Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Napoli aveva confermato la sentenza con cui il Tribunale della stessa città aveva accertato la legittimità del licenziamento intimato ad un lavoratore.
Nel caso in esame, in particolare, il lavoratore lavorava all’interno di un supermercato ed era stato licenziato perché, al momento del suo passaggio nella portineria del supermercato stesso, era scattato l’allarme antitaccheggio e il dipendente era stato trovato in possesso “di confezioni di gomme e di caramelle del valore complessivo di Euro 9.80”.
Secondo la Corte d’appello, in particolare, la gravità della condotta e la proporzionalità della sanzione espulsiva non poteva essere esclusa “dal valore esiguo dei beni sottratti”, tenuto conto della “organizzazione del lavoro (esposizione delle merci alla pubblica fede)” e dalle mansioni affidate al lavoratore, che era addetto alla sicurezza.
Ritenendo la decisione ingiusta, il lavoratore aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Secondo il ricorrente, in particolare, la Corte d’appello, nel confermare la legittimità del licenziamento, non avrebbe dato corretta applicazione all’art. 2119 c.c., dal momento che la stessa, “nel formulare il giudizio di gravità della condotta addebitata (…) e quello di proporzionalità della sanzione espulsiva comminata, non avrebbe considerato che i fatti oggetto di contestazione disciplinare non risultavano accertati in modo incontrovertibile, che il valore dei beni assunti come sottratti era esiguo (Euro 9,80), che prima del licenziamento non era stata irrogata alcuna sanzione disciplinare”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter dar ragione al ricorrente, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.
Osservava la Cassazione, in proposito, che, “la valutazione in ordine alla ricorrenza della giusta causa e al giudizio di proporzionalità della sanzione espulsiva” deve essere effettuata tenendo conto degli aspetti concreti riguardanti la natura del rapporto di lavoro, la posizione delle parti, il “grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente”, il danno eventualmente arrecato al datore di lavoro, nonché i motivi l'intenzionalità della condotta.
Precisava la Cassazione, inoltre, che, “al fine di ritenere integrata la giusta causa di licenziamento”, non è necessario che il lavoratore abbia agito con l’intenzione di danneggiare il datore di lavoro, dal momento che anche un comportamento di natura colposa può essere idoneo a determinare una lesione del rapporto di fiducia tra lavoratore e datore di lavoro, “così grave ed irrimediabile da non consentire l'ulteriore prosecuzione del rapporto”.
Evidenziava la Cassazione, peraltro, che, con riferimento alla condotta di “’asportazione di beni’ dell'azienda”, “la modesta entità del fatto può essere ritenuta non tanto con riferimento alla tenuità del danno patrimoniale, quanto in relazione all'eventuale tenuità del fatto oggettivo”, con la conseguenza che anche l’asportazione di beni di poco valore può essere idonea a legittimare il licenziamento, laddove la stessa abbia determinato il venir meno “dell'elemento essenziale della fiducia”, essendo la condotta del dipendente stata “idonea a porre in dubbio la futura correttezza del suo adempimento”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione riteneva che la Corte d’appello avesse, del tutto correttamente, dichiarato la legittimità del licenziamento, dal momento che “le mansioni affidate al lavoratore comportavano diretto contatto con la merce” e che la condotta contestata aveva avuto “carattere fraudolento” (“desunto dalla convinzione del lavoratore che la sottrazione non sarebbe stata scoperta perché le confezioni di gomme e di caramelle trovate nelle tasche del "giacchetto" e dei pantaloni erano prive dei tradizionali visibili dispostivi antitaccheggio”).
La Corte d’appello aveva, dunque, giustamente ritenuto che “il dimostrato carattere fraudolento (…) della condotta del lavoratore” fosse “sintomatico della sua (…) inaffidabilità e, come tale, idoneo ad incidere in maniera grave ed irreversibile sull'elemento fiduciario, nonostante la modesta entità del danno patrimoniale e la mancanza di precedenti disciplinari”.
Di conseguenza, la Cassazione rigettava il ricorso proposto dal lavoratore, confermando integralmente la sentenza impugnata e condannando il lavoratore anche al pagamento delle spese processuali.