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Articolo 36 Costituzione

[Aggiornato al 22/10/2023]

Dispositivo dell'art. 36 Costituzione

Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia [31] un'esistenza libera e dignitosa [2099, 2100, 2101, 2102, 2120, 2121, 2122, 2126, 2131 c.c.].

La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge [2107, 2108 c.c.].

Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi [2109].

Ratio Legis

Poichè il lavoratore subordinato rappresenta la parte debole del rapporto contrattuale, il costituente si è preoccupato di predisporre una serie di garanzie inderogabili a suo favore, espressione di valori fondamentali della persona in quanto tale.

Spiegazione dell'art. 36 Costituzione

Il titolo III della Costituzione disciplina in generale i rapporti economici e contiene le disposizioni fondamentali in materia di rapporti di lavoro e di regime giuridico della proprietà.

L'affermazione dello Stato sociale ed il riconoscimento dei suoi principi va integrata e resa compatibile con la logica dell'economia di mercato proclamata dal costituente.

L'articolo in esame sancisce innanzitutto il principio della giusta retribuzione, secondo il quale vi deve essere proporzione tra retribuzione e quantità e qualità del lavoro prestato e secondo cui la retribuzione debba essere in ogni caso sufficiente ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa.

La norma costituzionale non stabilisce, in concreto, quale retribuzione spetti al prestatore, perchè questo viene lasciato alla legislazione ordinaria. La Costituzione, però, detta i criteri sulla base dei quali emanare questa normativa che sono quello della proporzionalità e quello della sufficienza. In base al primo, deve esserci una relazione corrispettiva tra ogni elemento della retribuzione ed ogni elemento della prestazione lavorativa: così, ad esempio, una parte di retribuzione può consistere in elargizioni diversi dal denaro, come le partecipazioni agli utili societari. Inoltre, la proporzionalità può anche mancare, come accade quando il prestatore riceve la retribuzione anche per il periodo di ferie. La sufficienza indica la misura minima del compenso, che deve essere tale da rispettare libertà e dignità del lavoratore e della sua famiglia.

L'immediata forza cogente della norma in oggetto inserisce il suo dettato tra i diritti irrinunciabili del lavoratore, senza cioè necessità di altre disposizioni complementari. Corollario di quanto affermato è che la sufficienza del salario ha assunto efficacia ultrattiva ai contratti collettivi di categoria stipulati dalle organizzazioni sindacali e che dunque il minimo salariale si applica per tutti i lavoratori della categoria, a prescindere da una loro adesione alle organizzazioni sindacali stipulanti.

Il secondo comma stabilisce invece una riserva di legge per determinare la durata massima della giornata lavorativa. Ad oggi il limite massimo stabilito è, ai sensi dell'art. 3 del d.lgs. 8 aprile 2003, n. 66, quello delle 40 ore settimanali (salvo particolari categorie di lavoratori, come le donne o i minori, o certe tipologie di lavoro). In passato, negli ordinamenti non democratici, mancava un tetto all'orario lavorativo e ciò rendeva possibile lo sfruttamento dei lavoratori, anche minori. In Italia una prima regolamentazione in materia si è avuta solo con il R.D.L. 15 marzo 1923, n. 692.

Il terzo comma sancisce il medesimo principio della riserva di legge per quanto concerne il diritto al riposo settimanale e le ferie annuali, ed alla loro irrinunciabilità. Sia il riposo settimanale, sia le ferie annuali sono previsti allo scopo di consentire al lavoratore di realizzare la propria persona anche in relazione ai suoi interessi ed ai suoi rapporti famigliari, nonchè di riposare e recuperare le forze. L'irrinunciabilità di essi comporta che ogni clausola contrattuale che dovesse eliminarli sarebbe nulla ex art.1418 c.c..

Relazione al Progetto della Costituzione

(Relazione del Presidente della Commissione per la Costituzione Meuccio Ruini che accompagna il Progetto di Costituzione della Repubblica italiana, 1947)

36 Sono direttive generali anche il criterio di rimunerazione del lavoro e la parificazione, a tali effetti, della lavoratrice al lavoratore; con che si completa in questa costituzione la conquistata eguaglianza della donna.

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Consulenze legali
relative all'articolo 36 Costituzione

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Giuseppe T. chiede
domenica 22/09/2019 - Emilia-Romagna
“Buongiorno,
Sono l’unico dirigente in forza presso un’azienda meccanica, appartenente ed un gruppo industriale di notevoli dimensioni.
Ho sempre ricevuto, da quando sono stato assunto oltre 10 anni fa, un premio in denaro, di importo quasi sempre uguale ed in unica soluzione a fine anno, senza che sia mai stata definita alcuna regola e non vincolato a contrattazioni o risultati aziendali.
In pratica il datore di lavoro ha sempre erogato il premio in denaro, di sua esclusiva e spontanea volontà, per oltre 10 anni consecutivi.
Nel caso di specie, essendo l’unico dirigente in azienda, solamente a me.
Questo però si è interrotto improvvisamente lo scorso dicembre, senza nessuna spiegazione e senza alcun mutamento nelle mie mansioni.
Sono a chiedere se questo comportamento è legittimo, oppure, come ho letto su alcune pubblicazioni del Sole 24 Ore e sentenze di merito e legittimità (che riporto, certamente in modo parziale, a piè pagina), se si possa essere instaurato un “uso aziendale” e come tale, di non così facile ed immediata revoca, almeno in un caso particolare come il mio.

Grazie


- Tribunale di Udine n.102 del 22/03/2019
- Cass.Sez.Lav. n.22927/2012
- Cass.Sez.Lav. n.8342/2010
- Cass.Sez.Lav. n. 18263/2009
- Cass.Sez.Lav n.13816/2008
- Cass.Sez.Unite n. 26107/2007
- Cass.Sez.Lav. n.1773/2000”
Consulenza legale i 27/09/2019
A parere dello scrivente, la questione particolare andrebbe affrontata con riguardo più particolare al tema della irriducibilità della retribuzione, più che con riferimento agli usi aziendali, la cui disciplina è posta a tutela di analoghi interessi e diritti.

Orbene, il diritto alla retribuzione è un degli elementi qualificanti del rapporto di lavoro subordinato disciplinato dagli artt. 2094 e seguenti del Codice Civile, ai sensi del quale è definito lavoratore subordinato «chi si obbliga mediante retribuzione» a rendere la propria prestazione lavorativa manuale o intellettuale alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore.

Ciò che consegue al riconoscimento da parte dell’ordinamento giuridico della funzione fondamentale della retribuzione, è il principio della irriducibilità della stessa che si sostanzia nel divieto assoluto della relativa modifica unilaterale in peius o, alla luce anche delle ultime modifiche normative in materia, nella plausibilità di una riduzione soltanto se concordata tra le parti del rapporto di lavoro.

Nota dottrina è concorde nel definire l’irriducibilità quale fisiologica conseguenza della contrattualità della retribuzione e della garanzia della legittima aspettativa di guadagno del lavoratore subordinato.

A ciò è da aggiungere la tutela, apprestata dall’ordinamento giuridico, dell’interesse del lavoratore alla stabilità del reddito, inteso quale corrispettivo della propria prestazione lavorativa che si è impegnato a rendere mettendo a disposizione del datore di lavoro le proprie capacità.

L’irriducibilità della retribuzione trova fondamento nei principi costituzionali contenuti nell’art. 36 della Costituzione. Tali principi di garanzia del lavoratore non avrebbero alcun senso se fosse consentito al datore di lavoro di poter indiscriminatamente ridurre la retribuzione da corrispondere al lavoratore in ragione delle proprie esclusive esigenze.

Vi è da osservare che nemmeno in conseguenza delle più recenti novità normative, il principio di irriducibilità delle mansioni subisce alcuna deroga.

È da considerarsi, infatti, il sesto comma dell’art. 2103 c.c., come modificato ad opera dell’art. 3 del D.Lgs. 81/2015, che prevede la possibilità di riduzione della retribuzione ma, soltanto sulla base di uno specifico accordo individuale finalizzato alla tutela dell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione o all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita.

Il diritto alla pretesa retributiva del lavoratore è costituito, dunque, da una serie di elementi che determinano la retribuzione materialmente corrisposta allo stesso, tra i quali possono essere annoverati, oltre alla paga base, i superminimi, e altre indennità che spesso sono legate alla particolare categoria o inquadramento professionale del prestatore di lavoro e corrisposte mensilmente.

Orbene, è il caso di porre in evidenza, però, che gli orientamenti giurisprudenziali in merito all’applicazione del principio di irriducibilità della retribuzione, non sono sempre stati univoci. Soltanto ultimamente hanno raggiunto un apprezzabile grado di consolidamento ritenendo che, nel caso di esercizio legittimo dello jus variandi in peius relativo alle mansioni, «la garanzia di irriducibilità della retribuzione si estende alla sola retribuzione compensativa delle qualità professionali intrinseche essenziali delle mansioni precedenti, ma non a quelle componenti della retribuzione che sino erogate per compensare particolari modalità della prestazione lavorativa»(Cass. n. 29247/2017). In buona sostanza, il diritto al mantenimento del livello retributivo raggiunto comprende quelle voci della retribuzione che, a prescindere dall’indicazione formale, confluiscono nella indennità stipendiale mensile e vengono corrisposte con continuità.
Risulta privo di questa tutela, invece, ogni elemento retributivo che è riconosciuto in funzione di una specifica modalità della prestazione o della sua gravosità avente, come tale, natura indennitaria.

Dal quadro normativo, dottrinario e giurisprudenziale sopra evidenziato, è possibile procedere alla seguente sintesi: il principio della irriducibilità della retribuzione è da intendersi comunque operante in senso assoluto in riferimento a provvedimenti unilaterali del datore di lavoro i quali, pertanto, sarebbero da considerarsi nulli e pertanto, privi di ogni effetto nei confronti del lavoratore, il quale mantiene il proprio diritto di percepire tutte gli elementi del livello retributivo raggiunto.

Tutto quanto sopra argomentato, opportuna considerazione e valutazione dovrà essere dedicata alla natura dell’indennità percepita dal lavoratore (premio in denaro, di importo quasi sempre uguale ed in unica soluzione a fine anno).

Ad avviso dello scrivente, non essendo intervenuta alcuna modifica delle mansioni e del relativo inquadramento professionale, che astrattamente avrebbero potuto giustificare il mancato pagamento del premio de quo, non è possibile qualificare tale ultimo elemento retributivo quale corrispettivo riconosciuto in funzione di una specifica modalità della prestazione o della sua gravosità.

È possibile concludere pertanto, che l’indennità in parola costituisce elemento determinante della retribuzione materiale che, pur se corrisposta con cadenza annuale e non mensile, è d considerarsi garantita dal principio di irriducibilità della retribuzione fin qui esposto.

Anonimo chiede
martedì 12/02/2019 - Puglia
“Buongiorno,
sono un dipende comunale e ricopro la qualifica di Responsabile dell'Unità Operativa Mercato Ortofrutticolo di M.. In questi anni ho accumulato quasi 300 giorni di ferie non utilizzate e non godute per diversi motivi tra cui le esigenze di servizio per mancanza di personale e per recupero di ore lavorative effettuate in più e non pagate (Riposi Compensativi). Nel mese di Aprile 2020 dovrei essere collocato in pensione ma, preciso, ad oggi ho superati i 43 anni di servizio e potrei chiedere la pensione. Ieri mi ha chiamato il mio Dirigente e con fare autoritario e poco corretto mi ha comunicato che essendo venuto a conoscenza delle ferie mi obbliga a consumarle tutte dividendole per i mesi che rimangono alla pensione, non essendo a conoscenza che potrei andare via subito.
Praticamente dovrei fare quasi 25 giorni al mese iniziando da Marzo 2019 e finendo ad Aprile 2020. Io non voglio darla vinta a questo signore e pertanto ritengo illeggittima la sua imposizione e chiedo a Voi lumi e pareri sulla questione. Rimanendo in attesa distintamente saluto.”
Consulenza legale i 22/02/2019
Il godimento delle ferie lavorative rappresenta un diritto irrinunciabile e indisponibile del lavoratore, garantito all'art. 36 della Costituzione e riconosciuto da tutte le normative legislative (vedasi, tra gli altri, l'art. 2109 codice civile, il D. lgs. 66/2003 all'articolo 10 come modificato dal D.Lgs. n. 213/2004; l'articolo 5, comma 8, del Dl 95/2012) e contrattuali (vedasi i singoli Contratti Collettivi Nazionali (CCNL) e, per il caso di specie, l'art. 28 del CCNL degli enti locali) di settore.

Difatti, il lavoratore non può decidere in nessun caso di rinunciare alle ferie tanto che, a garanzia di ciò, discende in capo al datore di lavoro un potere imperativo, potendo lo stesso obbligare il lavoratore ad usufruire del periodo di riposo nel rispetto dei termini e delle modalità previste dalla legge, purché considerando non solo le esigenze aziendali, ma anche e soprattutto gli interessi personali e/o familiari del lavoratore.
Tuttavia, detto potere imperativo del datore di lavoro può ritenersi legittimo soltanto nel caso in cui il lavoratore abbia deciso volontariamente ed espressamente di non godere delle ferie (tra le tante, Cass. 15353/2012 e n. 25136/2010).
Al contrario, qualora il lavoratore non fruisca delle ferie per esigenze di servizio e non per cause dipendenti dalla sua volontà, come accaduto nel caso in esame, il datore di lavoro non può obbligare lo stesso alla consumazione delle ferie accumulate negli anni, stabilendone per giunta il periodo nel quale usufruirne.

Infatti, una volta trascorso l’anno di competenza (le ferie debbono essere godute obbligatoriamente entro l’anno di lavoro o al massimo nei 18 mesi successivi: si veda l'art. 2109, 2° comma, c.c.), il datore di lavoro non può più imporre al lavoratore di godere effettivamente delle ferie (e ciò, si badi bene, in special modo in occasione dell'imminente conseguimento del pensionamento), ma è tenuto alla corresponsione della cosiddetta indennità sostitutiva (Cass. 1756/2016; 24/10/2000, n. 13980; Circ. Min. Lav. Del 3.3.2005 n 8), la cui misura è rapportata alla retribuzione ordinaria percepita (T.A.R. Lazio, sez. III, 26 maggio 1998 n. 1200). Ancora, il datore di lavoro che non consenta al lavoratore di usufruire delle ferie entro i termini di legge, oltre al pagamento dell'indennità sostitutiva, è punito con una sanzione amministrativa e, incorrendo in responsabilità contrattuale, è pure tenuto al risarcimento del danno cagionato al lavoratore per non avere goduto del riposo psicofisico necessario.

Tutto quanto appena riportato è valido ed applicabile anche al rapporto di lavoro presso le Pubbliche Amministrazioni.
Difatti, nonostante il dettato normativo di cui all'art. articolo 5, comma 8, del Dl 95/2012 appaia abbastanza chiaro al riguardo, ossia il dipendente pubblico deve obbligatoriamente fruire delle ferie con divieto per la Pubblica Amministrazione di corresponsione di trattamenti economici sostitutivi, la giurisprudenza della Corte di Cassazione, unitamente alla Corte Costituzionale, al Consiglio di Stato e alla prassi amministrativa, ha affermato, anche di recente, che “l'inerzia della PA sulla concessione delle ferie obbliga la stessa alla remunerazione di eventuali ferie residue a prescindere dalla mancata richiesta avanzata dal dipendente durante il rapporto di lavoro” con conseguente responsabilità del datore di lavoro per danno erariale (Cass. n. 2496/2018, 27206/2017; 3860/2000; 13860/ 2000; Corte Cost. 95/2016; 286/2013; Cons. Stato, 8.10.2010, n 7360. Vedasi anche l'art. 28, co. 11 CCNL Enti Locali).

Alla luce di tutte le argomentazioni che precedono, si può quindi affermare che, nel caso di specie, il dipendente comunale non è obbligato a consumare tutti i 300 giorni di ferie accumulati prima del collocamento in pensione secondo le direttive del datore di lavoro, posto che finora non ne ha usufruito per sole ragioni di servizio (ossia, a titolo esemplificativo, per mancanza di personale e per recupero di ore lavorative effettuate in più e non pagate, o riposi compensativi).
Anzi, il dipendente ha diritto alla corresponsione della indennità sostitutiva e al risarcimento del danno, dimostrando che le ferie non sono state godute per ragioni indipendenti dalla sua volontà e che ha subito danni da mancato riposo lavorativo. Eventualmente egli può essere obbligato ad usufruire delle ferie non godute nell'anno 2019, per le quali deve decidere in accordo con il datore il periodo di fruizione.
E al riguardo si evidenzia come detto periodo di ferie, vista la situazione che si rinviene nel caso concreto (circa 300 giorni di ferie non godute), deve essere continuativo e non consistere in uno o più giorni al mese, tra oggi fino al collocamento in pensione.

Ad ogni modo, qualora non si rinvenga una soluzione conciliativa col datore di lavoro, ovvero il riconoscimento dell'indennità sostitutiva e/o del risarcimento del danno e la possibilità di usufruire delle ferie in modo compatibile con gli interessi del dipendente e del datore di lavoro, sarà possibile adire le competenti autorità giudiziarie mediante la proposizione di autonoma azione civile.

Massimo L. chiede
domenica 04/03/2018 - Sicilia
“Salve, ho fatto richiesta al mio datore di lavoro di poter avere i "bonus guidelines" degli ultimi 4 anni al fine di verificare la correttezza dei pagakenti della mia remunerazione variabile degli ultimi anni. Il mio datore di lavoro si rifiuta di fornirmi queste info (vedi allegato). C'è una norma a cui posso fare appello per farmi fornire tali info?
Allo stesso modo ho chiesto copia degli organigrammi degli ultimi anni e la risposta è stata ancora negativa.
Saluti
Massimo”
Consulenza legale i 09/03/2018
La retribuzione costituisce il corrispettivo della prestazione fornita dal lavoratore che ha diritto ad un compenso proporzionato alla quantità e qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente a garantire a lui ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa (art. 36 Costituzione).
Nei contratti collettivi sono spesso previste attribuzioni patrimoniali ad integrazione della normale retribuzione, denominate premi di produttività, premi di partecipazione agli utili aziendali o premi di risultato.
Il protocollo del 23 luglio 1993 tra il Governo e le parti sociali chiamato Protocollo sulla politica dei redditi e dell'occupazione, sugli assetti contrattuali, sulle politiche del lavoro e sul sostegno al sistema produttivo, stipulato dal Governo e dalle parti sociali il 23 luglio del 1993, prevede la contrattazione a livello aziendale dei premi di produttività (retribuzione variabile) riferiti ai risultati conseguiti nella realizzazione di programmi concordati tra le parti, aventi come obiettivo incrementi di produttività.
Pertanto, la norma di riferimento per individuare la corretta procedura e i relativi obblighi di comunicazione dei risultati conseguiti e della conseguente liquidazione del premio di produttività è certamente contenuta nell’accordo aziendale.


Sara M. chiede
venerdì 16/10/2015 - Calabria
“Buongiorno. Mio marito ha lavorato da maggio 2014 a Luglio 2014 per una società che gestisce un campeggio. Non ha mai ricevuto copia del contratto di lavoro, nè le buste paga. Dal certificato occupazionale l'assunzione risulta a tempo determinato dal 26 maggio fino al 30 giugno con la qualifica di inserviente, ma in realtà ha lavorato come muratore. mio marito ha preteso e per fortuna , almeno quello ci è stato concesso, l'accredito sul conto della paga mensile e abbiamo la copia dei bonifici da maggio a luglio. Volevo chiedervi se si può fare una causa per avere il TFR e se sono dovuti altri benefici ( assegni familiari, ferie non godute, permessi, ecc... ) e se si deve prendere in considerazione il contratto nazionale della categoria effettivamente applicata per i vari calcoli (quella edile anzichè quella alberghieri). Il nostro sindacato ci ha detto più o meno queste cose ma non siamo sicuri di aver capito bene. un'ultima informazione: i contributi sono stati versati solo per due settimane: dal 1/6 al 15/6. : dobbiamo fare causa per l'accredito del restante periodo contributivo o dobbiamo fare la denuncia all'inps? Grazie per la risposta. Distinti saluti.”
Consulenza legale i 16/10/2015
L'art. 36 della Costituzione sancisce che il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro.
Di conseguenza, ogni qualvolta sia prevista una retribuzione del lavoratore inadeguata alla prestazione lavorativa, il giudice deve adeguare la retribuzione facendo per l'appunto riferimento a quella prevista nei contratti di categoria.

La giurisprudenza sul punto è consolidata. Si vedano ad esempio Cass., 18.3.2004, n. 5519 e 14.12.2005, n. 27591: "E' principio di diritto, nella giurisprudenza di questa Corte, che in tema di adeguamento della retribuzione ai sensi dell’art. 36 Cost., il giudice del merito, anche se il datore di lavoro non aderisca ad una delle organizzazioni sindacali firmatarie, ben può assumere a parametro il contratto collettivo di settore, che rappresenta il più adeguato strumento per determinare il contenuto del diritto alla retribuzione, anche se limitatamente ai titoli contrattuali che costituiscono espressione, per loro natura, della giusta retribuzione, con esclusione, quindi, dei compensi aggiuntivi, degli scatti di anzianità e delle mensilità aggiuntive oltre la tredicesima. Ove il giudice del merito intenda discostarsi dalle indicazioni del contratto collettivo, ha l'onere di fornire opportuna motivazione, mentre costituisce specifico onere del datore di lavoro quello di indicare gli elementi dai quali risulti la inadeguatezza, in eccesso, delle retribuzioni contrattualmente previste in considerazione di specifiche situazioni locali o della qualità della prestazione offerta dal lavoratore".

Quanto al TFR, certamente il lavoratore ha diritto a percepire la somma interamente maturata nel periodo in cui ha lavorato. Secondo l'orientamento dottrinale e giurisprudenziale assolutamente prevalente, il pagamento del TFR deve effettuato non appena si verifica la cessazione del rapporto di lavoro (Cass. civ., 23.4.2009, n. 9695, ad esempio, ha affermato che il termine iniziale di decorso della prescrizione del diritto al TFR va individuato nel momento in cui tale diritto può essere fatto valere, e cioè nel momento in cui il rapporto di lavoro subordinato cessa e non già in quello in cui sia stato accertato giudizialmente l'effettivo ammontare delle retribuzioni spettanti).
Si consiglia di agire prima di tutto con una raccomandata e, in caso di mancato spontaneo pagamento, di rivolgersi ad un legale per depositare il ricorso per decreto ingiuntivo.

Rispetto agli altri benefici, per dare una risposta precisa sarebbe necessario esaminare la documentazione del caso e la situazione reddituale della famiglia. Un caf o un altro professionista specializzato dovrebbe essere in grado di fornirvi la necessaria assistenza.

Infine, quanto ai contributi non versati, l'INPS stabilisce che i contributi previdenziali obbligatori devono essere versati entro i termini e con le modalità di calcolo stabilite dalla legge. Se queste regole non vengono rispettate, si determina una inadempienza contributiva che deve essere regolarizzata, con aggravio di sanzioni, entro i termini di prescrizione previsti dalla legge.
Il lavoratore, qualora si accorga dell'omesso versamento, deve allertare l'INPS e segnalare l'inadempienza: l'INPS si attiverà per ottenere il rimborso e il riconoscimento di un eventuale risarcimento (di regola, dovrà inviare al contravventore una diffida scritta nella quale indica le somme dovute e intima il versamento entro il termine di tre mesi).
Per fare denuncia all'INPS (si hanno cinque anno di tempo) sono di norma necessarie le buste paga. Tuttavia, nel caso di specie, esse non sono in possesso del lavoratore.
Di conseguenza di dovrà intimare al datore di lavoro di esibire le buste paga assieme al pagamento del TFR. Se il datore di lavoro non consegna le buste paga, esse potranno essere richieste all'interno dello stesso ricorso giudiziale con cui si intima il pagamento del TFR. Il giudice adito verificherà l’esistenza del rapporto di lavoro intercorso sulla base della documentazione fornita dal lavoratore, tra cui un ruolo fondamentale avranno i pagamenti con bonifico effettuati mensilmente dal datore di lavoro. Successivamente, il giudice emetterà decreto d’ingiunzione con l’ordine di consegnare le buste mancanti e le somme derivanti dal conteggio prodotto.

S. S. chiede
lunedì 08/08/2022 - Abruzzo
“A mio figlio, medico di emergenza territoriale MET(118) in Piacenza è stato chiesto di svolgere mansioni aggiuntive al pronto soccorso di cui all'ART. 65 comma 2 ACN medici del territorio, al quale non potrà essere associata l'attribuzione di attività cui consegue l'assunzione di posizione di garanzia nei confronti dei pazienti che accedono al Pronto Soccorso e Punto Primo di intervento . In tali servizi viene corrisposto un compenso orario pari ad euro 52,50, mentre a chi ha almeno dieci anni viene riconosciuta una integrazione aggiuntiva di 13,61 euro.
1)l'assunto che dice non potrà essere associata posizione di garanzia nei confronti del medico che svolge mansioni aggiuntive, esime il suddetto da ripercussioni legali di responsabilità secondo codice penale?
2) è corretto fare un distinguo tra la retribuzione di chi ha almeno dieci anni di anzianità e chi ha meno di dieci anni, che di fatto può godere dell'integrazione di euro13,61 che viene a sommarsi alla paga base di 52,60, dal momento che ad eguali mansioni eguale retribuzione? Attendo chiarimenti nei tempi da voi stabiliti.”
Consulenza legale i 18/09/2022
Quanto alla posizione di garanzia, valga quanto segue.

Come noto, la posizione di garanzia costituisce un particolare costrutto normativo riconducibile al capoverso dell’art. 40 del c.p., secondo cui “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo”.
Secondo la norma, dunque, vi sono determinati casi nei quali l’omissione del soggetto è punita non già in quanto tale ma solo laddove tale omissione sia ritenuta antidoverosa alla stregua di taluni parametri.

Ecco, è proprio su questi parametri che si è da sempre innestato una disputa dottrinale di non poco conto che rileva ai fini del caso posto all’attenzione.

La domanda cui bisogna rispondere è: quand’è che si può dire validamente sussistente una posizione di garanzia?

Da sempre le tesi che si sono maggiormente scontrate sono due:
- una tesi formale, secondo cui l’instaurazione di una posizione di garanzia deve derivare solo da una norma specifica;
- una tesi sostanziale, secondo cui l’instaurazione di una posizione di garanzia si ha solo laddove il soggetto è nella concreta posizione di proteggere un determinato soggetto (obbligo di protezione) e/o di governare un determinato pericolo (obbligo di controllo).

Ora, va detto che nessuna delle due teorie è stata accolta prediligendosi, piuttosto, una verifica empirica rispetto al caso di specie.
Più semplicemente, la teoria maggiormente accolta in giurisprudenza è un mix di quella formale e quella sostanziale.

Al fine di ritenere radicata tale posizione, invero, più che una specifica norma occorre:
- come detto, che il soggetto agente sia nella concreta posizione di proteggere un determinato soggetto (obbligo di protezione) e/o di governare un determinato pericolo (obbligo di controllo);
- che l’eventuale soggetto da proteggere si trovi in una oggettiva posizione di incapacità e impossibilità di autotutelarsi;
- che il soggetto agente abbia dei concreti poteri impeditivi dell’evento;
- che il soggetto agente fosse nella effettiva possibilità di impedire tale evento.

La suesposta ricostruzione teorica rende conto di come, nel caso di specie, una posizione di garanzia in capo al medico che svolge mansioni aggiuntive non può essere affatto esclusa ciò sia in ragione del fatto che ne sussisterebbero tutti gli elementi, sia in ragione del fatto che un contratto collettivo nazionale non può mai derogare ad una norma primaria quale quella contenuta nel codice penale e dalle ulteriori normative, finanche costituzionali, in ambito medico

Per quanto riguarda l’integrazione di euro 13,61 per i medici con almeno dieci anni di anzianità, non si rilevano profili di illegittimità.
L’anzianità di servizio è uno dei parametri della retribuzione. Infatti, gli scatti di anzianità sono uno degli elementi della retribuzione che si ritrovano da sempre nella contrattazione collettiva.
Come osservato anche dalla Suprema Corte, la giusta retribuzione ex art. 36 Cost. deve essere adeguata anche in proporzione all’anzianità di servizio acquisita, in considerazione del miglioramento qualitativo nel tempo della prestazione. (Cass. 7/7/2008 n. 18584).
Peraltro, la Cassazione ha a suo tempo precisato che gli aumenti della retribuzione legati all’anzianità, essendo di origine e disciplina esclusivamente contrattuale, sono estranei alla proporzionalità della retribuzione ed alla quantità e qualità del lavoro prestato, poiché l'autonomia collettiva ha configurato tali aumenti come un elemento in più, attribuiti in virtù del fattore anzianità, senza considerazioni di merito (Cassazione 16/12/1982 n. 6959).
Non si ravvisano, pertanto, profili di illegittimità nella disposizione contrattuale in parola.

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