta del direttore di una filiale bancaria che abbia riferito ad un cliente la richiesta di accertamenti disposti dalla autorità giudiziaria, trattandosi di condotta idonea a compromettere irrimediabilmente l'elemento fiduciario sotteso al rapporto di lavoro e di porre in dubbio la futura correttezza dell'obbligazione lavorativa in funzione di leciti interessi aziendali, tra i quali rientra (anche) per un istituto di credito, quello di poter contare sulla esecuzione della prestazione richiesta in conformità alle direttive aziendali, così da non essere esposto a potenziali responsabilità ex art. 2049 cod. civ.

Cass. civ. n. 17625/2014

Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia è idonea a giustificare il recesso del datore di lavoro per violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà ove tale attività esterna, prestata o meno a titolo oneroso, sia per sé sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una sua fraudolente simulazione, ovvero quando, valutata in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, l'attività stessa possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore, ferma restando la necessità che, nella contestazione dell'addebito, emerga con chiarezza il profilo fattuale, così da consentire una adeguata difesa da parte del lavoratore.

Cass. civ. n. 14103/2014

In tema di procedimento disciplinare, ai fini dell'accertamento della sussistenza del requisito della tempestività della contestazione, in caso di intervenuta sospensione cautelare di un lavoratore sottoposto a procedimento penale, la contestazione disciplinare per i relativi fatti ben può essere differita dal datore di lavoro in relazione alla pendenza del procedimento penale stesso, anche in ragione delle esigenze di tutela del segreto istruttorio.

Cass. civ. n. 12806/2014

In tema di licenziamento disciplinare, l'immediatezza del provvedimento espulsivo rispetto alla mancanza addotta a sua giustificazione ovvero a quello della contestazione, si configura quale elemento costitutivo del diritto al recesso del datore di lavoro, in quanto la non immediatezza della contestazione o del provvedimento espulsivo induce ragionevolmente a ritenere che il datore di lavoro abbia soprasseduto al licenziamento ritenendo non grave o comunque non meritevole della massima sanzione la colpa del lavoratore, con la precisazione che detto requisito va inteso in senso relativo, potendo essere compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo, quando l'accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell'impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso, restando comunque riservata al giudice del merito la valutazione delle circostanze di fatto che in concreto giustificano o meno il ritardo. (Omissis).

Cass. civ. n. 20719/2013

In tema di licenziamento disciplinare, l'immediatezza del provvedimento espulsivo rispetto alla mancanza addotta a sua giustificazione ovvero a quello della contestazione, si configura quale elemento costitutivo del diritto al recesso del datore di lavoro, in quanto la non immediatezza della contestazione o del provvedimento espulsivo induce ragionevolmente a ritenere che il datore di lavoro abbia soprasseduto al licenziamento ritenendo non grave o comunque non meritevole della massima sanzione la colpa del lavoratore, con la precisazione che detto requisito va inteso in senso relativo, potendo essere compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo, quando l'accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell'impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso, restando comunque riservata al giudice del merito la valutazione delle circostanze di fatto che in concreto giustificano o meno il ritardo. (Nella specie, la S.C., nel rigettare il ricorso, ha ritenuto corretta la declaratoria di illegittimità del licenziamento di un lavoratore postale - irrogato a due mesi di distanza dalla contestazione - tenuto conto che il dipendente si era assunto la responsabilità dell'ammanco di denaro, già compiutamente ripianato prima della contestazione, e che, anche dopo quest'ultima, lo stesso era stato adibito - quasi a conferma della fiducia del datore di lavoro - nelle medesime mansioni di sportello comportanti una responsabilità di cassa).

Cass. civ. n. 10553/2013

Il rifiuto di adempimento della prestazione da parte del lavoratore, può ritenersi conforme a buona fede - in applicazione del principio "inademplenti non est adimplendum" ex art. 1460, secondo comma, cod. civ. - e trovare giustificazione nella mancata predisposizione di misure idonee a tutelare l'integrità fisica del prestatore di lavoro, escludendo la legittimità del licenziamento comminato a suo carico, solo quando questi abbia preliminarmente provveduto ad informare la controparte circa le misure necessarie da adottare ovvero ad evidenziare l'inidoneità di quelle in concreto adottate.

Cass. civ. n. 10550/2013

Ai fini della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento, qualora risulti accertato che l'inadempimento del lavoratore licenziato sia stato tale da compromettere irrimediabilmente il rapporto fiduciario, è di regola irrilevante che un'analoga inadempienza, commessa da altro dipendente, sia stata diversamente valutata dal datore di lavoro; nondimeno, l'identità delle situazioni riscontrate può essere valorizzata dal giudice per verificare la proporzionalità della sanzione adottata, privando, così, il provvedimento espulsivo della sua base giustificativa. (Nel caso di specie, è stata esclusa la legittimità del licenziamento disciplinare comminato al dipendente di una società di telefonia, in relazione all'abusivo utilizzo del telefono cellulare assegnatogli per ragioni di servizio, valorizzando - unitamente ad altri elementi, come l'assenza di frode o raggiri, la facile verificabilità del comportamento, la contenuta entità del danno e la disponibilità del lavoratore a risarcirlo - la circostanza che per altri dipendenti in situazioni analoghe, fatta eccezione per cinque di loro del pari licenziati, era stata invece irrogata una sanzione conservativa).

Cass. civ. n. 3532/2013

Nell'ambito di un licenziamento per motivi disciplinari, il principio di immediatezza della contestazione, pur dovendo essere inteso in senso relativo, comporta che l'imprenditore porti a conoscenza del lavoratore i fatti contestati non appena essi gli appaiono ragionevolmente sussistenti, non potendo egli legittimamente dilazionare la contestazione fino al momento in cui ritiene di averne assoluta certezza, pena l'illegittimità del licenziamento. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto il principio correttamente applicato dalla Corte di merito che aveva annullato, in quanto illegittimo, il licenziamento irrogato dopo diverso tempo a dipendente che, in sede ispettiva, immediatamente aveva ammesso gli addebiti, ritenendo che la società sin da tale momento era in possesso di tutti gli elementi per decidere se procedere alla contestazione disciplinare degli stessi e, quindi, di valutare la sanzione disciplinare da irrogare senza alcuna necessità di attendere, come poi era invece avvenuto, l'esito delle indagini svolte in sede penale).

Cass. civ. n. 2168/2013

I comportamenti tenuti dal lavoratore nella vita privata ed estranei perciò all'esecuzione della prestazione lavorativa, se, in genere, sono irrilevanti, possono tuttavia costituire giusta causa di licenziamento allorché siano di natura tale da compromettere la fiducia del datore di lavoro nel corretto espletamento del rapporto, in relazione alle modalità concrete del fatto e ad ogni altra circostanza rilevante in relazione alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, nonché alla portata soggettiva del fatto stesso. (Nella specie il giudice di merito, con la sentenza confermata dalla S.C., aveva ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa intimato a un dipendente postale che aveva patteggiato una pena per il reato di violenza sessuale, attribuendo rilevanza al "forte disvalore sociale" dei fatti e all'eco avutane nella stampa, nonché alla posizione del dipendente, quale coordinatore di circa trenta unità addette al recapito, in ragione della responsabilità e preminenza rispetto ai componenti della squadra, attribuendo rilievo al fatto che le condotte poste in essere fossero connotate da un "abuso delle funzioni di guida e responsabilità connesse alla veste di capo della comunità religiosa").

Cass. civ. n. 21253/2012

Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia può giustificare il recesso del datore di lavoro, in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, oltre che nell'ipotesi in cui tale attività esterna sia per sé sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una fraudolenta simulazione, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio "ex ante" in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio, con conseguente irrilevanza della tempestiva ripresa del lavoro alla scadenza del periodo di malattia.

Cass. civ. n. 2720/2012

Ai fini del licenziamento per giusta causa, rileva soltanto la mancanza del lavoratore tanto grave da giustificare l'irrogazione della sanzione espulsiva, dovendosi valutare il comportamento del prestatore nel suo contenuto oggettivo - ossia con riguardo alla natura e alla qualità del rapporto, al vincolo che esso comporta e al grado di affidamento che sia richiesto dalle mansioni espletate - ma anche nella sua portata soggettiva, e, quindi, con riferimento alle particolari circostanze e condizioni in cui è stato posto in essere, ai modi, agli effetti e all'intensità dell'elemento volitivo dell'agente. (Nella specie, relativa a licenziamento per grave danneggiamento dei beni aziendali, la S.C., in applicazione del principio, ha respinto il ricorso del datore di lavoro avverso la decisione di merito che aveva dichiarato illegittima la sanzione espulsiva, in quanto il prestatore, immune da anteriori rilievi disciplinari, si era trovato, al momento della condotta, in difetto di autocontrollo per stato depressivo, accertato da consulenza medico-legale).

Cass. civ. n. 2013/2012

In tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento, denotando scarsa inclinazione all'attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza; spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta dell'addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un'utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all'intensità dell'elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all'assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo. (Nella specie, 1a S.C., in applicazione del principio, ha cassato la decisione del giudice di merito, che, affermando la congruità del licenziamento disciplinare di un funzionario di banca, aveva omesso di valutare come questi non avesse riportato sanzioni nel corso di un rapporto durato oltre quindici anni ed avesse evaso le pratiche di erogazione del credito secondo una prassi lungamente tollerata dall'azienda e censurata soltanto all'emergere delle sofferenze).

Cass. civ. n. 1995/2012

In materia di licenziamento disciplinare, il principio dell'immediatezza della contestazione, che trova fondamento nell'art. 7, terzo e quarto comma, legge 20 maggio 1970, n. 300, mira, da un lato, ad assicurare al lavoratore incolpato il diritto di difesa nella sua effettività, e, dall'altro, ad assicurare che il potere datoriale sia esplicato secondo canoni di buona fede ostativi a che lo stesso possa servirsi "ad libitum" dell'arma del recesso. Ne consegue che, al contrario, dev'escludersi sia configurabile una violazione del suddetto principio per il solo fatto che il datore, su richiesta dello stesso prestatore motivata dalla finalità di attenuare la propria responsabilità, abbia differito l'esercizio del potere in questione. (Nella specie, il lavoratore aveva chiesto di procrastinare il licenziamento per sanare la propria sofferenza e limitare le proprie responsabilità agevolando il rientro debitorio del soggetto a favore del quale aveva autorizzato, e direttamente realizzato, operazioni non conformi alle disposizioni aziendali).

Cass. civ. n. 17092/2011

Nel giudicare se la violazione disciplinare addebitata al lavoratore abbia compromesso la fiducia necessaria ai fini della permanenza del rapporto di lavoro e, quindi, costituisca giusta causa di licenziamento va tenuto presente che è differenziata l'intensità della fiducia richiesta, a seconda della natura e della qualità del singolo rapporto, della posizione delle parti, dell'oggetto delle mansioni e del grado di affidamento che queste richiedono e che il fatto concreto va valutato nella sua portata oggettiva e soggettiva, attribuendo rilievo determinante, ai fini in esame, alla potenzialità del medesimo di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento.

Cass. civ. n. 16283/2011

In tema di licenziamento disciplinare o per giusta causa, la valutazione della gravità del fatto in relazione al venir meno del rapporto fiduciario che deve sussistere tra le parti non va operata in astratto ma con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidabilità richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, nonché alla portata soggettiva del fatto, ossia alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi e all'intensità dell'elemento intenzionale o di quello colposo. (Principio affermato ai sensi dell'art. 360 bis, comma 1, c.p.c.).

Cass. civ. n. 13353/2011

In materia di licenziamenti disciplinari, deve escludersi che, ove un determinato comportamento del lavoratore, invocato dal datore di lavoro come giusta causa di licenziamento, sia contemplato dal contratto collettivo come integrante una specifica infrazione disciplinare cui corrisponda una sanzione conservativa, essa possa formare oggetto di una autonoma e più grave valutazione da parte del giudice, a meno che non accerti che le parti avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità della sanzione espulsiva. (Nella specie, la S.C., nel rigettare il ricorso, ha rilevato che correttamente il giudice di merito aveva valutato la condotta - costituita dal rifiuto del dipendente di consegnare la posta - alla luce dell'art. 56 n. 4 del c.c.n.l. di settore che prevedeva, in tale evenienza, l'applicazione di sanzioni di tipo solo conservativo).

Cass. civ. n. 7021/2011

In tema di licenziamento disciplinare, l'espresso divieto di svolgere qualsivoglia attività lavorativa da parte del dipendente fruitore di congedo familiare ai sensi dell'art. 4, secondo comma, della legge n. 53 del 2000, non importa che lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente in congedo sia in ogni caso tale da giustificare la sanzione espulsiva, per il solo fatto di aver contravvenuto il suindicato principio, dovendo verificarsi se la diversa attività abbia in concreto compromesso il soddisfacimento degli interessi alla base del congedo e inciso sulla fiducia dal datore di lavoro. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto gli episodi contestati tali da non ledere il vincolo fiduciario o da concretare un grave inadempimento contrattuale, tenuto conto dell'elemento psicologico della condotta del lavoratore, causata dalla necessità di percepire una retribuzione, e della sporadicità dell'attività lavorativa, limitata a quattro giorni in relazione ad un periodo di aspettativa di due mesi, con impegno di poche ore in tre giorni).

Cass. civ. n. 6375/2011

In tema di licenziamento per giusta causa, la condotta del lavoratore, che, in ottemperanza delle prescrizioni del medico curante, si sia allontanato dalla propria abitazione e abbia ripreso a compiere attività della vita privata - la cui gravosità non è comparabile a quella di una attività lavorativa piena - senza svolgere una ulteriore attività lavorativa, non è idonea a configurare un inadempimento ai danni dell'interesse del datore di lavoro, dovendosi escludere che il lavoratore sia onerato a provare, a ulteriore conferma della certificazione medica, la perdurante inabilità temporanea rispetto all'attività lavorativa, laddove è a carico del datore di lavoro la dimostrazione che, in relazione alla natura degli impegni lavorativi attribuiti al dipendente, il suddetto comportamento contrasti con gli obblighi di buona fede e correttezza nell'esecuzione del rapporto di lavoro.

Cass. civ. n. 4060/2011

La giusta causa di licenziamento è nozione legale e il giudice non è vincolato dalle previsioni del contratto collettivo; ne deriva che il giudice può ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento, secondo un apprezzamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore; per altro verso, il giudice può escludere altresì che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato.

Cass. civ. n. 37/2011

Ai fini della legittimità del licenziamento disciplinare irrogato per un fatto astrattamente costituente reato, non rileva la valutazione penalistica del fatto né la sua punibilità in sede penale, né la mancata attivazione del processo penale per il medesimo fatto addebitato, dovendosi effettuare una valutazione autonoma in ordine alla idoneità del fatto a integrare gli estremi della giusta causa o giustificato motivo del recesso. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, con la quale era stata ritenuta la legittimità della sanzione disciplinare espulsiva irrogata a dipendente che aveva fatto indebito uso della propria abilitazione - password - per inserire nel sistema informatico della società dati relativi alla propria posizione retributiva, onde ottenere l'accreditamento di spettanze non dovute).

Cass. civ. n. 35/2011

Per stabilire in concreto l'esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario, e la cui prova incombe sul datore di lavoro, occorre valutare da un lato la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all'intensità dell'elemento internazionale, dall'altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell'elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare, definitivamente espulsiva. La valutazione della gravità dell'infrazione e della sua idoneità ad integrare giusta causa di licenziamento si risolve in un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito ed incensurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato. (Omissis).

Cass. civ. n. 19786/2010

In tema di licenziamento disciplinare, nell'ipotesi in cui il contratto collettivo nazionale di settore ricolleghi la sanzione esclusivamente al fatto di aver riportato condanna penale per determinati titoli di reato, il Collegio arbitrale è privo di apprezzamento discrezionale e non può tenere conto della applicazione delle attenuanti generiche in sede penale, dovendo limitarsi ad irrogare la sanzione a fronte della rigida indicazione contrattuale, atteso che la facoltà di sindacare l'esistenza della giusta causa da parte dell'organo giudicante, pur in presenza di previsione "ad hoc" dei contratti collettivi presuppone l'esistenza una norma "elastica" che non si ravvisa quando di fronte a reati particolarmente gravi commessi nell'ambito del servizio sia prevista la sanzione del licenziamento la quale, pertanto, non può essere derubricata.

Cass. civ. n. 7410/2010

In tema di licenziamento disciplinare, ove sussista un rilevante intervallo temporale tra i fatti contestati e l'esercizio del potere disciplinare, la tempestività di tale esercizio deve essere valutata in relazione al tempo necessario per acquisire conoscenza della riferibilità del fatto, nelle sue linee essenziali, al lavoratore medesimo, la cui prova è a carico del datore di lavoro, senza che possa assumere autonomo ed autosufficiente rilievo la denunzia dei fatti in sede penale o la pendenza stessa del procedimento penale, considerata l'autonomia tra i due procedimenti, l'inapplicabilità, al procedimento disciplinare, del principio di non colpevolezza, stabilito dall'art. 27 Cost. soltanto in relazione al potere punitivo pubblico, e la circostanza che l'eventuale accertamento dell'irrilevanza penale del fatto non determina di per sé l'assenza di analogo disvalore in sede disciplinare. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che, con riferimento ad un dipendente postale, aveva ritenuto violato il principio della immediatezza della contestazione, avvenuta a distanza di diversi anni dai fatti, ritenendo che il tempo trascorso fosse oggettivamente eccessivo e tale da ledere il diritto di difesa del dipendente, ed evidenziando che il datore di lavoro aveva comunque avuto, adeguata cognizione dei fatti fin dagli accertamenti ispettivi).

Cass. civ. n. 5546/2010

Nel licenziamento per giusta causa, il principio dell'immediatezza della contestazione, dell'addebito deve essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, quando l'accertamento e la valutazione dei fatti sia molto laborioso e richieda uno spazio temporale maggiore, e non potendo, nel caso in cui il licenziamento sia motivato dall'abuso di uno strumento di lavoro, ritorcersi a danno del datore di lavoro l'affidamento riposto nella correttezza del dipendente, o equipararsi alla conoscenza effettiva la mera possibilità di conoscenza dell'illecito, ovvero supporsi una tolleranza dell'azienda a prescindere dalla conoscenza che essa abbia degli abusi del dipendente. In ogni caso, la valutazione della tempestività della contestazione costituisce giudizio di merito, non sindacabile in cassazione ove adeguatamente motivato. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che, in riferimento al licenziamento di un dipendente di un'azienda telefonica determinato dall'uso scorretto del telefono cellulare di servizio, consistito nell'invio di decine di migliaia di "s.m.s.", aveva escluso l'intempestività della contestazione, intervenuta a pochi mesi di distanza dall'inizio delle necessarie verifiche, le quali avevano richiesto l'esame di complessi tabulati e prospetti, al fine di distinguere il traffico telefonico di servizio da quello illecito).

Cass. civ. n. 18247/2009

La giusta causa di licenziamento, quale fatto "che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto", configura una norma elastica, in quanto costituisce una disposizione di contenuto precettivo ampio e polivalente destinato ad essere progressivamente precisato, nell'estrinsecarsi della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, fino alla formazione del diritto vivente mediante puntualizzazioni, di carattere generale ed astratto. A tale processo non partecipa invece, la soluzione del caso singolo, se non nella misura in cui da essa sia possibile estrarre una puntualizzazione della norma mediante una massima di giurisprudenza. Ne consegue che, mentre l'integrazione giurisprudenziale della nozione di giusta causa a livello generale ed astratto si colloca sul piano normativo, e consente, pertanto, una verifica di legittimità sotto il profilo della violazione di legge, l'applicazione in concreto del più specifico canone integrativo, cosa ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice di merito, e non è censurabile in sede di legittimità se non per vizio di motivazione insufficiente o contraddittoria.

Cass. civ. n. 13596/2009

È contraria a buona fede, in quanto formulata contra factum proprium, l'eccezione di nullità per tardività del licenziamento disciplinare proposta dal lavoratore che abbia ritardato l'adozione del provvedimento disciplinare richiedendo un'audizione alla quale non si sia presentato a causa di una malattia, frapponendo un ostacolo formale all'intimazione di licenziamento e dilazionando i tempi del procedimento, così dando causa alla presunta nullità del provvedimento.

Cass. civ. n. 13167/2009

In materia di licenziamento disciplinare, il principio dell'immediatezza della contestazione, che trova fondamento nell'art. 7, terzo e quarto comma, legge 20 maggio 1970, n. 300, mira, da un lato, ad assicurare al lavoratore incolpato il diritto di difesa nella sua effettività, così da consentirgli il pronto allestimento del materiale difensivo per poter contrastare più efficacemente il contenuto degli addebiti, e, dall'altro, nel caso di ritardo della contestazione, a tutelare il legittimo affidamento del prestatore - in relazione al carattere facoltativo dell'esercizio del potere disciplinare, nella cui esplicazione il datore di lavoro deve comportarsi in conformità ai canoni della buona fede - sulla mancanza di connotazioni disciplinari del fatto incriminabile, con la conseguenza che, ove la contestazione sia tardiva, si realizza una preclusione all'esercizio del relativo potere e l'invalidità della sanzione irrogata. Né può ritenersi che l'applicazione in senso relativo del principio di immediatezza possa svuotare di efficacia il principio medesimo, dovendosi reputare che, tra l'interesse del datore di lavoro a prolungare le indagini in assenza di una obbiettiva ragione e il diritto del lavoratore ad una pronta ed effettiva difesa, prevalga la posizione di quest'ultimo, tutelata "ex lege", senza che abbia valore giustificativo, a tale fine, la complessità dell'organizzazione aziendale. (Nella specie, relativa ad un dipendente bancario, la S.C., in applicazione dell'anzidetto principio, ha escluso l'immediatezza della contestazione, intervenuta dopo oltre tre mesi dalla ricezione delle risultanze acquisite dall'ispettorato interno, tanto più che il competente servizio faceva parte della medesima Direzione Generale della banca).

Cass. civ. n. 9474/2009

L'espletamento di altra attività, lavorativa ed extralavorativa, da parte del lavoratore durante lo stato di malattia è idoneo a violare i doveri contrattuali di correttezza e buona fede nell'adempimento dell'obbligazione e a giustificare il recesso del datore di lavoro, laddove si riscontri che l'attività espletata costituisca indice di una scarsa attenzione del lavoratore alla propria salute ed ai relativi doveri di cura e di non ritardata guarigione, oltre ad essere dimostrativa dell'inidoneità dello stato di malattia ad impedire comunque l'espletamento di un'attività ludica o lavorativa. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione della corte territoriale che aveva ritenuto non contrastante con i doveri del dipendente nel periodo malattia la condotta di un aiuto medico, con rapporto di lavoro a tempo parziale, che, pendente un ciclo riabilitativo per l'insorgenza di coxoartrosi post-necrotica, guidava una moto di grossa cilindrata, prendeva bagni di mare e prestava attività di direttore sanitario presso altro presidio sanitario).

Cass. civ. n. 2579/2009

In tema di licenziamento per giusta causa, quando vengano contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, pur dovendosi escludere che il giudice di merito possa esaminarli atomisticamente, attesa la necessaria considerazione della loro concatenazione ai fini della valutazione della gravità dei fatti, non occorre che l'esistenza della "causa" idonea a non consentire la prosecuzione del rapporto sia ravvisabile esclusivamente nel complesso dei fatti ascritti, ben potendo il giudice - nell'ambito degli addebiti posti a fondamento del licenziamento dal datore di lavoro - individuare anche solo in alcuni o in uno di essi il comportamento che giustifica la sanzione espulsiva, se lo stesso presenti il carattere di gravità richiesto dall'art. 2119 cod. civ.. (Nella specie, relativa a due condotte di appropriazione indebita, contestate ad un cassiere di banca, e posta in essere mediante doppia contabilizzazione di addebiti sul conto corrente dei clienti, la S.C., nell'affermare il principio di cui alla massima, ha ritenuto la correttezza della decisione della corte territoriale che, pur avendo escluso la riferibilità del primo episodio al lavoratore licenziato, ha valutato il secondo episodio sufficiente a minare definitivamente il vincolo fiduciario nei confronti del dipendente).

Cass. civ. n. 29825/2008

Il principio di non colpevolezza fino alla condanna definitiva sancito dall'art. 27, secondo comma, Cost. concerne le garanzie relative all'attuazione della pretesa punitiva dello Stato, e non può quindi applicarsi, in via analogica o estensiva, all'esercizio da parte del datore di lavoro della facoltà di recesso per giusta causa in ordine ad un comportamento del lavoratore che possa altresì integrare gli estremi del reato, se i fatti commessi siano di tale gravità da determinare una situazione di improseguibilità, anche provvisoria, del rapporto, senza necessità di attendere la sentenza definitiva di condanna, non essendo a ciò di ostacolo neppure la circostanza che il contratto collettivo di lavoro preveda la più grave sanzione disciplinare solo qualora intervenga una sentenza definitiva di condanna; ne consegue che il giudice davanti al quale sia impugnato un licenziamento disciplinare intimato per giusta causa a seguito del rinvio a giudizio del lavoratore con l'imputazione di gravi reati potenzialmente incidenti sul rapporto fiduciario ancorché non commessi nello svolgimento del rapporto deve accertare l'effettiva sussistenza dei fatti riconducibili alla contestazione, idonei ad evidenziare, per i loro profili soggettivi ed oggettivi, l'adeguato fondamento di una sanzione disciplinare espulsiva.

Cass. civ. n. 3226/2008

In tema di controlli sulle assenze per malattia dei lavoratori dipendenti, volti a contrastare il fenomeno dell'assenteismo e basati sull'introduzione di fasce orarie entro le quali devono essere operati dai servizi competenti accessi presso le abitazioni dei dipendenti assenti dal lavoro, ai sensi dell'art. 5, comma quattordicesimo, D.L. 12 settembre 1983, n. 496, convertito con modificazioni dalla legge n. 638 del 1983, la violazione da parte del lavoratore dell'obbligo di rendersi disponibile per l'espletamento della visita domiciliare di controllo entro tali fasce assume rilevanza di per sè, a prescindere dalla presenza o meno dello stato di malattia e può anche costituire giusta causa di licenziamento.

Cass. civ. n. 19232/2007

In tema di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, allorquando vengano contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, il giudice di merito deve esaminarli non partitamente, ma globalmente al fine di verificare se la loro rilevanza complessiva sia tale da minare la fiducia riposta dal datore di lavoro nel dipendente, atteso che la molteplicità degli episodi, oltre ad esprimere un'intensità complessiva maggiore dei singoli fatti, delinea una persistenza che costituisce ulteriore negazione degli obblighi del dipendente ed una potenzialità negativa sul futuro adempimento degli obblighi stessi. Inoltre, ai fini della valutazione della permanenza del rapporto fiduciario tra datore e dipendente va considerato che la fiducia richiesta è di differente intensità a seconda della natura e della qualità del singolo rapporto, della posizione delle parti, dell'oggetto delle mansioni e del grado di affidamento che queste richiedono. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito per non aver considerato complessivamente la condotta della dipendente — infermiera professionale in un ospedale, addetta al blocco operatorio —, nella molteplicità delle contestazioni e dei fatti interni alle singole contestazioni, fra le quali medicinali scaduti, attrezzature e supporti medico chirurgici scaduti, mancata sterilizzazione di mobili e suppellettili, ingiustificata presenza di creme per mani di uso personale, nonché cibi e bevande; per non aver valutato i fatti addebitati nell'ambito della peculiare delicatezza della funzione svolta, della conseguente elevata responsabilità e della fiducia che esigeva; per l'inadeguata valutazione della ritenuta assenza di danno all'immagine di una struttura ospedaliera che la divulgazione della notizia propalata dalla lavoratrice — presenza di medicinali, attrezzature e supporti medico chirurgici scaduti — comportava nei confronti del personale dell'azienda e per la diffusiva potenzialità verso l'esterno).

Cass. civ. n. 14487/2007

Per il licenziamento dovuto a giusta causa riconducibile ad illeciti disciplinari del lavoratore è necessario che il datore di lavoro assolva all'obbligo della preventiva contestazione tempestiva degli addebiti (ai sensi dell'art. 7 della legge n. 300 del 1970), il cui mancato rispetto determina l'illegittimità del provvedimento espulsivo impugnato in sede giudiziale (anche quando, come nella specie, sia prevista convenzionalmente la facoltà concorrente di devolvere la domanda del lavoratore ad un collegio arbitrale) e comporta, con riguardo a lavoratore tutelato ai sensi dell'art. 8 della legge n. 604 del 1966 (come sostituito dall'art. 2 della legge n. 108 del 1990), la medesima conseguenza sanzionatoria costituita dalla condanna del datore di lavoro alla riassunzione del lavoratore o al risarcimento, in favore di quest'ultimo, da computarsi mediante l'erogazione di un'indennità rapportata alla misura indicata dalla stessa norma.

Cass. civ. n. 13633/2007

Con riferimento ad una controversia promossa da un lavoratore per l'impugnazione di un licenziamento irrogato ai sensi dell'art. 34 del contratto collettivo nazionale di lavoro per i dipendenti dell'Ente Poste Italiane 26 novembre 1994, l'interpretazione data dal giudice di merito alla norma collettiva in questione — che al comma 1, lettera g), prevede il licenziamento senza preavviso in caso di condanna del dipendente con sentenza passata in giudicato per fatti che ledono il rapporto fiduciario tra le parti del rapporto di lavoro per gravità, natura del rapporto stesso, mansioni e grado di affidamento — è conforme ai principi di ermeneutica negoziale e, pertanto, è immune da vizi deducibili dinanzi alla Corte di cassazione, ove il giudice stesso abbia dato per accertati anche nel giudizio civile gli stessi fatti materiali ritenuti rilevanti in un precedente giudizio penale conclusosi con sentenza di condanna definitiva, ed abbia proceduto ad autonoma considerazione dei fatti stessi al fine di valutare la loro idoneità ad incidere sul vincolo fiduciario. (Nel caso di specie il dipendente — addetto a mansioni di portalettere — era stato licenziato in quanto condannato con sentenza passata in giudicato alla pena della reclusione per il delitto di cui all'art. 479 c.p. per aver falsamente attestato che il destinatario di una lettera raccomandata era sconosciuto all'indirizzo).

Cass. civ. n. 10547/2007

Nel caso di irrogazione di licenziamento per giusta causa conseguente all'espletamento di procedimento disciplinare, ai fini della valutazione della tempestività della sanzione espulsiva, deve distinguersi tra la contestazione disciplinare, che deve avvenire a ridosso dell'infrazione o del momento in cui il datore ne abbia notizia, e l'irrogazione della sanzione disciplinare, che può avvenire anche a distanza di tempo, ma pur sempre nel rispetto del principio della buona fede, che è matrice fondativa dei doveri sanciti dall'articolo 7 dello statuto dei lavoratori e dall'art. 2106 del codice civile in materia di esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro (Nel caso di specie la Corte ha rigettato il ricorso, proposto per violazione del principio dell'immediatezza della sanzione irrogata rispetto al comportamento censurato, contro una sentenza di merito che aveva ritenuto tempestivo il licenziamento disciplinare di un medico da parte di un'Azienda Ospedaliera dopo il lasso di tempo occorso per acquisire il parere del Comitato dei garanti, atteso che il parere stesso era imposto da una specifica norma della contrattazione collettiva e che l'adempimento a tale disposizione era prova dell'osservanza da parte del datore del principio della buona fede contrattuale).

Cass. civ. n. 27101/2006

Il requisito dell'immediatezza del provvedimento espulsivo rispetto alla contestazione degli addebiti applicabile con riferimento al licenziamento individuale per giusta causa o giustificato motivo soggettivo non si adatta al licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, poiché le ragioni di garanzia e di difesa a tutela del lavoratore — con particolare riferimento all'esigenza di evitare che il lavoratore possa essere esposto a tempo indeterminato al pericolo del licenziamento per i fatti contestatigli, posta a base del suddetto requisito di legittimità — non sussistono nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo (dipendente da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al funzionamento di essa), nel quale occorre solo controllare che ricorrano in concreto le esigenze organizzative poste dal datore di lavoro a fondamento del provvedimento espulsivo.

Cass. civ. n. 16864/2006

In tema di licenziamento individuale per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo (che ha natura ontologicamente disciplinare e al cui procedimento sono applicabili le garanzie procedurali in materia di pubblicità della normativa, di contestazione preventiva dell'addebito e di difesa del lavoratore), ai sensi dell'art. 2119 c.c. o dell'art. 3 della legge n. 604 del 1966, il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione dell'illecito commesso — istituzionalmente rimesso al giudice di merito — si sostanzia nella valutazione della gravità dell'inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso, dovendo tenersi al riguardo in considerazione la circostanza che l'inadempimento, ove provato dal datore di lavoro in assolvimento dell'onere su di lui incombente ex art. 5 della citata legge n. 604 del 1966, deve essere valutato tenendo conto della specificazione in senso accentuativo a tutela del lavoratore rispetto alla regola generale della «non scarsa importanza» di cui all'art. 1455 c.c., sicché l'irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria — durante il periodo di preavviso — del rapporto. A tale stregua, l'assenza di nocumento (o di serio pericolo di nocumento) della sfera patrimoniale del datore di lavoro, se può concorrere a fornire elementi per la valutazione di gravità del comportamento inadempiente, non è decisiva per escludere che possa dirsi irrimediabilmente incrinato il rapporto di fiducia, da valutarsi in concreto in considerazione della realtà aziendale e delle mansioni. (Nella specie, sulla scorta del complessivo principio enunciato, la S.C. ha rigettato il ricorso e confermato l'impugnata sentenza, con la quale, in dipendenza delle circostanze del caso concreto, anche ai fini della valutazione dell'intenzionalità del comportamento del lavoratore, era stata ravvisata la legittimità del licenziamento intimato a quest'ultimo in considerazione della gravità delle violazioni allo stesso addebitate, tali da concretare il giustificato motivo soggettivo, essendo rimasto accertato che il dipendente di un'azienda commerciale si era reiteratamente sottratto all'esecuzione dei propri compiti, avendo, in particolare, «costruito» in una zona lontana dal suo reparto, una sorta di nicchia che gli consentiva di sottrarsi al controllo degli altri dipendenti e dei superiori e di dedicarsi ad attività personali, cosa ponendo in essere una condotta univocamente contraria a buona fede e correttezza nello svolgimento del rapporto di lavoro).

Cass. civ. n. 26249/2005

In tema di giusta causa o giustificato motivo di licenziamento, le assenze dal posto di lavoro di un sindacalista-dipendente di un'organizzazione sindacale, conseguenti allo svolgimento di attività sindacali, non sono suscettibili di assumere rilevanza al fine di incidere sul rapporto fiduciario, che deve sottendere al rapporto di lavoro subordinato, a fronte della condotta tollerante della organizzazione sindacale che mostri di reputare nell'ambito della sua autonomia e discrezionalità compatibili le assenze dette con il rapporto fiduciario stesso.

Cass. civ. n. 13622/2005

La comunicazione di malattia al datore di lavoro prescritta dall'art. 2 del D.L. n. 563 del 1979, convertito in legge n. 33 del 1980, rileva sulla possibilità di prosecuzione del rapporto nella misura in cui la sua omissione impedisca al datore di lavoro di controllare lo stato di malattia e la giustificatezza dell'assenza, ed allo stesso lavoratore di provarla a distanza di tempo, ove si tratti di malattie a carattere transeunte, che non lasciano traccia apprezzabile. Per converso, il lavoratore può provare la giustificatezza dell'assenza, ai sensi dell'art. 2119 c.c., anche successivamente alla malattia, ove sia stato nell'impossibilità incolpevole di effettuare la prescritta comunicazione, ad esempio per gravissima malattia che abbia impedito al medesimo, o ai familiari, perla gravità della situazione clinica e psicologica del momento, di effettuare le prescritte comunicazioni al datore di lavoro. Tali regole trovano applicazione, secondo le circostanze del caso, in base al principio di correttezza e buona fede, anche nella ipotesi di malattia contratta all'estero. (Nella fattispecie la Corte ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto che il comportamento complessivo del lavoratore — il quale, ammalatosi all'estero, si era limitato a trasmettere, via fax, al datore di lavoro, un indecifrabile certificato redatto a mano in lingua portoghese, senza fornire l'indirizzo ove eventualmente effettuare il controllo — non aveva consentito l'accertamento della malattia)

Cass. civ. n. 16260/2004

La previsione di ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta in un contratto collettivo non vincola il giudice, dato che questi deve sempre verificare, stante la inderogabilità della disciplina dei licenziamenti, se quella previsione sia conforme alla nozione di giusta causa, di cui all'art. 2119 c.c., e se, in ossequio al principio generale di ragionevolezza e di proporzionalità, il fatto addebitato sia di entità tale da legittimare il recesso, tenendo anche conto dell'elemento intenzionale che ha sorretto la condotta del lavoratore, salvo il caso in cui il trattamento contrattuale sia più favorevole al lavoratore. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, che aveva ritenuto la condotta del dipendente così grave da giustificare il licenziamento, in quanto questi, approfittando della sua qualifica di addetto al controllo dei fogli di presenza, alterava dolosamente per oltre un anno la documentazione relativa alle sue stesse presenze in ufficio, in modo da risultare in servizio anche quando era assente per ferie o per malattia).

Cass. civ. n. 15383/2004

Non è ravvisabile una giusta causa di licenziamento ove la contestazione degli addebiti avvenga a distanza di anni dall'accertamento, in seguito ad indagine ispettiva interna all'impresa, dei fatti denunciati poi all'autorità giudiziaria, non essendo necessario attendere la conclusione del procedimento penale di primo grado, soprattutto quando il datore di lavoro, come nella specie, si sia astenuto dall'adottare misure cautelari.

Cass. civ. n. 15373/2004

Premesso che i fatti addebitati al lavoratore e posti a fondamento del licenziamento per giusta causa possono inerire anche alla sua vita privata, purché idonei ad incidere sulla possibilità della prosecuzione del rapporto di lavoro, a maggior ragione assume rilevanza ai suddetti fini la condotta tenuta dal lavoratore in un precedente rapporto di lavoro, tanto più se omogeneo a quello in cui il fatto viene in considerazione, rilevando in tale caso non come addebito di natura disciplinare, ma quale giusta causa di licenziamento. Il relativo accertamento costituisce apprezzamento di fatto, riservato al giudice del merito e incensurabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione congrua e immune da vizi, fermo restando che, nell'ipotesi di dipendenti di istituti di credito, l'idoneità del comportamento contestato a ledere il rapporto fiduciario — rapporto che è più intenso nel settore bancario — deve essere valutata con particolare rigore e a prescindere dalla sussistenza di un danno effettivo per il datore di lavoro, fermo restando altresì che il giudice civile può procedere autonomamente all'accertamento dei fatti addebitati al dipendente anche se a carico di quest'ultimo penda un procedimento penale, tanto più allorquando tra i comportamenti rilevanti in sede penale e in sede civile non vi sia piena sovrapposizione. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto giustificato il licenziamento intimato a un dipendente di un istituto bancario ravvisando una giusta causa nei comportamenti inadempienti tenuti dal lavoratore stesso nel contesto di un precedente rapporto di lavoro intrattenuto con altro istituto di credito).

Cass. civ. n. 7724/2004

Il giudizio di proporzionalità, l'adeguatezza, della sanzione disciplinare (demandato al giudice di merito e non sindacabile in cassazione se non sotto il profilo del difetto di motivazione ), qualora abbia ad oggetto la sanzione massima del licenziamento, deve essere volto ad accertare se i fatti ascritti al dipendente sono di gravità tale, tenuto conto della natura dell'impresa, dell'attività all'interno di essa svolta e delle mansioni del dipendente, da compromettere irrimediabilmente il necessario rapporto di fiducia, laddove l'assenza di nocumento o di serio pericolo di nocumento alla sfera patrimoniale del datore di lavoro non è elemento decisivo per escludere il venir meno del rapporto di fiducia. (Nel caso di specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto legittimo il licenziamento di un cassiere di banca il quale aveva rilasciato quietanze di pagamento di un prestito senza registrare il versamento delle somme e trattenendo indebitamente le stesse per un certo periodo di tempo, anche se gli importi trattenuti non erano tali, in sè, da poter danneggiare considerevolmente il datore di lavoro ).

Cass. civ. n. 5372/2004

L'elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi, al contrario che per le sanzioni disciplinari con effetto conservativo, ha valenza meramente esemplificativa e non esclude, perciò, la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile alla sola condizione che tale grave inadempimento o tale grave comportamento, con apprezzamento di fatto del giudice di merito non sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore. (Nella specie, la sentenza impugnata, confermata dalla S.C., aveva ritenuto sussistente la giusta causa di licenziamento nel comportamento del lavoratore che aveva percosso un superiore, pur se l'art. 25 del CCNL per i metalmeccanici dell'industria privata prevedeva come giusta causa di licenziamento la rissa).

Cass. civ. n. 4435/2004

Ove la contrattazione collettiva preveda, quale ipotesi di giusta causa di licenziamento, l'omessa o tardiva presentazione del certificato medico in caso di assenza per malattia oppure l'inadempimento di altri obblighi contrattuali specifici da parte del lavoratore, la valutazione in ordine alla legittimità del licenziamento, motivato dalla ricorrenza di una di tali ipotesi, non può conseguire automaticamente dal mero riscontro che il comportamento del lavoratore integri la fattispecie tipizzata contrattualmente, ma occorre sempre che quest'ultima sia riconducibile alla nozione legale di giusta causa, tenendo conto della gravità del comportamento in concreto del lavoratore, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo. A maggior ragione tale verifica è necessaria allorché la norma contrattuale si riferisca, come nella specie, alla più grave ipotesi dell'assenza ingiustificata protratta nel tempo e non già alla mera tardiva presentazione della documentazione medica a giustificazione dell'assenza per malattia.

Cass. civ. n. 4163/2004

In un giudizio di impugnativa di un licenziamento per giusta causa intimato a lavoratore risultato assente a visita domiciliare di controllo, è affetta da vizio di motivazione, rilevante a norma dell'art. 360, primo comma n. 5, c.p.c., la sentenza di merito che abbia ritenuto insussistente l'obbligo di reperibilità del lavoratore nel primo giorno di assenza, ancorché una disposizione del contratto collettivo stabilisse che il lavoratore è tenuto fin da quel giorno e per tutta la durata della malattia a trovarsi a disposizione nel domicilio comunicato al datore di lavoro, in orari prefissati, per l'accertamento del suo stato di salute, atteso che la disposizione contrattuale secondo la quale in caso di malattia il lavoratore deve avvertire l'azienda entro il primo giorno di assenza ed inviare il certificato medico entro due giorni non può essere interpretata nel senso che la possibilità di accertamento della malattia sia differita fino alla comunicazione della stessa, restando altrimenti priva di significato e rimessa alla volontà elusiva del dipendente la previsione contrattuale relativa all'obbligo di reperibilità. (Fattispecie relativa al C.C.N.L. dei metalmeccanici).

Cass. civ. n. 13294/2003

Ai fini dell'accertamento della sussistenza del requisito della tempestività del licenziamento, in caso di intervenuta sospensione cautelare di un lavoratore sottoposto a procedimento penale, la definitiva contestazione disciplinare ed il licenziamento per i relativi fatti ben possono essere differiti in relazione alla pendenza del procedimento penale stesso. (In applicazione di tale principio di diritto, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, ove si era ritenuto che solo con il decreto di rinvio a giudizio il datore di lavoro era venuto a conoscenza delle specifiche contestazioni poste a base del rinvio a giudizio stesso, relative a fatti che in precedenza non gli erano noti in termini di simile gravità).

Cass. civ. n. 4935/2003

L'art. 102 bis disp. att. c.p.p., nel prevedere che chi sia stato sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere ovvero a quella degli arresti domiciliari ha diritto ad essere reintegrato nel posto di lavoro qualora venga pronunciata in suo favore sentenza di assoluzione, di proscioglimento o di non luogo a procedere ovvero venga disposto provvedimento di archiviazione, presuppone che il licenziamento sia stato determinato in stretto rapporto di causalità con la detenzione, e cioè che il recesso del datore di lavoro sia fondato esclusivamente sul fattore obiettivo dello status custodiae del prestatore d'opera; ne consegue che la citata disposizione non può dare titolo alla reintegrazione nel posto di lavoro qualora il licenziamento risulti, come nella specie, in via autonoma giustificato sulla base di elementi ulteriori rispetto alla mera assenza del lavoratore determinata da provvedimento cautelare. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, la quale aveva accertato che il licenziamento era stato intimato al lavoratore sottoposto alla misura della custodia in carcere, sia per motivi disciplinari, e cioè per motivi riconducibili, in base al CCNL applicabile, ad una giusta causa, sia per impossibilità sopravvenuta della prestazione, ai sensi dell'art. 1464 c.c. e dell'art. 3 della legge n. 604 del 1966, e non anche per lo stato di detenzione al quale egli era stato sottoposto).

Cass. civ. n. 3379/2003

La condotta inerente alla vita privata del lavoratore assume rilevanza ai fini della giusta causa del licenziamento non solo quando leda il rapporto fiduciario tra dipendente e datore di lavoro, ma anche quando la stessa costituisca strumentalizzazione delle mansioni svolte dal lavoratore nell'organizzazione di impresa, per finalità illecite. (Nella specie la S.C. ha ritenuto non pertinente alla sola sfera privata il comportamento di un impiegato di banca che aveva emesso assegni a vuoto per circa cento milioni di lire, in quanto il lavoratore, proprio in virtù della sua posizione lavorativa, era riuscito ad occultare per qualche tempo operazioni irregolari che se compiute da un normale cliente, sarebbero altrimenti venute alla luce).

Cass. civ. n. 17562/2002

Poiché la nozione di giusta causa di licenziamento trova la propria fonte direttamente nella legge, l'elencazione delle ipotesi di giusta causa eventualmente contenuta nei contratti collettivi o, come nella specie, in un atto unilaterale del datore di lavoro, ha valenza esemplificativa e non tassativa, tuttavia il giudice del merito, nel valutare le lesione del vincolo fiduciario per fatti estranei al rapporto di lavoro, ben può prendere in considerazione le specifiche previsioni contenute nei contratti collettivi o in atti unilaterali del datore di lavoro, anche se queste non sono idonee, da sole, a fornire il parametro per verificare la sussistenza o meno della concreta lesione di quel vincolo (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva escluso che una sentenza di applicazione della pena di tre mesi di reclusione,ex art. 444 c.p.p., per fatti estranei al rapporto di lavoro, potesse integrare, da sola, giusta causa di licenziamento, in presenza di una disposizione del Regolamento del personale dell'Istituto Poligrafico Zecca dello Stato che limitava il rilievo delle sentenze penali a quelle comportanti una pena restrittiva della libertà personale in misura non inferiore ad un anno, precisando che non aveva alcun rilievo, ai fini suindicati, la natura patteggiata della pena)

Cass. civ. n. 8716/2002

Nell'ottica dell'autonomia tra il giudizio civile e quello penale, la gravità della condotta ascritta al dipendente licenziato per giusta causa può avere un sufficiente rilievo disciplinare ed essere idonea a giustificare il licenziamento anche ove la stessa non costituisca reato. (Nella specie, la sentenza di merito impugnata,confermata dalla S.C., aveva ritenuto giusta causa di licenziamento di un dipendente di un istituto bancario l'incriminazione penale per il delitto di spaccio di stupefacenti, sulla considerazione che il coinvolgimento in fatti di droga, nonché la mera detenzione di stupefacenti per uso personale, possano non solo recare discredito al datore di lavoro, ma anche compromettere l'elemento fiduciario sotteso al rapporto di lavoro nel settore bancario, attesa la delicatezza e responsabilità delle mansioni esercitate).

Cass. civ. n. 5943/2002

Per stabilire se sussiste la giusta causa di licenziamento e se è stata rispettata la regola codicistica della proporzionalità della sanzione occorre accertare in concreto se —, in relazione alla qualità del singolo rapporto intercorso tra le parti, alla posizione che in esso abbia avuto il prestatore d'opera e, quindi, alla qualità e al grado del particolare vincolo di fiducia che quel rapporto comportava — la specifica mancanza commessa dal dipendente, considerata e valutata non solo nel suo contenuto obiettivo, ma anche nella sua portata soggettiva, specie con riferimento alle particolari circostanze e condizioni in cui è posta in essere, ai suoi modi, ai suoi effetti e all'intensità dell'elemento psicologico dell'agente, risulti obiettivamente e subiettivamente idonea a ledere in modo grave, cosa da farla venir meno, la fiducia che il datore di lavoro ripone nel proprio dipendente e tale, quindi, da esigere la sanzione non minore di quella massima, definitivamente espulsiva, senza che in tal caso possa rilevare l'assenza o la modesta entità di un danno patrimoniale a carico del datore di lavoro. (Nella specie, la sentenza di merito, confermata dalla S.C., aveva ritenuto legittimo il licenziamento intimato ad un dipendente dell'Enel che, nello svolgimento delle mansioni di addetto all'incasso delle somme indicate dalle fatture per fornitura di energia elettrica, si era appropriato di notevoli importi di denaro e, in alcuni casi, aveva quietanzato fatture senza registrarne in contabilità l'avvenuto pagamento, non attribuendo alcun rilievo alla circostanza che il lavoratore, dopo le rimostranze degli utenti, avesse restituito tutti gli ammanchi).

Cass. civ. n. 5332/2002

Ai fini della valutazione della gravità di un fatto addebitato a un dipendente di un istituto di credito quale giusta causa di licenziamento, è ininfluente la circostanza che con la sentenza penale di condanna per il medesimo fatto siano stati riconosciuti al lavoratore i benefici della sospensione condizionale della esecuzione della pena e della non menzione della condanna, trattandosi di istituti la cui applicazione è rimessa alla valutazione del giudice penale, insuscettibili di autonomo apprezzamento nell'ambito del procedimento disciplinare.

Cass. civ. n. 15916/2000

Il lavoratore al quale sia contestato in sede disciplinare di avere svolto un altro lavoro durante un'assenza per malattia ha l'onere di dimostrare la compatibilità dell'attività con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa contrattuale e la sua inidoneità a pregiudicare il recupero delle normali energie psico-fisiche, restando peraltro le relative valutazioni riservate al giudice del merito all'esito di un accertamento da svolgersi non in astratto ma in concreto. (Nella specie il giudice di merito, con la sentenza confermata dalla S.C., aveva accertato che la lavoratrice ricorrente, affetta da depressione a seguito di una dermatite, non aveva prestato regolare servizio presso il bar in cui era stata sorpresa, di cui era titolare la figlia, limitandosi a un libero e sporadico aiuto, non incompatibile con le sue condizioni di salute e semmai idoneo a coadiuvare la guarigione; aveva annullato quindi l'impugnato licenziamento).

Cass. civ. n. 13983/2000

In materia di licenziamento per ragioni disciplinari, il principio per cui il giudice di merito deve accertare in concreto, in relazione a clausole della contrattazione collettiva che prevedano per specifiche inadempienze del lavoratore la sanzione del licenziamento per la giusta causa o giustificato motivo soggettivo, la reale entità e gravità delle infrazioni addebitate al dipendente nonché il rapporto di proporzionalità tra sanzione e infrazione, è a maggior ragione applicabile nel caso in cui manchi una precisa corrispondenza tra i fatti addebitati e le ipotesi specifiche elencate dal contratto collettivo, di cui il datore di lavoro faccia valere il valore meramente esemplificativo. (Fattispecie relativa a diverbio, senza ricorso a vie di fatto o ad espressioni ingiuriose, tra due dipendenti e il capo del personale, a seguito del ritrovamento da parte dei primi, al termine dell'orario di lavoro, degli pneumatici dell'autovettura, parcheggiata nel piazzale interno dell'azienda, dolosamente lacerati, con rifiuto del responsabile aziendale di cooperare alla soluzione del problema e dei lavoratori di portare immediatamente l'auto fuori dall'azienda al fine di consentire la chiusura serale del cancello; la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che, con adeguata motivazione, aveva ritenuto l'episodio al di sotto del livello di gravità sanzionabile con il licenziamento, anche secondo la disciplina contrattuale.

Cass. civ. n. 13818/2000

Dall'art. 654 c.p.p. si desume che se è doveroso ritenere accertati anche nel giudizio civile gli stessi fatti materiali ritenuti rilevanti in un precedente giudizio penale conclusosi con una sentenza di condanna divenuta definitiva, non è, invece, sempre possibile trarre da un giudicato di assoluzione dalla responsabilità penale la conseguenza automatica — vincolante per il giudizio civile — dell'insussistenza di tutti i fatti posti a fondamento dell'imputazione, potendo verificarsi che alcuni di tali fatti pur essendosi rivelati, nella loro indiscussa materialità, non decisivi per la configurazione del reato contestato possano conservare una loro rilevanza ai fini civilistici. (Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto la legittimità del licenziamento irrogato al lavoratore il quale per i medesimi fatti addebitatigli come giusta causa di licenziamento era stato assolto in sede penale ai sensi dell'art. 530, comma secondo, c.p.p. che ha sostituito la cosiddetta assoluzione per insufficienza di prove già prevista dall'art. 479 c.p.p. abrogato).

Cass. civ. n. 11817/2000

Con riferimento alla tempestività della contestazione di plurimi addebiti posti a fondamento del licenziamento disciplinare, è illegittimo il comportamento del datore di lavoro che in una condotta progressiva sostanzialmente unitaria del lavoratore ravvisi la successione nel tempo di una pluralità di violazioni disciplinari e quindi, scomponendo tale condotta in più fatti illeciti, utilizzi il fatto addebitato successivamente per contestare la recidiva rispetto a quello contestato per primo, risultando in tal caso violato il principio dell'immediatezza della contestazione che impone di non frapporre indugi tali da determinare un cumulo di addebiti.

Cass. civ. n. 10315/2000

Il giudice del lavoro adito con impugnativa di licenziamento, ove pure comminato in base agli stessi comportamenti che furono oggetto di imputazione in sede penale, non è affatto obbligato a tener conto dell'accertamento contenuto nel giudicato di assoluzione del lavoratore, ma ha il potere di ricostruire autonomamente, con pienezza di cognizione, i fatti materiali e di pervenire a valutazioni e qualificazioni degli stessi del tutto svincolate dall'esito del procedimento penale; ed in ogni caso, poi, la valutazione della gravità del comportamento del lavoratore, ai fini della verifica della legittimità del licenziamento per giusta causa, deve essere da quel giudice operata alla stregua della ratio degli artt. 2119 c.c. e 1 della L. 15 luglio 1966 n. 604, e cioè tenendo conto dell'incidenza del fatto commesso sul particolare rapporto fiduciario che lega le parti nel rapporto di lavoro, delle esigenze poste dall'organizzazione produttiva e delle finalità delle regole di disciplina postulate da detta organizzazione, indipendentemente dal giudizio che del medesimo fatto dovesse darsi ai fini penali, sicché non incorre in vizio di contraddittorietà la sentenza che affermi la legittimità del recesso nonostante l'assoluzione del lavoratore in sede penale per le medesime vicende addotte dal suo datore di lavoro a giustificazione dell'immediata risoluzione del rapporto. (Nella specie, la sentenza di merito, confermata dalla S.C., in relazione al licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore che aveva prestato denaro dietro notevole interesse ad un collega di lavoro ed aveva proceduto poi a tutti i conseguenti atti di recupero crediti, aveva ritenuto la gravità del comportamento del dipendente, in quanto idoneo a turbare l'ordine della compagine aziendale, distolta dai suoi necessari moduli di solidarietà fra compagni di lavoro e di dedizione esclusiva all'attività di lavoro, ed aveva perciò reputato legittimo il recesso del datore di lavoro, indipendentemente dall'avvenuta assoluzione del lavoratore dal reato di usura).

Cass. civ. n. 10082/2000

La reiterazione di una condotta disciplinarmente rilevante può legittimamente essere considerata nella valutazione della gravità oggettiva e soggettiva del comportamento da ultimo messo in atto dal lavoratore, tanto più quando gli episodi precedenti, pur non sanzionati sul piano disciplinare, siano stati oggetto di richiami da parte dei preposti. (Nella specie il giudice di merito, con la sentenza confermata dalla S.C., aveva rigettato l'impugnativa contro un licenziamento intimato al dipendente addetto, presso il magazzino di un supermercato, alla conduzione di un «muletto» utilizzato per la movimentazione della merce, il quale, procedendo ad elevata velocità e con le pale del mezzo alzate, aveva determinato la collisione con un altro mezzo similare, arrecando danni materiali e lesioni personali all'altro conducente: il giudice a quo, nel rigettare la domanda aveva ritenuto sussistente un'intenzionalità nella guida imprudente, una colpa cosciente del responsabile, e aveva altresì valutato i numerosi precedenti di guida veloce e spericolata, contestati da superiori e colleghi, anche se non disciplinarmente
sanzionati).

Cass. civ. n. 8553/2000

In tema di licenziamento per giusta causa, è irrilevante che i comportamenti addebitati al lavoratore abbiano o meno comportato un danno per il datore di lavoro, essendo invece rilevante solo l'idoneità dei suddetti comportamenti ad incidere negativamente sul rapporto fiduciario, indipendentemente dal concreto verificarsi di un danno e dall'entità di esso. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto la legittimità del licenziamento irrogato ad una guardia giurata alla quale era stato, tra l'altro, contestato di avere organizzato nottetempo, senza alcuna autorizzazione, una riunione nei locali dell'ospedale dove prestava servizio, introducendo estranei nei suddetti locali e distogliendo personale dal servizio di guardia).

Cass. civ. n. 8313/2000

Ai fini della valutazione dell'importanza dell'inadempimento del lavoratore, che può dar luogo a recesso del datore di lavoro per giusta causa (art. 2119 c.c.) o per giustificato motivo oggettivo (art. 3 legge 15 luglio 1966 n. 604), il giudice — in relazione al comportamento di un lavoratore che pronunci espressioni di contenuto oggettivamente offensivo — non può limitarsi a svalutarne la gravità con esclusivo riferimento ai livelli culturali e alle abitudini lessicali del lavoratore stesso e degli altri addetti all'azienda, dovendo tale circostanza essere considerata nell'ambito di un'accurata indagine del contesto nel quale le espressioni furono pronunciate, senza che possa assumere valore determinante l'assenza di atteggiamenti minacciosi.

Cass. civ. n. 8200/2000

In tema di licenziamento per giusta causa, la non immediatezza della contestazione induce a ritenere che il datore di lavoro abbia a suo tempo soprasseduto al licenziamento ritenendo non grave o, comunque, non meritevole della sanzione espulsiva la colpa del lavoratore; pertanto, quanto maggiore è il tempo intercorrente tra il fatto e l'addebito (nella specie oltre tre anni), tanto più rigorosa deve essere la prova, incombente sul datore di lavoro, diretta a vincere la presunzione dell'illiceità della contestazione non tempestiva. (Nella specie tra il fatto e l'intimazione del licenziamento erano trascorsi oltre tre anni e la S.C. ha cassato con rinvio la decisione di merito che, con una illegittima inversione dell'onere della prova, aveva ritenuto presuntivamente legittima la non immediatezza della contestazione).

Cass. civ. n. 6900/2000

Il fatto che la disciplina collettiva preveda un comportamento come giusta causa di licenziamento non esime il giudice, investito della impugnativa della legittimità di tale recesso, dal dovere di valutare — mediante un accertamento che è insindacabile in Cassazione se adeguatamente e logicamente motivato — la gravità del comportamento stesso alla luce di tutte le circostanze del caso concreto, tra le quali assume rilievo non trascurabile — anche in relazione all'ipotesi di insubordinazione — l'elemento intenzionale che sorregge la condotta del lavoratore; e, d'altra parte, il giudice può considerare come giusta causa ex art. 2119 c.c., ovvero come giustificato motivo soggettivo ex art. 3 legge n. 604 del 1966, anche un fatto diverso da quelli espressamente contemplati nella tipizzazione contrattuale, conservando il disposto del contratto semplicemente una portata indicativa. (Nella specie, la sentenza di merito, confermata dalla S.C., aveva configurato come giustificato motivo soggettivo il comportamento del responsabile di un «autogrill» che per due giorni s'era rifiutato di aprire il locale al pubblico con la giustificazione della mancanza di personale a causa di uno sciopero delle maestranze e di consegnare le chiavi del locale al capo area pretendendo da questo una formale dichiarazione di scarico da ogni responsabilità).

Cass. civ. n. 4122/2000

La valutazione della ricorrenza della giusta causa del licenziamento del lavoratore subordinato rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito, il quale, nel valutare un comportamento concretatosi nella sottrazione di beni aziendali, può anche d'ufficio prendere in esame la modesta o — al contrario— rilevante entità del danno patrimoniale subito dal datore di lavoro.

Cass. civ. n. 1558/2000

Nel licenziamento disciplinare, la gravità del fatto va valutata, al fine di verificare il rispetto della regola codicistica della proporzionalità della sanzione, sulla base di una serie di elementi che non possono esaurirsi nelle dirette conseguenze meramente economiche prodotte al datore di lavoro dalla condotta contestata, ma possono riguardare sia il grado di responsabilità collegato alle mansioni affidate al lavoratore, sia le modalità della condotta, specie se rivelatrice di una particolare propensione alla trasgressione, sia l'incidenza dei fatti sulla permanenza del vincolo fiduciario che caratterizza lo specifico rapporto di lavoro. (Fattispecie relative ad appropriazione indebita compiuta da addetto alla riscossione di pedaggi autostradali, mediante particolari artifici).

Cass. civ. n. 12804/1999

La sentenza pronunciata a norma dell'art. 444 c.p.p., che disciplina l'applicazione della pena su richiesta dell'imputato, non è tecnicamente configurabile come una sentenza di condanna, anche se è a questa equiparata a determinati fini; tuttavia, nell'ipotesi in cui una disposizione di un contratto collettivo faccia riferimento alla sentenza penale di condanna passata in giudicato (nella specie, come fatto idoneo a consentire il licenziamento senza preavviso), ben può il giudice di merito, nell'interpretare la volontà delle parti collettive espressa nella clausola contrattuale, (interpretazione a lui esclusivamente rimessa e incensurabile in sede di legittimità se sorretta da adeguata motivazione e rispettosa dei canoni legali di ermeneutica contrattuale), ritenere che gli agenti contrattuali, nell'usare l'espressione «sentenza di condanna», si siano ispirati al comune sentire che a questa associa la sentenza c.d. «di patteggiamento» ex art. 444 c.p.p., atteso che in tal caso l'imputato non nega la propria responsabilità, ma esonera l'accusa dell'onere della relativa prova in cambio di una riduzione di pena. (Nella specie, la sentenza della cassazione ha confermato la sentenza di merito che, in relazione al c.c.n.l. per i dipendenti delle Poste Italiane prevedente il licenziamento in tronco in caso di sentenza penale di condanna, aveva rigettato l'impugnativa di licenziamento da parte dei lavoratori che, imputati di rapina in banca, avevano «patteggiato» la pena, senza perciò pervenire ad una sentenza di condanna in senso tecnico).

Cass. civ. n. 5258/1998

Il vantaggio patrimoniale del lavoratore e il danno per il datore di lavoro non costituiscono elementi necessari perché possa ritenersi integrata la fattispecie della giusta causa di licenziamento, dovendo a tal fine valutarsi il comportamento del lavoratore in base alla diligenza richiesta, ex art. 2104 c.c., dalla natura della prestazione dovuta, la cui inosservanza, nel particolare settore del lavoro bancario specialmente se reiterata e concretantesi in numerose operazioni irregolari, senza rispettare le precise istruzioni del datore di lavoro, può essere lesiva e dell'immagine della banca e dell'essenziale affidamento che quest'ultima ripone nella lealtà e correttezza dei propri dipendenti.

Cass. civ. n. 4395/1998

Quando il contratto collettivo punisca con sanzione disciplinare non espulsiva un determinato comportamento del lavoratore, non è consentito al giudice di merito di apprezzare tale condotta quale ragione di irrimediabile lesione del rapporto fiduciario, legittimante il recesso del datore di lavoro, sempreché peraltro vi sia integrale coincidenza tra la fattispecie contrattualmente prevista e quella effettivamente realizzata, restando per contro quella valutazione possibile (e doverosa) quando la condotta del lavoratore sia caratterizzata da elementi aggiuntivi estranei (ed aggravanti) rispetto all'ipotesi contrattuale, nel qual caso, peraltro, il giudizio sulla effettiva gravità del fatto addebitato al dipendente non può prescindere dalla adeguata considerazione dell'eventuale provocazione da parte del datore di lavoro (anche a mezzo di altro dipendente nell'esercizio dei poteri gerarchici a questi attribuiti).

Cass. civ. n. 11806/1997

Il merito alla rilevanza, ai fini del suo licenziamento, del comportamento del lavoratore che si impossessi abusivamente di beni dell'azienda, la modesta entità del fatto può ritenersi non tanto con riferimento alla tenuità del danno patrimoniale, quanto in relazione all'eventuale tenuità del fatto oggettivo, sotto il profilo del valore sintomatico che lo stesso può assumere rispetto ai futuri comportamenti del lavoratore e quindi alla fiducia che nello stesso può nutrire l'azienda. (Nella specie, il lavoratore addetto ad un grande magazzino era stato licenziato in tronco perché, nell'eseguire degli acquisti dopo il termine del servizio, aveva occultato due musicassette; la S.C. ha confermato la sentenza con cui il giudice di merito aveva rigettato l'impugnativa proposta contro tale licenziamento sulla base del principio sopra indicato, della possibile rilevanza sul piano della fiducia anche di comportamenti posti in essere al di fuori dell'azienda, e della non incidenza nel caso concreto del compimento del fatto al di fuori dell'orario di lavoro).

Cass. civ. n. 6392/1997

L'assoluzione dal delitto di furto contestato al lavoratore e posto a base del licenziamento del medesimo, una volta che con quel giudicato è stata esclusa la commissione del fatto, non solo non costituisce ragione idonea per risolvere il rapporto, ma preclude, sotto il vigore del precedente art. 28 c.p.p. (e, più limitatamente, dell'art. 652 nuovo c.p.p.) la possibilità di svolgere ulteriori accertamenti in ordine allo stesso fatto posto alla base del provvedimento espulsivo.

Cass. civ. n. 5601/1997

In considerazione della necessaria proporzionalità tra infrazione compiuta dal lavoratore e conseguente sanzione disciplinare e della gravità degli effetti del licenziamento per il lavoratore e la sua famiglia, risponde ai principi che disciplinano la materia la sentenza di merito che con congrua motivazione esclude la lesione irreparabile del rapporto fiduciario e quindi la legittimità dell'intimato licenziamento in caso di indebita sottrazione da parte di un dipendente di un bene di valore particolarmente tenue, in assenza di precedenti specifici (fattispecie relativa ad addetto di magazzino che si era appropriato di una confezione di pepe del valore commerciale di L. 1800).

Cass. civ. n. 4175/1997

In tema di licenziamento per giusta causa, il rilievo che il fatto contestato, oltre che inadempimento delle obbligazioni proprie del rapporto di lavoro, costituisca anche illecito penale, se è indice di gravità del fatto, non è idoneo da solo a provare che esso sia tale da legittimare il recesso, atteso che la gravità del fatto, che legittima il recesso per giusta causa, è solo quella che, per la rilevanza dell'inadempimento nei suoi elementi oggettivi e soggettivi, non consente la prosecuzione del rapporto, facendo venir meno irreparabilmente la fiducia del datore di lavoro nel futuro adempimento delle obbligazioni contrattuali da parte del lavoratore.

Cass. civ. n. 360/1997

La mera tolleranza manifestata dal datore di lavoro in occasione di precedenti mancanze del lavoratore non vale a rendere legittimi i relativi comportamenti lesivi e non preclude al datare di lavoro di mutare atteggiamento in occasione di successive mancanze, né esclude che le mancanze precedenti possano essere comprese in una valutazione globale del comportamento del dipendente, quale indice rivelatore della idoneità del fatto per ultimo contestato a costituire giusta causa o giustificato motivo soggettivo di recesso.

Cass. civ. n. 7370/1996

In tema di rapporto di lavoro, il cosiddetto codice disciplinare non deve necessariamente contenere una precisa e sistematica previsione delle singole infrazioni, delle loro varie graduazioni e delle corrispondenti sanzioni, essendo invece sufficiente una proporzionata correlazione tra le singole ipotesi di infrazione, sia pure di carattere schematico e non dettagliato, e le corrispondenti previsioni sanzionatone, anche se suscettibili di attuazione discrezionale ed adattamento secondo le concrete ed effettive inadempienze del lavoratore, nel rispetto del principio per cui le sanzioni disciplinari devono avere un grado di specificità sufficiente ad escludere che la collocazione della condotta del lavoratore nella fattispecie disciplinare sia interamente devoluta ad una valutazione unilaterale ed ampiamente discrezionale del datore di lavoro. Ne consegue che, nell'assenza di una previsione contrattuale che sanzioni disciplinarmente l'ipotesi in cui il lavoratore in malattia non venga reperito presso il proprio domicilio, tale comportamento non può essere sanzionato disciplinarmente, a nulla rilevando il fatto che una norma dello stesso contratto collettivo attribuisca al datore di lavoro la facoltà di eseguire controlli quando il lavoratore è assente per infermità.

Cass. civ. n. 3915/1996

L'assenza ingiustificata alla visita medica di controllo del lavoratore assente per malattia rileva, oltre che ai fini dell'applicazione dell'art. 5 del D.L. n. 463/1983 (convertito con modificazioni nella L. n. 638/1983), anche sotto il profilo della violazione dell'obbligo — sussistente nei confronti del datore di lavoro — di sottoporsi al controllo, sanzionabile, in relazione alla gravità del caso, anche con il licenziamento; il recesso del datore di lavoro non presuppone necessariamente l'esistenza di una specifica previsione di tale mancanza nel codice disciplinare applicabile, atteso che la predisposizione di una normativa secondaria è richiesta solo per l'esercizio del potere disciplinare con l'adozione di misure conservative, mentre il potere di recedere dal rapporto per giusta causa o giustificato motivo deriva direttamente dalla legge.

Cass. civ. n. 2453/1996

Il criterio posto dall'art. 1455 c.c., secondo cui, ai fini della risoluzione del contratto per inadempimento, l'importanza di quest'ultimo va valutata in relazione all'interesse dell'altra parte, può trovare applicazione nel caso di licenziamento per giustificato motivo soggettivo, concernente, ai sensi dell'art. 3 della L. n. 604 del 1966 un «notevole inadempimento degli obblighi contrattuali», mentre non è conferente nel caso di attuazione di un licenziamento in tronco, rispetto al quale occorre piuttosto valutare, da un più generale angolo visuale ed a prescindere dalla correlazione col contenuto di specifici obblighi contrattuali, se sussiste, nel comportamento sanzionato, quella particolare lesività della fiducia del datore di lavoro, che non consente la prosecuzione neppure temporanea del rapporto. (Nella specie la S.C. ha ritenuto congrua ed adeguata la motivazione della sentenza impugnata, che aveva riconosciuto, ai fini della sussistenza di una giusta causa, la specifica incidenza di atti di insubordinazione, consistiti, a seguito di negligente esecuzione del lavoro, in risposte decisamente inurbane ai rilievi del superiore, rifiuto di correggere e completare il lavoro stesso, abbandono del posto di lavoro con fare apertamente sprezzante e rifiuto di ubbidienza.

Cass. civ. n. 1668/1996

Il giustificato motivo di assenza idoneo ad escludere la sanzione per il mancato reperimento del lavoratore alla visita di controllo durante le fasce orarie di reperibilità, non si identifica necessariamente con lo stato di necessità o con il caso di forza maggiore, ma richiede un ragionevole impedimento, un qualsiasi apprezzabile e serio motivo consistente in situazioni tali da comportare adempimenti non effettuabili in ore diverse da quelle comprese nelle suddette fasce orarie; situazioni la cui ricorrenza — da provarsi dal lavoratore — giustifica, secondo un criterio di ragionevolezza, il sacrificio dell'interesse al controllo amministrativo in favore dell'interesse alla tutela della salute. (Nella specie il giudice di merito aveva ritenuto legittimo il licenziamento di una lavoratrice, recatasi presso il proprio medico curante nelle ore di reperibilità, in conseguenza dell'insorgere di una colica biliare, sul rilievo che la lavoratrice, non avendo provato l'ora di inizio dell'episodio acuto, non aveva dimostrato l'indifferibilità dell'allontanamento dal suo domicilio proprio nelle fasce orarie di reperibilità. La S.C. ha annullato tale decisione ribadendo il principio di cui alla massima e rilevando, che una volta provata la necessità della lavoratrice di recarsi dal medico a causa dell'acuirsi della malattia, non aveva rilievo l'esatta individuazione dell'ora di inizio della stessa, dovendo invece accertarsi se la presenza di un serio motivo di giustificazione rendesse la condotta della lavoratrice, anche sotto il profilo soggettivo, non meritevole della sanzione del licenziamento).

Cass. civ. n. 884/1996

In presenza di una successione di comportamenti la cui somma determina il venir meno della fiducia del datore di lavoro nelle future prestazioni del dipendente, la tempestività della contestazione va riferita a detta somma, e quindi all'episodio che determina il superamento del limite che giustifica il licenziamento. Quanto ai comportamenti pregressi, mentre è necessario che ne sia stata portata a conoscenza del lavoratore la valutazione negativa del datore di lavoro in tempo utile perché possa evitarne la reiterazione, non è configurabile a carico del datore di lavoro l'ulteriore onere di adottare per ciascuna inadempienza un adeguato provvedimento disciplinare, a pena di decadenza dal potere di attribuire ad esse rilevanza e fondamento di una più grave sanzione (rimanendo salva l'eventuale configurabilità di una responsabilità — di tipo risarcitorio — del datore di lavoro per violazione dei principi di correttezza e buona fede, nel caso in cui la mancata adozione di provvedimenti disciplinari per determinate inadempienze sia atta a fuorviare il dipendente sulla rilevanza ad esse attribuita). (Nella specie il giudice di merito, nella sentenza in sede di legittimità confermata, aveva evidenziato circostanze — richiami verbali e scritti denuncianti l'intollerabilità dei comportamenti addebitati al lavoratore — dalla S.C. ritenute contrastanti con l'ipotesi che l'astensione da misure disciplinari fosse interpretabile come attribuzione di irrilevanza ai comportamenti contestati, piuttosto che come espressione di un affidamento nelle capacità di ravvedimento del lavoratore).

Cass. civ. n. 129/1996

L'immediatezza e la tempestività che condizionano la validità del licenziamento per giusta causa vanno intese in senso relativo e possono nei casi concreti essere compatibili con un intervallo temporale reso necessario dall'accertamento dei fatti da contestare e dalla valutazione degli stessi, e ciò segnatamente quando il comportamento del lavoratore consti di una serie di fatti che, convergendo a comporre un'unica condotta, esigono una valutazione globale ed unitaria del datore di lavoro; in questa ipotesi, l'intimazione del licenziamento può seguire l'ultimo di questi fatti, anche ad una certa distanza dai fatti precedenti.

Cass. civ. n. 12759/1995

Anche nel licenziamento che richieda per legge l'esistenza di una giustificazione, una volta accertata l'obiettiva esistenza dei fatti necessari per radicare il potere di recesso, restano irrilevanti eventuali profili di arbitrarietà e irrazionalità dei motivi dell'atto, così come l'esigenza di ipotesi di discriminazione diverse da quelle tipizzate dalla legge, sempreché non sia configurabile un motivo determinante contrario a norme imperative, all'ordine pubblico o al buon costume. Infatti, avendo il licenziamento natura giuridica di diritto potestativo — il cui esercizio è volto a realizzare l'interesse del titolare del potere — non è consentito il riferimento alla nozione tecnica di discrezionalità e all'inerente dovere di imparzialità nella ponderazione dei diversi interessi. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza con cui il giudice di merito aveva rigettato l'impugnativa di licenziamento proposta dal dipendente di un'organizzazione sindacale locale di datori di lavoro, rilevando che la pretesa discriminazione sarebbe stata conseguenza di contrasti con i dirigenti circa i metodi di gestione dell'organizzazione e che comunque il licenziamento trovava oggettiva giustificazione in esigenze di ristrutturazione organica).

Cass. civ. n. 12484/1995

Con riguardo all'obbligo di valutazione delle proporzionalità — rispetto alla gravità della mancanza del lavoratore — della sanzione del licenziamento, la negazione, da parte del giudice del merito, dello stato di necessità (reale o putativo) dedotto dal lavoratore non comprende implicitamente la negazione della sussistenza di circostanze attenuanti, ove la sussistenza dello stato suindicato sia esclusa per la mancanza di un elemento (assoluta necessità del fatto in rapporto al pericolo, reale o supposto) rilevante solo ai fini della configurabilità di un'attenuante, quale, ad esempio, l'aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale. (Nella specie, relativa a licenziamento di un dipendente della Sip, resosi responsabile della manomissione dell'utenza telefonica della moglie separata e giustificatosi con la necessità di controllare il figlio tossicodipendente, la S.C. ha cassato l'impugnata sentenza, che aveva escluso lo stato di necessità, reale o putativo, per la mancanza dell'assoluta inevitabilità della condotta, stante la possibilità di una richiesta di controllo alle autorità competenti, ma aveva omesso di valutare se gli elementi oggettivi e soggettivi, prospettati dal lavoratore in relazione alla dedotta tossicodipendenza del figlio, fossero o no configurabili come circostanze idonee ad attenuare, tenuto anche conto della precedente condotta lavorativa, la gravità dell'infrazione degradandola ad un piano inferiore di sanzionabilità).

Cass. civ. n. 11500/1995

I comportamenti tenuti dal lavoratore nella sua vita privata ed estranei perciò all'esecuzione della prestazione lavorativa, se in genere sono irrilevanti ai fini della lesione del rapporto fiduciario possono tuttavia costituire giusta causa di licenziamento allorché per la loro gravità siano tali da far ritenere il lavoratore inidoneo alla prosecuzione del rapporto lavorativo, specialmente quando, per le caratteristiche e la peculiarità di esso, la prestazione lavorativa richieda un ampio margine di fiducia esteso alla serietà e alla correttezza dei comportamenti privati del lavoratore. (Nella specie la sentenza di merito - confermata dalla Suprema Corte - considerandoli quali fatti idonei ad incidere sulla fiducia del datore di lavoro nel sereno e leale svolgimento della prestazione lavorativa che richiedeva contatti con i colleghi e con i terzi, aveva ritenuto giusta causa di licenziamento di un dipendente di un istituto di credito il fatto che il lavoratore, il quale adduceva di aver agito in stato di legittima difesa, avesse ferito una persona con numerose coltellate, e si fosse successivamente assentato dal lavoro per quindici giorni, nulla comunicando al datore di lavoro e riprendendo servizio solo dopo la contestazione dell'assenza, che aveva giustificato con lo stato emozionale conseguente alla aggressione).

Per stabilire l'esistenza della giusta causa di licenziamento, la quale si configura come grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro ed in particolare dell'elemento fiduciario che deve sussistere fra le parti, la valutazione del giudice va compiuta non con riguardo al fatto astrattamente considerato bensì agli aspetti concreti afferenti alla natura e qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente nonché alla portata soggettiva del fatto stesso, ossia alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi ed alla intensità dell'elemento intenzionale e di quello colposo. In tale valutazione, qualora i fatti addebitati al lavoratore integrino anche gli estremi dell'illecito penale, il giudice non è vincolato dall'esito degli eventuali accertamenti in sede penale, giacché, secondo il codice di procedura penale vigente, più non sussiste il criterio della prevalenza della giurisdizione penale su quella civile o amministrativa, onde il giudice investito della controversia può accertare fatti costituenti condotte penalmente rilevanti e pervenire a qualificazioni e soluzioni del tutto autonome da quelle della sede penale.

Cass. civ. n. 5967/1995

Non è affetta da violazione dell'art. 2106 c.c. la sentenza di merito che ritenga non sufficientemente grave da giustificare il licenziamento, ancorché abbastanza grave da determinare l'irrogazione di una sanzione disciplinare conservativa, il comportamento doloso del lavoratore consistito in false attestazioni documentali finalizzate al rimborso di spese non effettuate, quando l'esiguità del danno patrimoniale arrecato, anche in riferimento alle grandi dimensioni dell'impresa, seppure idonea a diminuire il necessario legame di fiducia tra le parti del rapporto di lavoro, sia tale da non giustificare l'inflizione di una sanzione capace di privare iI lavoratore dei mezzi sufficienti ad assicurare a sé ed alla propria famiglia un'esistenza libera e dignitosa.

Cass. civ. n. 5753/1995

Il licenziamento, sanzione idonea a privare il lavoratore e la sua famiglia dei mezzi sufficienti alla sua esistenza, deve conseguire ad illeciti di proporzionata gravità e non a fatti, seppure penalmente rilevanti, che oltre ad arrecare un tenue danno patrimoniale al datore di lavoro, non sono destinati verosimilmente a ripetersi una volta contestati e seguiti da una sanzione disciplinare conservativa, e perciò interrompono in modo non irreparabile il nesso fiduciario che è alla base del rapporto di lavoro. (Nella specie, la sentenza impugnata, confermata dalla S.C., aveva ravvisato in un artificio documentale posto in essere dal dipendente, volto ad ottenere il rimborso delle spese di tre viaggi aerei a tariffa intera mentre i viaggi erano stati effettuati a tariffa ridotta, un fatto certamente sanzionabile, ma non con il più grave dei provvedimenti disciplinari, attesa la modestia del lucro ottenibile mediante il suddetto artifizio e l'assenza di precedenti illeciti commessi dal dipendente).

Cass. civ. n. 5742/1995

Per stabilire l'esistenza della giusta causa di licenziamento occorre accertare in concreto se, in relazione alla qualità del singolo rapporto intercorso tra le parti, alla posizione che in esso abbia avuto il prestatore di lavoro e, quindi, alla qualità ed al grado del particolare vincolo di fiducia che quel rapporto comportava, la specifica mancanza commessa dal dipendente, considerata e valutata non solo nel suo contenuto obiettivo, ma anche nella sua portata soggettiva, specie con riferimento alle particolari circostanze e condizioni in cui è stata posta in essere, ai suoi modi, ai suoi effetti ed all'intensità dell'elemento psicologico dell'agente, risulti obiettivamente e subiettivamente idonea a ledere, in modo grave, cosa da farla venir meno, la fiducia che il datore di lavoro ripone nel proprio dipendente e tale, quindi, da esigere una sanzione non minore di quella massima, definitivamente espulsiva.

Cass. civ. n. 1747/1995

L'art. 2119 c.c., collegando il licenziamento ad una causa che non consenta la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto, non richiede che detta causa consista in un fatto singolo, ma ammette la pluralità di fatti, gravi non in sé ma considerati complessivamente; ne consegue che l'intimazione del licenziamento può seguire immediatamente l'ultimo di questi fatti, ed anche ad una certa distanza di tempo dai fatti precedenti, puniti con le sole sanzioni conservative.

Cass. civ. n. 1505/1995

La tolleranza, da parte del datore di lavoro, di precedenti mancanze — dello stesso o di altro lavoratore — non implica acquiescenza preclusiva della possibilità di un licenziamento per un'eguale infrazione successiva, atteso anche il presumibile progressivo abbassamento del limite entro il quale il datore di lavoro può essere indotto a tollerare la ripetizione di condotte antigiuridiche dei propri dipendenti, le quali lo legittimerebbero a recedere dal contratto, e tenuto conto altresì che la mancata reazione alle prime infrazioni può essere giustificata, nel caso in cui l'azienda abbia una struttura organizzativa complessa, dalla diversità di competenze degli organi e uffici preposti all'accertamento e alla valutazione delle varie mancanze.

Cass. civ. n. 6903/1994

Il requisito dell'immediatezza dell'intimazione del licenziamento in tronco rispetto alla mancanza che ne ha costituito la ragione — la sussistenza della quale deve essere provata dal datore di lavoro — è elemento essenziale per la configurabilità di un licenziamento per giusta causa, atteso che il decorso di un lungo intervallo di tempo tra il momento in cui il provvedimento espulsivo viene adottato, ed il momento nel quale il fatto posto a fondamento dello stesso è stato posto in essere, ovvero è giunto a conoscenza del datore di lavoro, sta ragionevolmente a significare la compatibilità del fatto stesso con la prosecuzione del rapporto di lavoro, ed esclude, quindi, la sussistenza di una causa giustificatrice di un licenziamento avente immediato effetto risolutivo, e cioè di una causa tale da non consentire la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto ai sensi dell'art. 2119 c.c. Detto requisito deve essere comunque inteso in senso relativo, dovendosi tener conto, nel valutare le cause di un eventuale notevole intervallo di tempo tra mancanza e licenziamento, anche dei tempi occorrenti per accertare convenientemente, e poi ricostruire e valutare, la condotta del lavoratore, come pure l'eventuale complessità, in concreto, della struttura organizzativa imprenditoriale del datore di lavoro o della peculiare posizione lavorativa dello stesso dipendente, che possano far ritardare il momento della percezione, e quindi dell'accertamento, dei fatti contestati come giusta causa.

Cass. civ. n. 5843/1994

Ai fini della valutazione della gravità dell'inadempimento che giustifica il licenziamento disciplinare, non rileva il fatto che l'addebito riguardi una mancanza isolata del dipendente, atteso che nessuna norma di legge e nessun principio generale impongono al datore di lavoro di rinviare (o condizionare) l'irrogazione del provvedimento espulsivo al verificarsi eventuale e futuro di un altro episodio in mancanza del quale la fiducia deve intendersi ricostituita.

Cass. civ. n. 5832/1994

In tema di organizzazioni di tendenza il licenziamento ideologico, collegato cioè all'esercizio, da parte del prestatore di lavoro, di diritti costituzionalmente garantiti, quali la libertà di opinione, la libertà di religione e, nel campo scolastico, la libertà di insegnamento, è lecito negli stretti limiti in cui esso sia funzionale a consentire l'esercizio di altri diritti costituzionalmente garantiti, quali la libertà dei partiti politici e dei sindacati, la libertà religiosa e la libertà della scuola, e nelle ipotesi in cui l'adesione ideologica costituisca requisito della prestazione. In particolare, con riferimento a scuole gestite da enti ecclesiastici, la cui istituzione non contrasta con l'art. 33 della Costituzione, l'esigenza di tutela della tendenza confessionale della scuola si pone solo in relazione a quegli insegnamenti che caratterizzano tale tendenza; non può pertanto ritenersi legittimo il licenziamento intimato da un istituto di istruzione religioso di confessione cattolica ad un proprio insegnante laico di educazione fisica per avere questi contratto matrimonio col rito civile e non con quello religioso, in quanto la materia insegnata prescinde completamente dall'orientamento ideologico del docente ed è indifferente rispetto alla tendenza della scuola.

Cass. civ. n. 4126/1994

È irrilevante, ai fini della sussistenza della giusta causa di licenziamento, l'assenza di un danno patrimoniale a carico del datore di lavoro, ove il comportamento illecito del prestatore abbia determinato il venir meno del requisito della fiducia. (Nella specie la sentenza impugnata, confermata dalla Suprema Corte, aveva ritenuto legittimo il licenziamento in tronco intimato ad un dipendente di un istituto di credito che aveva commesso un falso materiale imitando la firma di un collega al fine di consentire il versamento di alcuni assegni ad un cliente della banca al quale era stato bloccato il conto corrente).

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G. G. chiede
lunedì 16/12/2024
“Salve,
sono un quadro direttivo di una banca. Tre anni fa ho rassegnato le dimissioni per altra azienda. La mia ral era 43K l'anno. La banca, per trattenermi mi ha proposto un aumento retributivo a 73.000€ più un patto di stabilità di 15.000€. tale patto prevedeva nel caso di dimissioni anticipate di corrispondere alla banca cinque volte l'importo (75.000€) a titolo di penale in caso di mie dimissioni volontarie più un risarcimento danni da provarsi in sede giudiziale. Il patto scadrà dopo 3 anni (durata prefissata) ad aprile del 2025. Per evitare rischio di mie nuove dimissioni la banca mi ha proposto l'adeguamento della mia attuale RAL assorbendo l'attuale patto di stabilità a 88.000€ più un nuovo patto da 5.000€ l'anno.
Il foglio in cui mi comunicano l'aumento RAL e il foglio del patto di stabilità sono due fogli separati.
Mi hanno detto che se non accetto il patto di stabilità anche il primo foglio non è valido.
Mi domando se, provenendo già da un patto di stabilità di 3 anni è legittimo che la banca ne crei uno nuovo di fatto prolungando di ulteriori 3 anni il patto (totale 6 anni), benchè con importi più bassi.
Inoltre, se non avendo scelta decidessi di firmarlo (sono quasi costretto altrimenti dopo 3 anni la mia retribuzione scenderebbe di 15K) mi domando se in un contenzioso legale ne potrei uscire vincitore per il semplice fatto che il patto viene stabilito solo per vincolare la mia professionalità (di valore più alto sul mercato e ricercata) senza alcun investimento (formazione e/o altro) da parte della banca.”
Consulenza legale i 23/12/2024
La giurisprudenza ha confermato che un patto di stabilità, che vincola il lavoratore a rimanere per un determinato periodo, è legittimo, a condizione che ci siano degli equilibri reciproci tra le parti, cioè una contropartita per il lavoratore, che può essere economica o di altro tipo.
Requisito di validità del patto è certamente la previsione di un corrispettivo a favore del soggetto che subisce limitazioni nella libertà di recesso. In particolare, la giurisprudenza muove dal principio generale secondo cui: “nei rapporti a prestazioni corrispettive la reciprocità dell’impegno non va valutata atomisticamente – come contropartita della assunzione di ciascuna delle obbligazioni -bensì alla luce del complesso delle reciproche pattuizioni. L’equilibrio tra le prestazioni corrispettive, sempre per principio generale, è rimesso -fuori dalle ipotesi patologiche di vizio del consenso, alla libera valutazione di ciascun contraente, che nel momento in cui conclude il negozio resta arbitro della convenienza o meno della assunzione della posizione contrattuale.

Resta fermo il limite alla libertà negoziale delle parti di non poter derogare ai diritti attribuiti al lavoratore dagli articoli 36 e 39 Cost., che riconoscono una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto.

Ne consegue che, nell’ipotesi di previsione di un patto di stabilità, il trattamento retributivo complessivo concordato dovrà essere superiore al minimo costituzionale e dovrà essere prevista una specifica voce retributiva a copertura del patto. In caso contrario si registrerebbe una mancanza di proporzionalità della retribuzione con conseguente illegittimità del patto.

La giurisprudenza, tuttavia, precisa che la corrispettività deve essere valutata rispetto al complesso dei diritti e degli obblighi che identificano la posizione contrattuale di ciascuna parte. Pertanto “nell’equilibrio delle posizioni contrattuali il corrispettivo della clausola di durata minima garantita nell’interesse del datore di lavoro, dunque, è sì necessario ma può essere liberamente stabilito dalle parti e può consistere nella reciprocità dell’impegno di stabilità assunto dalle parti ovvero in una diversa prestazione a carico del datore di lavoro, consistente in una maggiorazione della retribuzione o in una obbligazione non- monetaria, purché non simbolica e proporzionata al sacrificio assunto dal lavoratore.”

Nel caso di specie, la durata del patto, che arriverebbe in pratica a a sei anni (tre già trascorsi e altri tre proposti), è in linea con le normative, a condizione che ci sia una proporzionalità nella compensazione.

Anche se non sono previsti investimenti formativi o altri vantaggi, l’aumento proposto della RAL (88.000€) potrebbe essere visto come una compensazione per il sacrificio di stabilità che viene richiesto. La giurisprudenza permette ai datori di lavoro di stabilire un periodo di vincolo, purché il trattamento economico complessivo sia adeguato e non violi i diritti costituzionali.

In merito alla legittimità dei patti di stabilità il Tribunale di Milano, sentenza 16 febbraio 2023, n. 246, ha confermato la validità del patto di stabilità, purché vi sia un corrispettivo per il lavoratore, anche se non necessariamente economico, una durata limitata nel tempo, e un risarcimento del danno in caso di violazione del patto.
Le sentenze n. 14457/2017 e n. 18122/2016 della Cassazione hanno ribadito che il patto di stabilità è legittimo, ma deve essere sostenuto da un corrispettivo e dal risarcimento per il danno subito dalla parte non recedente.
Cassazione n. 17010/2014 e n. 21646/2016 hanno chiarito che il lavoratore può concordare una durata minima del rapporto di lavoro, con risarcimento del danno in caso di interruzione anticipata senza giusta causa.

Nel caso di specie, pertanto, nel caso si decidesse di avviare un contenzioso, è importante considerare che la giurisprudenza tende a supportare la validità dei patti di stabilità, soprattutto se sono in equilibrio con i diritti del lavoratore. Il patto potrebbe essere contestato solo nel caso in cui fosse ad esclusivo vantaggio del datore di lavoro, quindi nel caso in cui fosse senza alcun corrispettivo economico o ulteriore vantaggio per il lavoratore.

In particolare, la Cassazione, con la sentenza 26 ottobre 2016, n. 21646, ha sancito il principio che il lavoratore ha la libertà di recedere dal contratto, ma può anche concordare una durata minima del rapporto di lavoro, che comporta il risarcimento del danno in caso di interruzione anticipata senza giusta causa. La Cassazione, sentenza n. 14457/2017, ha ribadito che il risarcimento per il danno subito dalla parte non recedente è una condizione che deve essere rispettata.

Se il nuovo patto non fosse adeguatamente compensato o fosse considerato sproporzionato, si potrebbero avere delle argomentazioni per contestarlo in tribunale. Tuttavia, la probabilità di successo nel caso di specie appaiono scarse. Bisognerebbe dimostrare che il valore della Ral proposta sia sproporzionato rispetto alla specifica professionalità o che comunque vi sia uno squilibrio tra le parti.

L’offerta formativa può certamente essere parte di un patto di stabilità, ma non è una condizione necessaria ed anzi a volte sostituisce l’eventuale compenso che, invece, nel caso di specie è presente.

La minaccia implicita di perdere 15.000€ nel caso in cui non si firmi il patto potrebbe essere considerata una forma di pressione. Tuttavia, le cifre in questione sono proprio un corrispettivo dell’impegno preso di non abbandonare il posto di lavoro, che nel caso di specie verrebbe a mancare. A livello pratico, ci si troverebbe in una situazione di pressione ma non necessariamente di costrizione legale.

In conclusione, il patto di stabilità di cui alla richiesta di parere è probabilmente legittimo, a condizione che il trattamento economico complessivo sia adeguato e non violi i diritti costituzionali (salario equo). Nel caso in cui si decidesse di contestare il patto, bisognerebbe dimostrare uno squilibrio di interessi.


C. C. chiede
giovedì 05/12/2024
“Buongiorno,

A settembre 2024 ho sottoscritto un contratto di lavoro a tempo determinato della durata di un anno con una multinazionale tedesca. Il periodo di prova, previsto per 30 giorni, è già terminato. Tuttavia, sto valutando la possibilità di cambiare lavoro poiché non mi trovo bene con le mansioni assegnate.

Ho appreso che, in linea generale, non sarebbe possibile dare le dimissioni in caso di contratto a tempo determinato. Inoltre, ho notato che nel contratto è presente una clausola specifica che prevede il pagamento di una mensilità lorda in caso di dimissioni anticipate.

Vorrei capire se questo pagamento è effettivamente obbligatorio o se esistono alternative per evitare tale penale. A complicare la situazione, l’azienda mi ha fatto firmare anche un patto di stabilità, che contempla ulteriori sanzioni in caso di dimissioni anticipate.

Invio in allegato la documentazione relativa per una vostra valutazione e attendo un vostro riscontro.

Grazie per l'attenzione.

Cordiali saluti”
Consulenza legale i 19/12/2024
Con riferimento al contratto a tempo determinato la legge non prevede il recesso anticipato; dunque, fino allo scadere del termine il lavoratore non può rassegnare le proprie dimissioni né il datore di lavoro può procedere con un licenziamento.

La parte che recede dal contratto prima della scadenza del termine è tenuta ad indennizzare l’altra parte dal danno subito. Ciò avviene di regola, attraverso il pagamento di una indennità dal valore pari alla retribuzione contrattualmente dovuta per il periodo residuo del contratto. Nel caso di specie l’indennità prevista è di una mensilità.

Soltanto in un caso è possibile il recesso anticipato dal contratto a tempo determinato: si tratta delle dimissioni per giusta causa, cioè, a mente dell’articolo 2119 del codice civile, quella causa che non consente, neppure provvisoriamente, la prosecuzione del rapporto di lavoro.

Si tratta di casi particolarmente gravi (ad esempio: mobbing, molestie sul lavoro, omesso pagamento di almeno due stipendi) che consentono sia al lavoratore che al datore di lavoro di recedere anticipatamente dal contratto a termine e di ottenere un risarcimento del danno.

Per quanto riguarda il patto di stabilità, il Tribunale di Bolzano, con sentenza del 27 marzo 2024, si è pronunciato sulla validità del patto di stabilità dal momento del superamento del patto di prova e fino alla scadenza del contratto a termine. Nel caso di specie il lavoratore comunica il recesso durante il periodo di prova e, a fronte dello stesso, avvenuto prima della scadenza del periodo minimo di stabilità il lavoratore, gli viene applicata la penale prevista nel patto di stabilità. Secondo il Tribunale, il patto di stabilità, durante il periodo di prova, doveva ritenersi invalido e inefficace, trattandosi di clausole non compatibili e contrarie al principio della libera recedibilità durante il periodo di prova: pertanto, nel caso deciso, essendo il lavoratore receduto nel periodo di prova, doveva ritenersi che il lavoratore nulla doveva corrispondere a titolo di penale, con conseguente illegittimità della trattenuta operata dal datore di lavoro. Ancora il Giudice ha precisato la incompatibilità di un patto di stabilità per il periodo successivo alla scadenza del contratto a termine (se non prorogato consensualmente): prevedendo il contratto a termine una data certa iniziale e finale non vi è l'obbligo di prestare il consenso ad una eventuale proroga del contratto proposta.

Se ne deduce, pertanto, che, scaduto il periodo di prova e prima della scadenza del contratto a termine, il patto di stabilità è ritenuto valido ed efficace.

Pertanto, nel caso di specie, dal momento che il periodo di prova è ormai trascorso, non vi è possibilità di recedere anticipatamente dal contratto, salvo che ricorra la giusta causa.


G. H. P. chiede
lunedì 24/06/2024
“Mio figlio ha un contratto a tempo determinato settore turismo/stagionale.
Tempo determinato dal 1/3/24 al 31/10/24 non ho trovato nel ccnl il periodo di preavviso nel caso il datore di lavoro lo volesse interrompere. Premesso che non ci sono contestazioni disciplinare o altro vorrei sapere
1) lo possono interrompere? se si che indennità debbono corrispondere al lavoratore
2) il fatto che nel contratto dica 40 ore e mio figlio lavora almeno 70 alla settimana potrebbe essere un motivo per chiedere di più al datore di lavoro?
3) come dimostra che lavora di più? si deve fare firmare un time report dal datore di lavoro o basta una dichiarazione dei colleghi?”
Consulenza legale i 10/07/2024
Il recesso anticipato dal contratto di lavoro a tempo determinato è disciplinato dall’ art. 2119 c.c “Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato […], qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. […]
In caso di contratto a tempo determinato, le parti possono recedere prima della scadenza del termine, solo in due ipotesi:
  • recesso motivato da giusta causa o impossibilità sopravvenuta della prestazione;
  • risoluzione consensuale.
Il recesso senza giusta causa determina inadempimento contrattuale, e la parte che attua tale comportamento sarà tenuta al risarcimento del danno, commisurato alle retribuzioni dovute fino alla scadenza del contratto originariamente prevista nel caso del lavoratore. Per il datore di lavoro il danno non viene determinato in modo così oggettivo e deve essere dimostrato in modo rigoroso: potrebbe essere costituito ad esempio dalle spese sostenute per la ricerca di un sostituto o le spese inutilmente sopportate per la formazione del lavoratore dimissionario.
In via generale chi subisce un danno per inadempimento contrattuale o per il ritardo dell’adempimento può chiedere il risarcimento del danno in giudizio; è necessario pertanto ricorrere al giudice.

Per quanto riguarda gli straordinari, se il contratto prevede 40 ore settimanali, ma Suo figlio lavora effettivamente 70 ore alla settimana, ha diritto a ricevere una retribuzione aggiuntiva per le ore di lavoro straordinario.
Le ore di straordinario devono essere pagate secondo quanto stabilito dal Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) di riferimento, che prevede una maggiorazione per le ore eccedenti l'orario ordinario.

Secondo l’art. 107 del CCNL Turismo, “Il lavoro straordinario, salvo deroghe ed eccezioni di Legge e salvo quello svolto in regime di flessibilità (Banca delle Ore) ed eventuale lavoro extraorario autorizzato a recupero di ritardi od assenze, è quello effettivamente prestato oltre l'orario settimanale contrattualmente predeterminato.
È facoltà del Datore di lavoro richiedere prestazioni lavorative straordinarie a carattere individuale, nel limite massimo di 250 ore annue, rispettando comunque i limiti legali e/o contrattuali dell’orario di lavoro giornaliero/settimanale”.

Peraltro, è molto probabile che le 70 ore lavorate settimanalmente superino i massimali consentiti dal contratto e dalla legge.

Tuttavia, Per quanto riguarda il superamento dei massimali di ore di lavoro straordinario, la legge (art. 18 -bis D. Lgs. 66/2003) prevede solo una sanzione amministrativa.

Per quanto riguarda la prova delle ore di straordinario è fondamentale raccogliere prove concrete delle ore straordinarie effettuate.

Le seguenti opzioni possono essere utilizzate per dimostrare il lavoro straordinario:
  • Time report firmato dal datore di lavoro: Il metodo più efficace è quello di far firmare un report delle ore lavorate dal datore di lavoro.
  • Registri di presenze: Se l'azienda tiene registri di presenze o utilizza sistemi di timbratura, questi documenti possono essere utilizzati come prova.
  • Dichiarazioni di colleghi: Le testimonianze di colleghi possono supportare la richiesta, ma è preferibile avere prove documentali.
  • Email e comunicazioni scritte: Qualsiasi comunicazione scritta (email, messaggi) che documenti le ore straordinarie può essere utile.
Per quanto riguarda il percorso da seguire. Innanzitutto, potrebbe essere utile aprire una discussione con il datore di lavoro per cercare di risolvere la questione in maniera amichevole.

Successivamente ci si potrebbe rivolgere ad un sindacato per avere supporto e consulenza specifica sul CCNL settore turismo.

Nel caso in cui il problema non venga risolto, potrebbe essere necessario rivolgersi a un avvocato specializzato in diritto del lavoro per procedere con un'azione legale.


D. C. chiede
mercoledì 25/10/2023
“Buonasera,
Volevo accedere al fondo sospensione del mutuo prima casa "legge Gasparrini" che mi dà la possibilità di sospendere il mutuo per mesi 18, in quanto mia moglie si trova in stato di disoccupazione ed è percettrice di NASPI poichè si è licenziata dal lavoro avendo una bimba inferiore di 1 anno, per questa ragione ha avuto accesso alla NASPI.
Ho chiesto informazioni al Consap via email e mi ha riferito che il caso di mia moglie non rientra nel licenziamento per giusta causa e quindi non posso accendere al fondo.
questo è quello che mi ha risposto il CONSAP:

" Egr. Sig. ...,

con riferimento alla PEC del 28 agosto 2023, si comunica quanto segue.
L'art. 1, lett. a), del Decreto Ministeriale n.37/2013, in attuazione della Legge 24
dicembre 2007 n.244 (c.d. Legge istitutiva del Fondo), prevede l'ammissione al beneficio della
sospensione del mutuo nel caso di "cessazione del rapporto di lavoro subordinato" … "ad
eccezione delle"… "dimissioni del lavoratore non per giusta causa".

La norma sulle dimissioni per giusta causa è contenuta nell'art 2119 codice civile e la
giurisprudenza ha individuato i casi in cui le dimissioni per giusta causa sono ammissibili, ossia:

- il mancato o ritardato pagamento della retribuzione;

- il comportamento ingiurioso del superiore gerarchico nei confronti del dipendente;
- il demansionamento;

- il trasferimento del lavoratore oltre 50 km di distanza dalla propria abituale residenza o
presso una sede aziendale mediamente raggiungibile in oltre 80 minuti con i mezzi pubblici.
Ciò posto, pur prendendo atto della situazione da Lei descritta nella Sua PEC, si fa
presente che la fattispecie di dimissioni da Lei presentate non rientra tra i casi di giusta
causa ma si configurano come volontarie, ai sensi dell'art. 55 D. Lgs 151/2001, per maternità e
pertanto non rilevano come "perdita del posto di lavoro".

Peraltro, la Circolare dell'INPS-Istituto Nazionale della Previdenza Sociale n.20163 del
20-10-2003, che regola l'accesso al beneficio della NASPI, prevede specificamente la
distinzione tra l'ipotesi di dimissioni per "giusta causa" e quella delle dimissioni presentate per
maternità ai sensi dell'art. 55 D. Lgs 151/2001 che si configurano, invece, come dimissioni
volontarie."

volevo capire se realmente non posso accedere a questo fondo.
Vi allego le dimissioni di mia moglie.
Anticipatamente vi ringrazio

Consulenza legale i 01/11/2023
L’articolo 55 del D. Lgs. 151/2001 al comma 1, dispone che: “In caso di dimissioni volontarie presentate durante il periodo per cui è previsto, a norma dell'articolo 54, il divieto di licenziamento, la lavoratrice ha diritto alle indennità previste da disposizioni di legge e contrattuali per il caso di licenziamento. La lavoratrice e il lavoratore che si dimettono nel predetto periodo non sono tenuti al preavviso”.

Il fatto che la lavoratrice di cui all’articolo precedente riceva la Naspi non muta la natura delle dimissioni, che rimangono volontarie, come previsto dallo stesso art. 55 citato e non possono essere considerate delle dimissioni per giusta causa.

Come riferito dalla Consap, infatti, l’art. 2119 c.c. definisce la giusta causa come una “causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”.

La giurisprudenza ha considerato per giusta causa le dimissioni determinate, per esempio:
a) dal mancato pagamento della retribuzione;
b) dall'aver subito molestie sessuali nei luoghi di lavoro;
c) dalle modificazioni peggiorative delle mansioni lavorative;
d) dal c.d. mobbing, ossia di crollo dell’equilibrio psico-fisico del lavoratore a causa di comportamenti vessatori da parte dei superiori gerarchici o dei colleghi (spesso, tra l’altro, tali comportamenti consistono in molestie sessuali o “demansionamento”, già previsti come giusta causa di dimissioni). Il mobbing è una figura ormai accettata dalla giurisprudenza (per tutte, Corte di Cassazione, sentenza n.143/2000);
e) dalle notevoli variazioni delle condizioni di lavoro a seguito di cessione ad altre persone (fisiche o giuridiche) dell’azienda (anche Corte di Giustizia Europea, sentenza del 24 gennaio 2002);
f) dallo spostamento del lavoratore da una sede ad un’altra, senza che sussistano le “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive” previste dall’art. 2103 codice civile (Corte di Cassazione, sentenza n. 1074/1999);
g) dal comportamento ingiurioso posto in essere dal superiore gerarchico nei confronti del dipendente (Corte di Cassazione, sentenza n.5977/1985).
L'art. 1, lett. a), del Decreto Ministeriale n.37/2013, in attuazione della Legge 24 dicembre 2007 n.244 (c.d. Legge istitutiva del Fondo), prevede l'ammissione al beneficio della sospensione del mutuo nel caso di cessazione del rapporto di lavoro subordinato “ad eccezione delle ipotesi di risoluzione consensuale, di risoluzione per limiti di età con diritto a pensione di vecchiaia o di anzianità, di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, di dimissioni del lavoratore non per giusta causa, con attualità dello stato di disoccupazione".

Con Comunicato Stampa del Ministero dell'Economia e delle Finanze del 18.04.2013 n. 56 è stato precisato che in caso di dimissioni per giusta causa, è necessario presentare la seguente documentazione:
• sentenza giudiziale o atto transattivo bilaterale, da cui si evinca l'accertamento della sussistenza della giusta causa che ha comportato le dimissioni del lavoratore;
• lettera di dimissioni per giusta causa con il riconoscimento espresso da parte del datore di lavoro della giusta causa che ha comportato le dimissioni del lavoratore ovvero lettera di dimissioni unitamente all'atto introduttivo del giudizio per il riconoscimento della giusta causa
.

Da tutto quanto sopra esposto si evince che le dimissioni volontarie della lavoratrice ai sensi dell’art. 55 D. lgs. 152/2001, sebbene diano diritto comunque alla Naspi, non danno diritto al beneficio della sospensione del mutuo, per ottenere il quale è necessario essere in presenza di comprovate dimissioni per giusta causa.


S.G. chiede
giovedì 07/10/2021 - Emilia-Romagna
“Buongiorno,
Ho firmato con il mio datore di lavoro un patto di stabilità che prevede una penale calcolata come percentuale del lordo percepito nell'ultimo anno in caso di mio recesso nei tre anni successivi.
Durante questo periodo posso recedere solo per giusta causa secondo l'art. 2119.
Questo patto è valido o può essere contestato?
Volendomi licenziare per aprire partita iva, quali possono essere le possibili giuste cause che posso portare come giustificativo? Essere a conoscenza di falsi di bilancio può costituire una giusta causa?”
Consulenza legale i 17/10/2021
Nell’ambito di un rapporto di lavoro il patto di stabilità è valido ed è considerato nullo solo nel caso in cui sia prevista una durata a tempo indeterminato (il nostro ordinamento, infatti, vieta i vincoli perpetui) o sia prevista una penale eccessivamente onerosa, pregiudicando in misura significativa la facoltà di recedere delle parti.

Il patto di stabilità trasmesso non sembra presentare profili di nullità. Infatti, è prevista una durata abbastanza limitata del vincolo (36 mesi) e la penale non sembra eccessivamente onerosa.
Peraltro, è anche previsto un corrispettivo a fronte del sacrificio del lavoratore.

Stante la legittimità del patto, è necessario stabilire quali siano i motivi per cui il lavoratore possa recedere ai sensi dell’art. 2119 c.c.

Le dimissioni per giusta causa sono presentate dal lavoratore nel caso di gravissime violazioni del datore di lavoro che non consentono la prosecuzione neppure temporanea del rapporto.

La sussistenza della giusta causa va valutata caso per caso. In caso di controversie, sarà il giudice del lavoro a determinare l'esistenza della giusta causa.

La giurisprudenza, nel corso del tempo, ha individuato una serie di causali che legittimano le dimissioni per giusta causa:
• mancato o ritardato pagamento della retribuzione;
• omesso versamento dei contributi (purché non sia stato a lungo tollerato dal lavoratore);
• comportamento ingiurioso del superiore gerarchico verso il dipendente;
• pretesa del datore di lavoro di prestazioni illecite da parte del lavoratore;
• c.d. mobbing;
• aver subito molestie sessuali nei luoghi di lavoro;
• modificazioni peggiorative delle mansioni lavorative;
• spostamento del lavoratore da una sede all’altra senza che vi siano comprovate ragioni tecniche organizzative e produttive come richiesto dall’art. 2103 c.c.

Venendo al caso di specie, la conoscenza del coinvolgimento del datore di lavoro in un reato di falso in bilancio potrebbe costituire una plausibile giusta causa di dimissioni, nel caso in cui il comportamento datoriale abbia determinato la lesione irreversibile della fiducia riposta in lui dal lavoratore.

Tuttavia, come visto, la giusta causa non dovrebbe consentire neppure la prosecuzione temporanea del rapporto.

Se si è venuti a conoscenza del falso in bilancio diverso tempo fa, verrebbe meno il requisito dell’immediatezza della reazione rispetto ai fatti contestati e quindi un eventuale giudice chiamato a pronunciarsi sull’argomento potrebbe dichiarare le dimissioni illegittime.


Gianluca C. chiede
venerdì 28/05/2021 - Sardegna
“In data 14 maggio 2021 il mio rapporto di lavoro c\o AirItaly é cessato a causa di inabilità permanente decretata da ENAC ed Istituto di medicina legale aeronautica decretata il 30 marzo.<br />
<br />
L'azienda è tenuta a pagare l'indennità di mancato preavviso (nel mio caso 8 mensilità)?<br />
<br />
La mia categoria di appartenenza è Assistente di Volo.<br />
In seguito manderò copia della documentazione.”
Consulenza legale i 08/06/2021
L’art. 14 del CCNL Assistenti di Volo prevede che l’inidoneità dell’assistente di volo determini “la risoluzione di diritto del rapporto di lavoro”.

Dal momento che si tratta di risoluzione di diritto, non lasciando alcun margine di scelta al datore di lavoro, secondo la giurisprudenza è esclusa l’applicabilità dell’istituto del preavviso e quindi anche il pagamento della relativa indennità.

Infatti, la Cassazione ha affermato il principio secondo il quale, in tema di sopravvenuta inidoneità del lavoratore allo svolgimento delle mansioni assegnate, il licenziamento disposto dal datore di lavoro va ricondotto, ove il lavoratore possa essere astrattamente impiegato in mansioni diverse, al giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'art. 3 della legge n. 604 del 1966, con diritto al termine e all'indennità di preavviso, diversamente dall'ipotesi in cui la prestazione sia divenuta totalmente e definitivamente impossibile, senza possibilità di svolgere mansioni alternative, nel qual caso va ravvisata una causa di risoluzione del rapporto che non ne consente la prosecuzione, neppure provvisoria ai sensi dell'art. 2119 cod. civ., ed esclusa l'applicabilità dell'istituto del preavviso (Cass. 7531/2010).

Con riferimento allo speciale rapporto di lavoro dei piloti, ha, inoltre, precisato che in caso di inidoneità permanente al volo resta preclusa al datore di lavoro la possibilità di disporre l'esecuzione di una prestazione lavorativa diversa con conseguente immediata risoluzione del rapporto di lavoro senza attribuzione, in mancanza di un diverso riconoscimento nel contratto collettivo, dell'indennità di preavviso (Cass. 7531/2010).

Più in generale, anche in tempi recenti, la Suprema Corte ha affermato che la sopravvenuta e permanente inidoneità totale del lavoratore subordinato allo svolgimento dell'attività lavorativa (nel caso di specie ex art. 2, comma 12, della l. n. 335 del 1995) configura un caso di impossibilità assoluta della prestazione per il venir meno della causa del contratto, sicché la risoluzione del rapporto è oggettivamente vincolata, perché consegue "al fatto in sé" dell'inidoneità psicofisica all'espletamento del lavoro, senza che occorra alcuna manifestazione di volontà da parte del datore, né il rispetto del termine di preavviso, di modo che non è dovuta la relativa indennità sostitutiva (Cass. 9556/2021).

Nel caso di specie, pertanto, dal momento che il CCNL prevede una risoluzione di diritto, senza alcuna possibilità di reimpiego del lavoratore in altre mansioni (per esempio, personale di terra), è esclusa l’applicabilità dell’istituto del preavviso e, quindi, anche la corresponsione della relativa indennità.


Roberto D. chiede
venerdì 11/05/2018 - Estero
“Buongiorno,
A decorrere dall'1 settembre 2018 (di fatto, essendo l'1 un sabato, il 3 settembre 2018) dovrei prendere servizio in qualità di Ricercatore Tempo Determinato di Tipo B presso un ateneo italiano. Alla bozza di contratto che l'ufficio competente mi ha già fatto pervenire si legge l'articolo che riporto letteralmente qui in calce relativo alle modalità di un eventuale recesso. Se capisco bene, il recesso è libero e senza preavviso nel corso del periodo di prova (3 mesi). Dopo di che, il recesso è possibile soltanto per giusta causa. Questa disposizione si applica anche al lavoratore o solo al datore di lavoro? In altre parole, se io - poniamo dopo 12 mesi - volessi passare ad altra università prima della scadenza del contratto (della durata complessiva di 3 anni), potrei farlo solo per giusta causa? Se così è, la semplice mia volontà di cambiare datore di lavoro può essere causa sufficiente a giustificare le mie dimissioni?
Grazie fin da ora per la vostra consulenza.
Cordiali saluti,
Roberto Dagnino

Art. 11) MODALITA’ DI RECESSO
Trascorso il periodo di prova e fino alla scadenza del contratto, il recesso può avvenire qualora si
verifichi una causa che, ai sensi dell’art. 2119 c.c., non consenta la prosecuzione, anche
provvisoria, del rapporto.
Costituisce giusta causa di recesso dal contratto da parte dell’Università la mancata presentazione
della relazione tecnico-scientifica annuale e del registro delle attività didattiche nei termini riportati
al precedente articolo 3.
In caso di recesso, il Ricercatore è tenuto a dare un preavviso pari a trenta giorni. In caso di
mancato preavviso l’Amministrazione ha il diritto di trattenere al Ricercatore un importo
corrispondente alla retribuzione per il periodo di preavviso non dato.”
Consulenza legale i 21/05/2018
Il licenziamento, nel diritto del lavoro, è un istituto giuridico con cui il datore di lavoro mette fine ad un rapporto di lavoro. Si contrappone al recesso unilaterale dal contratto di lavoro da parte del lavoratore dipendente, detto dimissioni (art. 2119 c.c.).

Il lavoratore è soggetto tutelato dall’ordinamento giuridico italiano che impone importanti limiti alla possibilità di porre fine al rapporto da parte del datore di lavoro.
Infatti, il licenziamento deve essere sempre sorretto da giusta causa o giustificato motivo (oggettivo o soggettivo) a pena di illegittimità e/o inefficacia e/o nullità.

Soltanto durante il periodo di prova, generalmente previsto durante la parte iniziale del rapporto di lavoro, la tutela del lavoratore relativa all’esercizio del recesso da parte del datore di lavoro è attenuata; in questa fase del rapporto è possibile il c.d. recesso ad nutum, cioè senza causa (senza necessità di fornire motivazione).

Le dimissioni sono, invece, l'atto con cui un lavoratore dipendente recede unilateralmente dal contratto che lo vincola al datore di lavoro.
Secondo la legge, le dimissioni si configurano come una facoltà del lavoratore.
Questa facoltà può essere esercitata senza alcun limite, con il solo rispetto dell'obbligo di dare il preavviso previsto dai contratti collettivi. Questo però vale solo per il contratto a tempo indeterminato.
Nel contratto a termine o a tempo determinato, come quello di specie, di norma il rapporto di lavoro cessa automaticamente per la scadenza del termine apposto al contratto medesimo (salvo proroga o prosecuzione di fatto dello stesso), in quanto non dovrebbero generalmente operare per lo stesso le ipotesi di obbligo di preavviso a carico della parte recedente. Nel caso di dimissioni presentate dal lavoratore, le stesse possono essere rassegnate solo in presenza di una giusta causa che non consenta la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro. Pertanto, in mancanza di una giusta causa, la parte recedente può eventualmente essere tenuta a risarcire all’altra il danno da questa subito per il recesso anticipato.

Nel caso di specie, però, l’art. 11 del contratto di lavoro individuale prevede la possibilità di recesso da parte del lavoratore (ricercatore) dando un preavviso di trenta giorni. Tale istituto mal si concilia con il requisito della giusta causa del recesso che non consenta la prosecuzione anche provvisoria del rapporto. Sembrerebbe pertanto che, nel caso di specie, il datore abbia concesso contrattualmente al lavoratore la facoltà di recesso anticipato rispetto alla scadenza del termine del contratto disciplinando lo specifico contratto a tempo determinato in modo analogo rispetto al contratto a tempo indeterminato. Alla luce di ciò, qualora il ricercatore volesse presentare le proprie dimissioni anche senza giusta causa, parrebbe essere sufficiente dare al datore di lavoro il preavviso previsto contrattualmente.


Attilio G. chiede
giovedì 22/12/2016 - Sicilia
“PREMESSO CHE IL LICENZIAMENTO è un atto unilaterale e produce effetto dal momento in cui il lavoratore riceve l'intimazione del datore di lavoro, non si è verificato nel mio caso che, in qualità di datore di lavoro ha licenziato la dipendente che rubava nel mio studio e si comportava da delinquente tanto da dire ai miei clienti io a.questo lo rovino. Il sottoscritto titolare dello studio ha licenziato la dipendente in data 7 maggio 2012, ma non ha mai voluto firmare il licenziamento per ricevuta cone le è stato consigliato dall'avvocato. in data 28 luglio 2012 ho inviato raccomandata con ricevuta di ritorno. I giudici sostengono che il licenziamento è inesistente che pervenuto alla dipendente oltre il periodo "ordinario".”
Consulenza legale i 10/01/2017
Dalla lettura del quesito si può facilmente comprendere come il licenziamento comminato alla dipendente sia di natura disciplinare, in quanto giustificato non da ragioni inerenti l’attività imprenditoriale (calo di produzione/lavoro, necessita di contenimento dei costi. ecc.) ma da ragioni inerenti il comportamento della lavoratrice ed il rapporto individuale di lavoro.
In particolare, dalla descrizione sommaria dei fatti, si intuisce che il licenziamento è avvenuto “in tronco”, ovvero senza il preavviso di legge.

Il cosiddetto licenziamento “in tronco” è possibile e legittimo nel nostro ordinamento, purché rientri nell’ipotesi normativa della “giusta causa” di cui all’art. 2119 cod. civ.: “Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto (…) senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”. In pratica, si avrà giusta causa di licenziamento, senza obbligo di preavviso, nel momento in cui si verifichi un fatto talmente grave nell’ambito del rapporto di lavoro da non consentirne la prosecuzione, neppure per un breve periodo.

Ogni licenziamento, inoltre, per poter essere legittimo ed efficace deve rivestire la forma scritta: in difetto di forma scritta non solo sarà inefficace, ma – per opinione consolidata ed uniforme – addirittura inesistente, con diritto del lavoratore di impugnarlo senza limiti di tempo.

Ciò detto, nel caso di specie, pare che il licenziamento sia avvenuto regolarmente in forma scritta, dal momento che si parla di mancata sottoscrizione per ricevuta della lavoratrice.
Sul rifiuto del lavoratore di ricevere l’atto scritto contenente l’intimazione del licenziamento, la Cassazione si è già pronunciata nel senso della validità ed efficacia del licenziamento stesso: “In tema di consegna dell'atto di licenziamento nell'ambito del luogo di lavoro, il rifiuto del destinatario di riceverlo non esclude che la comunicazione debba ritenersi regolarmente avvenuta, trattandosi di un atto unilaterale recettizio che non sfugge al principio generale per cui il rifiuto della prestazione da parte del destinatario non può risolversi a danno dell'obbligato, ed alla regola della presunzione di conoscenza dell'atto desumibile dall'art. 1335 c.c. (Cassazione civile, sez. lav., 18/09/2009, n. 20272); si veda anche Corte appello Perugia, sez. lav., 25/09/2013, n. 188: “Se l’intimazione di recesso è esposta in forma scritta, e il lavoratore è messo in condizione di apprenderne il contenuto, essa acquista piena validità, senza che il destinatario possa paralizzarne gli effetti, con il rifiuto di accettare la materiale consegna della comunicazione scritta cosicché l’efficacia del licenziamento prescinde dall’accettazione del lavoratore, e si ha nel momento in cui questi viene a conoscenza del documento che ne contiene l’enunciazione.” ed ancora “Non può invocare il difetto di forma scritta del recesso e l'applicabilità della sanzione dell'inefficacia comminata dall'art. 2, per il caso di licenziamento orale, il lavoratore il quale rifiuti di accettare la lettera di licenziamento che il datore di lavoro abbia tentato di consegnargli in azienda durante l'orario di servizio”. (Corte d'Appello Firenze 18/2/2003).

Nel quesito si parla di “giudici”, il che fa presumere che vi sia stata impugnazione del licenziamento in questione da parte della lavoratrice e che sia già intervenuta una sentenza nel merito. Tuttavia, per una risposta corretta e completa al quesito, occorrerebbe leggerne nello specifico le motivazioni, poiché risulta alquanto singolare che sia stata utilizzata proprio l’espressione “inesistente” con riferimento al licenziamento.
La pronuncia di inesistenza farebbe, infatti, presumere che il Giudice abbia ritenuto intimato in forma orale il primo licenziamento e considerato il secondo tardivo, in relazione al motivo per cui era stato comminato – seppur illegittimamente nella forma – la prima volta.
E’ principio pacifico e consolidato, infatti, che ogni contestazione disciplinare debba essere effettuata nell’”immediatezza” del fatto commesso dal lavoratore. Ciò vale anche per il recesso dal rapporto di lavoro, compreso quello per giusta causa: anzi, per quest’ultimo il principio della immediatezza della sanzione da parte del datore di lavoro vale a maggior ragione, se è vero – come detto – che “giusta causa” significa un fatto che non consente la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto di lavoro.

Ora, nel caso di specie, la prima comminazione del licenziamento – ritenuta, a quel che sembra, inefficace dal Giudice – è stata seguita da una seconda, stavolta efficace, comunicazione di recesso (mediante raccomandata) dopo quasi tre mesi. Si tratta, in effetti, di un lasso di tempo eccessivamente lungo e certamente non compatibile con quell’urgenza di risolvere il rapporto il prima possibile che viene richiesta dalla legge (art. 2119 cod. civ. citato), tanto da far legittimamente dubitare della fondatezza dell’atto di recesso stesso.

Risulta, in ogni caso, lo si ribadisce, alquanto singolare la pronuncia in merito all’”inesistenza” del primo atto di licenziamento del maggio 2012: l’orientamento giurisprudenziale sopra riportato (si ricordano, di seguito, le principali pronunce sul punto, alcune già citate: Cass. 12 novembre 1999, n. 12571; Cass. 5 novembre 2007 n. 23061; Cass. 3 novembre 2008 n. 26390; Cass. 18 settembre 2009, n. 20272; Cass. 25 marzo 2013, n. 7390) è assolutamente pacifico ed incontestato e non si comprende pertanto quale possa essere stato il diverso ragionamento condotto dal Giudice per negare validità al primo atto di recesso.

Si renderebbe necessario un approfondimento del quesito previa lettura della sentenza in oggetto.

Angela C. chiede
venerdì 03/07/2015 - Sicilia
“Spett.le Studio legale
Qui di seguito espongo la mia richiesta di consulenza.
Sono un agente in attività finanziaria con mandato a tempo indeterminato firmato nel 2009 con un importante Società di emanazione bancaria leader nel settore del credito ai consumatori. La zona dove opero si trova in un centro cittadino in Sicilia. Per contratto gli agenti del network operano con locali fronte strada e insegne della preponente. Io dispongo di locale di circa 60 mq con un dipendente regolarmente assunto e un commerciale con mandato Enasarco.
Premesso quanto sopra, da circa 6 mesi ricevo dal mio Responsabile di Zona e del responsabile della rete Italia pressioni per lasciare il mandato per favorire il subentro di un altro agente più grosso (ha già quattro agenzie in Sicilia) adducendo che i mie volumi sono piccoli e su alcuni prodotti non core non sono in linea con il budget (questo non è vero perché pur avendo piccoli ritardi non compromettono il risultato del budget già nei primi cinque mesi avevo coperto il 50% del budget dei Prestiti personali) tale da mettermi in difficoltà all’inizio del mese di giugno proponendomi una azione spinout con una equo ristoro da parte del subentrante di € 30.000 a fronte di una mia richiesta in bonus di 80.000€ (per chiudere senza danni economici la mia attività che anche se piccola ha costi di gestione elevati). Chiaramente ho declinato l’offerta anche perché negli ultimi cinque anni ho maturato 388.000 euro di provvigioni di cui 57.000 solo nei primi cinque mesi dell’anno.
L’azienda essendo di emanazione bancaria non aderisce all’AEC (degli agenti in attività finanziaria) ma nel contratto fa riferimento in caso di recesso da parte dell’agente alle migliori condizioni previsti dall’art. 1751.
Chiaramente l’obiettivo dell’azienda è mettermi in difficoltà con la restrizione del credito da concedere ai clienti da me presentati, e farmi andare via “Spontaneamente”.
Avendo letto che la recessione può essere fatta da parte dell’agente per giusta causa nel caso di infermità, malattia etc. (consideri che il mandato impone che l’agente svolga il lavoro in prima persona e concede deroga per avere dipendenti e collaboratori). Nel 2010 purtroppo mi è stata diagnosticata la "Sclerosi Multipla" certificata dopo ricovero con cartella clinica rilasciata dall’Ospedale San Raffaele di Milano. Tale che nel 2011 l’Inps mi concede la 104 per un anno con il massimo dell’invalidità (solo per accompagnamento) che successivamente presa dagli impegni e dal pressing non ho provveduto a rinnovare, ma che sto facendo adesso rinnovando adesso. La sede del mio negozio finanziario si trova a quasi 100 Km dal mio domicilio di residenza quindi con l’aggravarsi delle mie condizioni non sono stata più in gradi avere la giusta mobilità e raggiungere quotidianamente il luogo del lavoro, e spostarmi in auto.
Quindi chiedo un parere legale sulla fattibilità del recesso per cause di malattia e i termini del preavviso da richiedere nel mio caso. Oltre capire a quanto può ammontare l’indennità e i relativi danni economici sarò costretta a subire per l’interruzione dell’attività.
Grazie per il vostro parere.
Saluti”
Consulenza legale i 08/07/2015
La disciplina del contratto di agenzia (artt. 1742-1753) non prevede espressamente il recesso per giusta causa, ma la giurisprudenza è costante nel ritenere che si applichi in via analogia l'art. 2119 del c.c. (Cass. civ., sez. II, 4.5.2011 n. 9779: "In tema di contratto d'agenzia, questa Corte ha avuto modo di affermare che pur nella sostanziale diversità delle rispettive prestazioni e della relativa configurazione giuridica, per stabilire se lo scioglimento del contratto stesso sia avvenuto o meno per un fatto imputabile al preponente o all'agente, tale da impedire la possibilità di prosecuzione anche temporanea del rapporto, può essere utilizzato per analogia il concetto di giusta causa di cui all'art. 2119 cc., previsto per il lavoro subordinato").

L’art. 2119 recita: “Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”.

La giurisprudenza ha considerato quale giusta causa di recesso da parte dell'agente, ad esempio, il mancato pagamento delle provvigioni o l'occultamento delle stesse (v. Cass. civ. 3898/1999).

L'art. 1751 in tema di agenzia, che tratta dell'indennità prevista alla fine del rapporto, stabilisce in maniera implicita ma chiara che l'agente può recedere dal contratto quando si verifichino circostanze a lui attribuibili, "quali età, infermità o malattia, per le quali non può più essergli ragionevolmente chiesta la prosecuzione dell'attività".

Sembra, quindi, che il fatto di aver purtroppo subito una diagnosi per una malattia molto grave, possa costituire giusta causa di recesso dall'agente, nella misura in cui gli impedisce di attendere alla sua attività in modo soddisfacente.

Una volta accertato che la causa di recesso è "giusta" ai sensi dell'art. 2119, l'agente avrà diritto alla corresponsione delle indennità previste in caso di cessazione del rapporto.

L'art. 1751, comma secondo, prevede che all'atto della cessazione del rapporto il preponente sia tenuto a corrispondere all'agente un'indennità se l'agente abbia procurato nuovi clienti al preponente o abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti e il preponente riceva ancora sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti (circostanza che appare essersi verificata nel caso di specie) e se il pagamento di tale indennità sia equo, tenuto conto di tutte le circostanze del caso, in particolare delle provvigioni che l'agente perde e che risultano dagli affari con tali clienti.

Quanto alla misura dell'indennità, la legge stabilisce che essa non può superare una cifra equivalente ad un'indennità annua calcolata sulla base della media annuale delle retribuzioni riscosse dall'agente negli ultimi cinque anni e, se il contratto risale a meno di cinque anni, sulla media del periodo in questione (v. art. 1751 citato).
Evidentemente, in caso di disaccordo tra le parti, la quantificazione dell’indennità dovrà essere rimessa al giudice.

Poiché esistono anche Accordi Economici Collettivi, che quantificano le indennità in modo preciso, in misura percentuale rispetto alla provvigione, anche in seguito all'intervento della Corte di Giustizia Europea, la nostra Corte di Cassazione ha stabilito che la quantificazione dell’indennità, calcolata sulla base dei criteri posti dagli Accordi collettivi, può essere integrata dal giudice fino al massimo previsto dall’art. 1751 c.c. (Cass. civ. n. 12724/2009): è stato così confermato che la contrattazione collettiva individua un trattamento minimo garantito che può essere superato nel caso in cui sussistano i presupposti di cui all’art. 1751 c.c.

Tuttavia, nel nostro caso, troverà applicazione solo l'art. 1751, in base al contratto di agenzia in esame, che lo richiama espressamente (mentre l'azienda non aderisce agli A.E.C., che sono accordi esclusivamente di natura privata, che vincolano solo gli iscritti alle associazioni che li hanno sottoscritti). Come già anticipato, la determinazione spetta al giudice, cui l'agente dovrà rivolgersi in mancanza di un accordo tra le parti.

L'agente, anche se si vede concedere l'indennità, ha comunque diritto a chiedere l'eventuale risarcimento dei danni: in questo caso, però, il ristoro dei danni non è automatico - cioè legato al solo fatto del recesso per giusta causa - ma dovrà darsi prova dei pregiudizi subiti e del fatto che essi sono stati cagionati dal preponente (nel caso di specie, ad esempio, può chiedersi un risarcimento se la condotta del preponente ha fatto diminuire il normale volume d'affari dell'agente).

Marco M. chiede
giovedì 21/07/2011 - Emilia-Romagna

“Buongiorno,
sono stato assunto con un contratto a chiamata a tempo determinato e vorrei dimettermi.
Vorrei cortesemente sapere se posso utilizzare, come giuste cause, sia il carico di lavoro che mi viene settimanalmente attribuito (lavoro 22/25 giorni al mese) e che m'impedisce di trovare il tempo necessario per gli studi e per la tesi di laurea che dovrei discutere nell'appello di dicembre 2011, sia i cattivi rapporti personali che intercorrono tra me ed una delle due titolari, che ormai mi fanno andare al lavoro costantemente con ansia e rassegnazione.
Grazie mille dell'attenzione, buona giornata.”

Consulenza legale i 22/07/2011

Versandosi in un rapporto di lavoro a termine, lo stesso può cessare prima della scadenza del termine soltanto per comune volontà delle parti oppure per recesso per giusta causa.

Nel caso specifico, le dimissioni per giusta causa dovrebbero essere motivate da condizioni che impediscono di proseguire l'attività di lavoro e che costituiscono un palese inadempimento datoriale. Ad esempio, la giurisprudenza ha ritenuto giusta causa di dimissioni l’assegnazione a mansioni inferiori rispetto a quelle stabilite nel contratto di lavoro o ha ritenuto valida causa di risoluzione del rapporto un fatto di gravità tale da porre in crisi l'elemento fiduciario fra le parti.

In caso di dimissioni prima del termine senza giusta causa non è previsto esplicitamente il risarcimento del danno, tuttavia la giurisprudenza, in alcuni casi ha ravvisato un palese inadempimento contrattuale e ha previsto un risarcimento integrale del danno provocato al datore di lavoro (sentenza Cass. civ. n. 13597 del 23 dicembre 1992).


antonio trc. chiede
venerdì 29/04/2011 - Lombardia

“Vorrei cortesemente sapere se, in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, posso usufruire del diritto di recesso, a causa di mancati pagamenti di stipendi da circa 4 mesi, premetto che io lavoro li da 18 anni:
in caso di un mio licenziamento devo dare il preavviso o posso troncare il rapporto dall'oggi al domani per giusta causa?”

TIAGO P. chiede
sabato 23/04/2011 - Trentino-Alto Adige
“Vorrei sapere se, in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, dopo un'aggressione fisica al lavoratore da parte del datore di lavoro, se si può procedere al recesso per giusta causa, da parte del lavoratore, senza osservare il periodo di preavviso.

Grazie”
Consulenza legale i 26/04/2011

In tema di recesso per giusta causa, secondo il costante orientamento giurisprudenziale, “è causa di risoluzione del rapporto un fatto di gravità tale da porre in crisi l'elemento fiduciario fra le parti”.

Ne consegue che la condotta del datore di lavoro che sia giunto al compimento di atti di violenza fisica o di percosse, (purché non si sia trattato di un gesto isolato, da ascriversi al momentaneo stato di esasperazione), può integrare i requisiti di gravità idonei a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario sotteso al rapporto di lavoro (e può costituire altresì illecito penale riconducibile al reato di violenza privata disciplinato dall'art. 610 del c.p.).

Inoltre, versandosi in un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, l’art. 2119 c.c. stabilisce che al lavoratore che receda per giusta causa spetta il diritto a percepire l’indennità sostitutiva del mancato preavviso, essendo stato il recesso determinato da un fatto colpevole del datore di lavoro. Si tratta di un indennizzo per la mancata percezione delle retribuzioni nel periodo necessario al reperimento di una nuova occupazione, dato che l’interruzione immediata del rapporto non è stata volontaria.

Il lavoratore deve consegnare o inviare una lettera con cui comunica la sua volontà di dimettersi per giusta causa, subito dopo il verificarsi della causa che ha reso impossibile la prosecuzione del rapporto.


GAETA G. chiede
giovedì 10/02/2011 - Puglia
“In caso di "affitto di ramo di azienda" il lavoratore a tempo indeterminato che vede la riduzione dello stipendio con cancellazione di benefit economici extra può rassegnare le dimissioni senza osservare il previsto periodo di preavviso, ma dando soltanto gli 8 giorni come cita l'art.2119 c.c. ?”
Consulenza legale i 11/02/2011

In ipotesi di affitto d'azienda si applica l'art. 2112 del c.c. sul trasferimento d'azienda, in base al quale l'originario contratto di lavoro vincola il cessionario dell'azienda e il rapporto di lavoro rimane unico e continuo nonostante la sostituzione di uno dei contraenti e l'eventuale, formale ma fittizia, sua frattura (Cass. civ., 85/1754). Il trasferimento/affitto d'azienda non costituisce da solo un giustificato motivo di licenziamento, da parte del datore di lavoro, ai sensi del quarto comma dell'art. 2112 c.c. Tuttavia, se nel periodo immediatamente successivo all'affitto dell'azienda, le condizioni di lavoro dei dipendenti subiscono una modifica sostanziale, si potrebbe configurare un'ipotesi di dimissioni per giusta causa ex art. 2119 del c.c.. La valutazione nel merito, tuttavia, è lasciata alla discrezionalità del giudice.
Ad esempio, la giurisprudenza ha ritenuto giusta causa di dimissioni l’assegnazione a mansioni inferiori rispetto a quelle stabilite nel contratto di lavoro.


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