Nel caso esaminato dagli Ermellini, la Corte d’appello di Bologna, in riforma della sentenza di primo grado, resa dal Tribunale della stessa città, aveva confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa del dipendente, il quale aveva presentato una denuncia-querela nei confronti del legale rappresentante della società datrice di lavoro, fondata su accuse non veritiere.
Di conseguenza, secondo la Corte d’appello, la condotta posta in essere dal lavoratore era stata idonea a ledere irrimediabilmente il rapporto di fiducia che deve sussistere tra lavoratore e datore di lavoro, tanto da escludere la possibilità di prosecuzione del rapporto di lavoro.
Ritenendo la decisione ingiusta, il lavoratore aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
La Suprema Corte, riteneva, in effetti, di dover dar ragione al lavoratore, accogliendo il relativo ricorso, in quanto fondato.
In effetti, doveva escludersi che: "la denuncia di fatti di potenziale rilievo penale accaduti nell'azienda possa integrare giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento", a meno che non venga dimostrato “il carattere calunnioso della denuncia medesima e quindi la volontà di accusare il datore di lavoro di fatti mai accaduti o dallo stesso non commessi”.
Sul punto, la Corte, aveva anche precisato che “l'esercizio del potere di denuncia, riconosciuto dall' art.333 c.p.p., non può essere fonte di responsabilità, se non qualora il privato agisca nella piena consapevolezza della insussistenza dell'illecito o della estraneità allo stesso dell'incolpato”.
Alla luce di tali considerazioni, la Suprema Corte accoglieva il ricorso proposto dal lavoratore, rinviando la causa al giudice d’appello, affinchè la questione venisse decisa, sulla base dei principi sopra enunciati.