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Articolo 1373 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 26/11/2024]

Recesso unilaterale

Dispositivo dell'art. 1373 Codice Civile

(1)Se a una delle parti è attribuita la facoltà di recedere dal contratto, tale facoltà può essere esercitata finché il contratto non abbia avuto un principio di esecuzione(2).

Nei contratti a esecuzione continuata o periodica [1467](3), tale facoltà può essere esercitata anche successivamente, ma il recesso non ha effetto per le prestazioni già eseguite o in corso di esecuzione(4).

Qualora sia stata stipulata la prestazione di un corrispettivo per il recesso(5), questo ha effetto quando la prestazione è eseguita.

È salvo in ogni caso il patto contrario(6).

Note

(1) La legge prevede anche delle ipotesi particolari di recesso, quali, ad esempio, quella di cui agli art. 64 ss. del D. lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del consumo) e quella di cui all'art. 6 della legge 18 giugno 1998, n. 192 in tema di subfornitura. Il recesso non deve essere confuso con la disdetta che costituisce il diniego alla rinnovazione di un contratto per il quale questa sia automatica ed è prevista, ad esempio, in materia di locazione di immobili urbani (artt. 2 e 3 L. 9 dicembre 1998, n. 431 e artt. 28 e 29 L. 27 luglio 1978, n. 392).
(2) Tale comma si riferisce ai contratti ad esecuzione immediata, i quali, cioè, non producono effetti nel tempo ma solo quando vengono eseguiti; è tale, ad esempio, il contratto di compravendita (v. 1470 c.c.).
(3) Ad esempio, il contratto di somministrazione (v. 1559 c.c.). Si ritiene che, in base anche all'art. 1375 del c.c., si possa sempre recedere anche dai contratti a tempo indeterminato, atteso che vale anche per essi il principio per cui nessun vincolo obbligatorio può essere perpetuo.
(4) Si ritiene che la norma esprima un principio di ordine generale, per cui il recesso in tali tipologie di contratto è sempre ammesso, anche se manca una previsione specifica per il singolo tipo. Inoltre, la non retroattività degli effetti andrebbe attribuita solo al recesso e non alla revoca, e ciò costituirebbe il tratto distintivo tra le due figure.
(5) Il recedente può versare il corrispettivo in via anticipata, nel qual caso esso si configura come caparra penitenziale (1386 c.c.) ovvero al momento del recesso ed in tal caso esso costituisce multa penitenziale (1373 3, c.c.).
(6) La salvezza del patto contrario è contemplata in un comma a sè stante, ciò che induce a ritenere che essa possa riferirsi all'intera norma.

Ratio Legis

Il primo comma si spiega considerando che se il contratto ha già ricevuto una seppur minima esecuzione non appare conforme a buona fede sacrificare l'interesse della parte non recedente.
Il secondo comma risponde all'idea per cui nei c.d. contratti di durata deve essere consentito ad una parte di interrompere il vincolo, in quanto nessun vincolo obbligatorio può durare all'infinito. In tal caso, però, le prestazioni eseguite sono salve in quanto ciascuna di esse è autonoma.
Il terzo comma si spiega considerando che il corrispettivo è posto nell'interesse del non recedente in quanto egli subisce una lesione dal recesso della controparte.

Brocardi

Ad nutum
Ius poenitendi

Spiegazione dell'art. 1373 Codice Civile

I tre tipi di recesso unilaterale

La forma tipica di recesso unilaterale si manifesta allorché il diritto di recesso deriva da una clausola inserita nel contratto. Non appare esplicitamente dalla lettera dell'art. 1373, ma risulta dalla ricordata Relazione, che tale articolo concerne solo questa forma di recesso, che possiamo chiamare convenzionale.

Una seconda forma di recesso deriva direttamente dalla legge, allorché essa, date talune contingenze, consente, per motivi di equità, ad una parte, di sciogliersi unilateralmente dal contratto. Tale è il caso degli articoli 1660, 1671 e 1674 del codice civile concernenti l'appalto; tale è il caso degli articoli 1893, 1897, 1898, 1899, 1918, concernenti l'assicurazione; tale è anche il caso degli articoli 2227 e 2237 concernenti il contratto di locazione d'opera.

Nei due casi dinanzi menzionati, il recesso ha effetto interruttivo, vale a dire la parte che non potrebbe sciogliersi, in base ai principi sull'obbligatorietà del vincolo contrattuale, può tuttavia unilateralmente recedere, ed interrompere l'ulteriore corso del contratto, perché autorizzata, nel primo caso dal contratto stesso, nel secondo caso della legge. Vi è invece un terzo caso in cui il contratto non s'interrompe, ma, essendo a tempo indeterminato, consente il naturale esaurimento del vincolo obbligatoria, quante volte una parte ne manifesti la volontà, posto che nessuno può rimanere obbligato indefinitamente per un vincolo che non conosce termine finale. In questo caso, il recesso unilaterale ha natura molto diversa da quella del recesso considerato precedentemente; esso non costituisce se non una modalità che deve seguire la parte per porre fine ad un contratto, esercitando una facoltà che la natura stessa dell'accordo le consente; possiamo dire che questo recesso ha carattere non interruttivo, bensì estintivo. Questo recesso estintivo non si può dire, propriamente, né convenzionale, nel senso che formi materia di un patto di per sé stante, né legale, nel senso che la parte abbia bisogno dell'aiuto di una particolare autorizzazione del legislatore per svincolarsi; tuttavia, in senso lato, può considerarsi come legale, in base al principio giuridico della unilaterale risolvibilità dei rapporti obbligatori ai quali non è prefisso termine. Di più, il legislatore stesso in alcuni istituti ha disciplinato l'esercizio di questo diritto; così all'art. 1569 concernente la somministrazione; all'articolo 1616 concernente l'affitto; all'art. 1750 sul contratto di agenzia; all'art. 1833 dal conto corrente; agli articoli 2218 e 2219 sul contratto di lavoro; all'art. 2285 sul contratto di società.


Regole dettate dal codice per il recesso convenzionale interruttivo

L'art. 1373, regolando il solo recesso convenzionale interruttivo, detta alcune norme di carattere dispositivo, per regolare le modalità di esercizio:

a) se il contratto è ad esecuzione momentanea (come può essere una compravendita) il recesso si intende ammesso soltanto finché il contratto non abbia avuto un principio di esecuzione. Se l'inizio di esecuzione da parte di chi vuol recedere può valere come rinunzia al recesso, invece l'inizio di esecuzione proveniente dall'altra parte chiude la via al recesso dell'avversario, soltanto se la legge così consente cosicché il primo impedimento al recesso potrebbe anche ammettersi nel silenzio del codice, ma il secondo è ammissibile soltanto perché l'art. 1373 lo prevede. Il legislatore ha manifestamente pensato che, nel silenzio, il recesso deve essere limitato al tempo di pendenza di qualsivoglia obbligazione contrattuale, tanto a carico dell'una come dell'altra parte;

b) se il contratto è ad esecuzione continuata o periodica, il legislatore ha ritenuto che, nel silenzio delle parti, il recesso convenzionale debba presumersi esteso anche a tempo posteriore all'inizio dell'esecuzione, tuttavia senza spiegare effetti sulle prestazioni già eseguite od in corso di esecuzione, ciò che corrisponde al più verosimile interesse delle parti;

c) se il recesso è pattuito contro corrispettivo, esso si intende convenuto contro corrispettivo non soltanto promesso, ma anche versato; cosicché prima del versamento, la riserva consensuale del recesso rimane inoperativa.

L'ultimo comma dell'art. 1373 permette tuttavia alle parti di derogare alle disposizioni sopra espresse. Così, per es., si può pattuire che il recesso contro corrispettivo sia esercitabile, anche prima che la prestazione sia eseguita.

Si ricordi infine che i1 recesso deve formare oggetto di specifica approvazione per iscritto ai sensi dell'art. 1341, secondo comma.


Applicazione per analogia di tali regole alle altre forme di recesso unilaterale

Sorge ora il problema di stabilire quali effetti spieghi l’articolo 1373 sul recesso legale interruttivo e sul recesso estintivo inerente ai contratti a tempo indeterminato.

Una stretta affinità fra questi molteplici istituti è innegabile, emerge anche dalla ricordata Relazione ed è parimenti avvertita dalla dottrina.

Ora si noti che i recessi legali interruttivi non sono soltanto quelli menzionati dal codice civile, ma altresì quelli che possono essere disciplinati da leggi speciali. A noi sembra che, in massima, le regole poste all'art. 1373 si possano applicare per analogia anche ai recessi legali interruttivi, quando speciali disposizioni che li riguardano non abbiano altrimenti stabilito in modo espresso od implicito. Tuttavia, nell'applicare per analogia l'ultimo comma dell'art. 1373, che fa salvo in ogni caso il patto contrario, dovrà usarsi molta cautela, giacché è piuttosto da presumersi che se un recesso è disciplinato dalla legge anche per le modalità, queste siano cogenti.

Nel caso invece di recesso estintivo inerente al contratto a tempo indeterminato, l'art. 1373 non può, secondo noi, applicarsi in nessuna maniera. Il 1° ed il 3° comma non possono venire in considerazione, perché concernono appunto quella facoltà di interrompere il rapporto che qui non ha bisogno di essere accordata, data la natura del contratto. Ma neanche il 2° comma non trova applicazione, perché il recesso dal contratto, a tempo indeterminato deve, di regola, rispettare il periodo in corso, limitandosi ad impedire che prenda vita un periodo ulteriore. L'efficacia del recesso è pertanto determinata dalla fine del periodo.

Infine non si può nemmeno dire, coll'ultimo comma dell'art. 1373, che sia salvo in ogni caso il patto contrario. In alcuni casi potrà essere salvo, ma in altri no. Per esempio, è noto che il preavviso di licenziamento o la sostituzione di esso con la dovuta indennità, non si può contrattualmente escludere nei contratti di lavoro; non vi è alcun dubbio che le disposizioni dell'art. 2118 del codice civile, su questo argomento, hanno carattere cogente.


Natura giuridica dell’atto di recesso

Dal diritto di recesso devesi distinguere l'atto di recesso. Quest'ultimo è una manifestazione di volontà, posteriore alla nascita del contratto, ed ha per scopo di esercitare il diritto di recesso che la legge od il contratto prevedono, ovvero che è insita nel rapporto a tempo indeterminato. La dottrina giustamente qualifica questo atto come negozio unilaterale, recettizio, estintivo, con effetto ex nunc e senza pregiudizio dei terzi.

Trattasi infatti di un negozio giuridico, essendo esso un atto di volontà di una parte che deve pervenire all'altra parte. E’ indubbiamente un negozio unilaterale, perché esige la volontà di una parte sola e spiega i suoi effetti anche contro la riluttanza dell'altra. È un negozio recettizio, perché la volontà di una parte non deve incontrarsi con quella dell'altra, ma deve soltanto giungere a conoscenza dell'altra; il momento in cui il negozio spiega effetti è quello in cui la volontà arriva a destinazione.

Il negozio è estintivo, perché non intende mettere nel nulla il rapporto, ma farne cessare gli effetti; è solamente estintivo quando pone fine a un contratto a tempo indeterminato, e estintivo con effetto interruttivo, come si è accennato, e quindi più propriamente interruttivo, quando tronca rapporti a termine. In dottrina si sono poi distinti i contratti bilaterali, nei quali il rapporto prende fine, dai contratti plurilaterali, come quelli di società, nei quali il rapporto prende fine soltanto per il recedente, continuando inalterato per le altre parti. Nel primo caso si è detto che si estingue il contratto, nel secondo che si estingue il rapporto obbligatorio concernente la parte che recede.

Per lo stesso motivo per il quale il recesso è estintivo, esso spiega effetti ex nunc e non ex tunc; tuttavia nulla vieta alle parti di pattuire che il recesso esercitato, per esempio per le prestazioni periodiche, abbia anche effetto retroattivo in maggiore o minore misura. In tal caso l'atto di recesso, nel silenzio, si presume efficace così come le parti lo previdero e lo intesero.

Relazione al Libro delle Obbligazioni

(Relazione del Guardasigilli al Progetto Ministeriale - Libro delle Obbligazioni 1941)

220 Immediatamente dopo l'affermazione dell'art. 241 che vuole dichiarare la risolubilità del contratto solo per volontà delle parti o per cause ammesse dalla legge, ho ritenuto di disciplinare il diritto di recesso unilaterale che sia stato attribuito ad uno dei contraenti (art. 242).
Il principio generale è che questo diritto è subordinato ai presupposti e alle condizioni di tempo previsti dal contratto; ma se il contratto non ha all'uopo alcuna clausola, e normale che si può recedere solo quando ancora il contratto non ha avuto inizio di esecuzione. Questo principio di esecuzione deve considerarsi con riguardo alla eventuale autonomia delle obbligazioni contrattuali; e così, quando è prevista un'esecuzione continuata o periodica, esistono tante obbligazioni quante sono le prestazioni o i periodi di prestazione, è ovvio che l'inizio di esecuzione di una delle prestazioni o l'inizio di un periodo di esecuzione impedisce l'esercizio del diritto di recesso, per le prestazioni o per il periodo di prestazioni future.
Possono le parti aver convenuto un corrispettivo per il recesso: allora questo non si potrà esercitare senza la correlativa esecuzione della controprestazione speciale.

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

628 Il recesso è una causa di scioglimento del contratto, legittimato da una particolare disposizione di legge o dalla volontà delle parti: il codice regola solo l'esercizio del recesso convenzionale, con norme sulle quali prevale la contraria volontà delle parti (art. 1373 del c.c., quarto comma). In base a queste norme, il recesso è precluso quando del contratto si è iniziata l'esecuzione (art. 1373, primo comma); se si tratta di contratto ad esecuzione continuata o periodica, il recesso può essere esercitato anche durante l'esecuzione del contratto, ma non ha effetto per le prestazioni già eseguite o in corso d'esecuzione (art. 1373, secondo comma). La disciplina posta nell'art. 1373 è integrata dall'art. 1385 del c.c., che regola la caparra penitenziale (n. 633). Il recesso contro corrispettivo ha effetto soltanto dopo la prestazione di questo (art. 1373, terzo comma). Non si è voluta dare una disciplina più dettagliata dell'istituto, perché esso appare con particolarità proprie in ogni contratto nel quale può ammettersi; basti pensare alle differenze che involge quando concerne la somministrazione (art. 1569 del c.c.), l'affitto (art. 1616 del c.c.), l'appalto (art. 1660 del c.c., secondo e terzo comma, art. 1671 del c.c., art. 1674 del c.c.), il contratto di agenzia (art. 1750 del c.c.), il conto corrente (art. 1833 del c.c.), l'assicurazione (art. 1893 del c.c., primo comma, art. 1897 del c.c., primo comma, art. 1898 del c.c., secondo comma, art. 1899 del c.c., primo comma, art. 1918 del c.c. terzo e quarto comma), la cessione dei beni al creditori (art. 1985 del c.c.), il lavoro (art. 2118 del c.c., primo comma, e art. 2119 del c.c., primo comma), il contratto d'opera (art. 2227 del c.c. e art. 2237 del c.c.) rispetto ai casi di recesso nel contratto di società (art. 2285 del c.c., primo e secondo comma).

Massime relative all'art. 1373 Codice Civile

Cass. civ. n. 21198/2022

Anche nell'ambito del contratto preliminare si applica la regola, stabilita dall'art. 1373, comma 1 c.c., secondo cui il recesso non può essere esercitato dalla parte quando, dopo la conclusione del contratto, questo abbia avuto un principio di esecuzione, quando cioè l'effetto reale del contratto si è in tutto o in parte realizzato o la prestazione obbligatoria, come la consegna del bene prima della stipulazione del contratto definitivo o il versamento di un acconto sul prezzo, è stata in tutto o in parte adempiuta.

Cass. civ. n. 3542/2021

Il principio di libertà della forma si applica anche all'accordo o al contratto collettivo di lavoro di diritto comune, che pertanto - salvo diversa pattuizione scritta precedentemente raggiunta ai sensi dell'art. 1352 c.c. dalle medesime parti stipulanti - ben possono realizzarsi anche verbalmente o per fatti concludenti; la medesima libertà va quindi ritenuta anche rispetto ai negozi risolutori di detti accordi, come il recesso unilaterale ex art. 1373, comma 2, c.c., la cui prova può essere offerta anche per testimoni.

Cass. civ. n. 1454/2019

Sebbene il recesso sia atto irrevocabile dal momento in cui il destinatario ne abbia avuto notizia ai sensi dell'art. 1334 c.c., ciò non esclude che le parti, nel rispetto dell'autonomia contrattuale, possano far venire meno gli effetti della fattispecie estintiva, ponendo in essere una concorde manifestazione di volontà che, nel caso di contratto in forma scritta "ad substantiam", deve risultare da atto scritto.

L'atto con il quale il contraente esercita il recesso convenzionale (art. 1373 c.c.) o legale (art. 1385 c.c.), costituente esplicazione di un diritto di sciogliere unilateralmente il contratto in deroga al principio espresso dall'art. 1372, comma 1, c.c., è immediatamente vincolante sia per l'emittente che per la controparte, anche quando l'efficacia ne sia differita per il compimento di atti conseguenti; il recesso è, di conseguenza, irrevocabile dal momento in cui il destinatario ne abbia avuto notizia, ai sensi dell'art. 1334 c.c., derivandone l'estinzione immediata del preesistente rapporto contrattuale. L'irrevocabilità unilaterale del recesso, dal momento in cui l'emittente lo abbia comunicato alla controparte, non può però comportare l'esclusione della facoltà per le parti, nell'esercizio della loro autonomia, di far venire meno gli effetti della fattispecie estintiva, ponendo in essere una manifestazione concorde di volontà che, nel caso di contratto in forma scritta ad substantiam, deve risultare da atto scritto.

Cass. civ. n. 5368/2018

La domanda dell'appaltatore volta a conseguire dal committente il corrispettivo previsto per l'esercizio della facoltà di recesso pattuita in suo favore ai sensi dell'art. 1373 c.c. presuppone l'esistenza di un patto espresso che attribuisca al committente la facoltà di recedere dal contratto prima che questo abbia avuto un principio di esecuzione, nonché l'avvenuto esercizio del recesso entro tale limite temporale, ed ha per oggetto la prestazione, in corrispettivo dello "ius poenitendi", di una somma ("multa poenitentialis") integrante un debito di valuta e non di valore; diversa, invece è, la domanda dello stesso appaltatore di essere tenuto indenne dal committente avvalsosi del diritto di recesso riconosciutogli dall'art. 1671 c.c., la quale presuppone l'esercizio, in un qualsiasi momento posteriore alla conclusione del contratto e quindi anche ad iniziata esecuzione del medesimo, di una facoltà di recesso che al committente è attribuita direttamente dalla legge ed ha per oggetto un obbligo indennitario.

Cass. civ. n. 2600/2018

Il principio di libertà della forma si applica anche all'accordo o al contratto collettivo di lavoro di diritto comune, che pertanto - a meno di eventuale diversa pattuizione scritta precedentemente raggiunta ai sensi dell'art. 1352 c.c. dalle medesime parti stipulanti - ben possono realizzarsi anche verbalmente o per fatti concludenti; la libertà della forma dell'accordo o del contratto collettivo di lavoro concerne anche i negozi ad esso connessi, come il recesso unilaterale ex art. 1373, comma 2, c.c.

La parte che eccepisce l'avvenuto recesso unilaterale da un accordo o da un contratto collettivo di diritto comune è onerata, ex art. 2697, comma 2, c.c., della prova relativa e, ove alla manifestazione orale segua, su richiesta dell'altro o degli altri contraenti, una dichiarazione scritta del medesimo tenore, è altresì onerata della prova del carattere meramente confermativo - anziché innovativo - di tale successiva dichiarazione.

Cass. civ. n. 2130/2017

In tema di appalto, nel caso di recesso del committente - sia per l'ipotesi di recesso legale di cui all'art. 1671 c.c., esercitabile in qualunque momento dopo la conclusione del contratto e che può essere giustificato anche dalla sfiducia verso l'appaltatore per fatti d'inadempimento, sia per l'ipotesi di recesso convenzionale, ex art. 1373 c.c. - il contratto si scioglie senza necessità di indagini sull'importanza e gravità dell'inadempimento, le quali sono rilevanti soltanto quando il committente, pretenda dall'appaltatore il risarcimento del danno per inadempimento, nonostante questi abbia esercitato il suo diritto potestativo di recedere dal contratto.

Cass. civ. n. 26365/2014

Nella ipotesi di clausola contrattuale di "cessazione immediata del contratto", il giudice di merito, che la interpreti come recesso senza preavviso e non quale clausola condizionale risolutiva, deve rendere evidenti le ragioni dell'approdo ermeneutico quando, per gli eventi nel cui contesto la clausola ha operato, assume rilevanza la diversa struttura ed il "modus operandi" dei due istituti, il primo ancorato ad una facoltà delle parti di sciogliere unilateralmente il contratto, il secondo relazionato ad un avvenimento futuro e incerto.

Cass. civ. n. 7762/2013

Il recesso unilaterale dal contratto, previsto dall'art. 1385, secondo comma, cod. civ., è di natura legale e non convenzionale, trovando la sua giustificazione nell'inadempienza dell'altra parte, laddove l'art. 1373, primo comma, cod. civ., secondo il quale il recesso non può essere esercitato quando il contratto abbia avuto un principio di esecuzione, riguarda esclusivamente il recesso convenzionale e non anche quello stabilito dall'art. 1385 in favore del contraente non inadempiente

Cass. civ. n. 227/2013

In tema di recesso dal contratto, l'obbligo del preavviso ha la funzione di tutelare il contraente receduto, al quale viene concesso, attraverso la dilazione degli effetti della volontà espressa dal recedente, il tempo sufficiente a regolare i suoi interessi; la sua violazione, peraltro, non comporta una danno in re ipsa, da risarcire a prescindere da qualunque effettivo pregiudizio.

Cass. civ. n. 15629/2005

In base ad una lettura conforme a buona fede deve ritenersi che, in un contratto di durata, in presenza di una pattuizione che riconosca ad una parte, in difetto di una unilaterale manifestazione di una volontà di disdetta dell'altra da compiersi entro un certo termine prima della scadenza del periodo di durata del contratto, il diritto potestativo di determinare la rinnovazione con una sua unilaterale dichiarazione, quest'ultima deve avvenire necessariamente entro il termine di scadenza del contratto, perché altrimenti l'effetto tipico della rinnovazione — cioè la nascita in prosecuzione di un nuovo contratto con lo stesso contenuto di quello originario, ma di questo sostitutivo, di modo che il rapporto fra le parti possa, pur cambiando la fonte, continuare senza soluzione con le stesse regole — non potrebbe realizzarsi (principio affermato dalla Suprema Corte relativamente ad un contratto di sponsorizzazione di un atleta).

Cass. civ. n. 262/2005

I contratti conclusi « iure privatorum» dalla P.A. sono assoggettati alla ordinaria disciplina dettata in materia contrattuale — sebbene, per la loro validità, sia sempre richiesta la forma scritta a pena di nullità — con la conseguenza che il recesso, quale atto unilaterale recettizio, può essere legittimamente espresso dall'Ente pubblico in qualsiasi forma, purché esso pervenga nella sfera di conoscenza del destinatario, ed è pertanto sottratto tanto all'osservanza dello schema procedimentale degli atti pubblici della P.A., quanto al sindacato di conformità dell'organo di controllo che attiene alla legittimità degli atti e non investe la valutazione dell'interesse pubblico perseguito — (fattispecie in tema di contratto di locazione di immobili di proprietà di un privato in relazione al quale il commissario straordinario preposto all'amministrazione del comune locatario aveva comunicato al conduttore la volontà di recedere dal contratto a causa della situazione di dissesto finanziario del comune stesso senza che la dichiarazione di recesso fosse stata preceduta da alcuna deliberazione dell'ente. Nell'affermare il principio di diritto espresso in massima, la Corte Cass. ha ulteriormente precisato, da un canto, che il commissario straordinario, assorbendo in sè entrambe le funzioni pubbliche deliberative ed esecutive — era senz'altro legittimato ad esprimere la volontà di recesso dell'ente, dall'altro, che il dissesto finanziario dell'ente stesso integrava senz'altro una delle ipotesi di « gravi motivi» di cui all'art.27 u.c. della legge 392/1978, giustificativi del recesso dell'ente dal contratto di locazione).

Cass. civ. n. 14970/2004

Il recesso unilaterale rappresenta una causa estintiva ordinaria di qualsiasi rapporto di durata a tempo indeterminato, rispondendo all'esigenza di evitare la perpetuità del vincolo obbligatorio, la quale è in sintonia con il principio di buona fede nell'esecuzione del contratto. Tuttavia, non trattandosi di principio inderogabile che coinvolga interessi pubblici o generali, le parti possono derogare alla recedibilità ad nutum purché la rinuncia — sia pure implicita — investa direttamente la stessa recedibilità. Pertanto qualora, come nella specie, il contratto rechi la disciplina pattizia soltanto di alcune ipotesi di inadempimento, tale previsione, in difetto di specifiche determinazioni ulteriori, non può incidere sulla recedibilità ad nutum che rappresenta la causa estintiva ordinaria del rapporto di prestazione d'opera professionale (dedotto nella specie).

Cass. civ. n. 17340/2003

Mentre integra un debito di valuta, che ai sensi dell'art. 1373 c.c. trova fonte in un patto espresso, la prestazione a favore dell'appaltatore di una somma a titolo di corrispettivo per l'esercizio da parte del committente della facoltà di recesso prima che il contratto abbia avuto un principio di esecuzione, dà luogo, invece, a un'obbligazione di valore di natura indennitaria l'esercizio, posteriore alla conclusione del contratto di appalto — e quindi anche ad esecuzione già iniziata — della facoltà di recesso unilaterale per legge attribuita dall'art. 1671 c.c. al committente, che è tenuto a tenere indenne l'appaltatore del danno emergente e del lucro cessante, da liquidare — secondo i principi regolatori del risarcimento del danno — anche in via equitativa, tenendo conto della svalutazione monetaria sopravvenuta fino alla data della liquidazione.

Cass. civ. n. 8360/1996

Qualora un contratto collettivo — che costituisce uno strumento di composizione di conflitti sorti in un determinato momento — venga stipulato senza l'indicazione di una scadenza, detta mancanza non implica che gli effetti del contratto perdurino nel tempo senza limiti, atteso che — in sintonia con il principio di buona fede nell'esecuzione del contratto ex art. 1375 c.c. ed in coerenza con la naturale temporaneità dell'obbligazione — deve essere riconosciuta alle parti la possibilità di farne cessare l'efficacia, previa disdetta, anche in mancanza di una previsione legale, non essendo a ciò di ostacolo il disposto dell'art. 1373 c.c. che regola il recesso unilaterale nei contratti di durata quando tale facoltà è stata prevista dalle parti, senza nulla disporre per il caso di mancata previsione pattizia al riguardo.

Cass. civ. n. 10300/1994

L'art. 1373 c.c. — il quale, nel disciplinare l'istituto del recesso unilaterale (diverso da quello per inadempimento previsto dall'art. 1385 c.c.), stabilisce che la parte cui è attribuita pattiziamente detta facoltà può esercitarla finché il contratto non abbia avuto un principio di esecuzione — non prescinde, in virtù sia del suo testo letterale, sia della sua ratio (ravvisabile nell'incompatibilità concettuale tra proposito di sciogliere unilateralmente il rapporto e consenso precedentemente manifestato a darvi attuazione, sia pure parziale), da una connotazione volontaristica del «principio di esecuzione», nel senso che questo, per poter precludere il recesso, o deve essere stato posto in essere dallo stesso recedente o, se posto in essere da altro contraente, non deve aver trovato opposizione e rifiuto da parte del primo. Ne consegue che la domanda di esecuzione specifica dell'obbligo di concludere un contratto, di cui all'art. 2932 c.c., non può — sempre che l'altra parte non vi abbia aderito o non abbia accettato l'eventuale contemporanea offerta della controprestazione — in alcun modo considerarsi di per sé principio di esecuzione del contratto preliminare ai sensi ed agli effetti dell'art. 1373 c.c. e che il convenuto, a cui favore sia stato attribuito il diritto di recesso, deve ritenersi legittimato a farlo valere in via di azione o di eccezione riconvenzionale ed a paralizzare cosa la pretesa avversaria di sentenza costitutiva ai sensi dell'art. 2932 c.c.

Cass. civ. n. 4473/1993

Nel contratto di associazione in partecipazione agli utili dell'impresa o di uno o più affari, il diritto di recesso deve riconoscersi a ciascuno dei contraenti ove manchi la previsione del termine di durata del rapporto, con la conseguenza che l'istituto del recesso unilaterale a norma del secondo comma dell'art. 1373 c.c. è applicabile sia al contratto sopra richiamato che ai rapporti di cointeressenza agli utili senza partecipazione alle perdite, che costituisce una figura particolare del contratto di cui all'art. 2549 c.c.

Cass. civ. n. 5846/1991

A differenza della mediazione tipica, nella quale a norma dell'art. 1756 c.c., per l'affare non concluso, al mediatore spetta soltanto il diritto al rimborso delle spese, essendo il committente dominus della conclusione (o meno) del contratto ed anche della revoca dello stesso incarico senz'altro onere, nel contratto per cui sia pattuito un termine di efficacia con facoltà per l'incaricato, fino alla scadenza dello stesso, di promuovere affari con diritto alla provvigione anche se il committente rifiuti la conclusione del contratto, la revoca dell'incarico, ponendosi in contrasto con detta attribuzione, rientrante nel potere di autonomia contrattuale delle parti in rispondenza all'esigenza di favorire al massimo grado la promozione degli affari, comporta il diritto dell'incaricato ad un corrispettivo, anche in applicazione del principio generale di cui all'art. 1373, terzo comma, c.c.

Cass. civ. n. 4750/1991

La domanda dell'appaltatore volta a conseguire dal committente il corrispettivo previsto per l'esercizio della facoltà di recesso pattuita in suo favore ai sensi dell'art. 1373 c.c. e la domanda dello stesso appaltatore di essere tenuto indenne dal committente avvalsosi del diritto di recesso riconosciutogli dall'art. 1671 c.c. sono sostanzialmente diverse: la prima presuppone l'esistenza di un patto espresso che attribuisca al committente la facoltà di recedere dal contratto prima che questo abbia avuto un principio di esecuzione, nonché l'avvenuto esercizio del recesso entro tale limite temporale, ed ha per oggetto la prestazione, in corrispettivo dello ius poenitendi, di una somma (multa poenitentialis) integrante un debito di valuta e non di valore; la seconda, invece, presuppone l'esercizio, in un qualsiasi momento posteriore alla conclusione del contratto e quindi anche ad iniziata esecuzione del medesimo, di una facoltà di recesso che al committente è attribuita direttamente dalla legge ed ha per oggetto un obbligo indennitario (delle perdite subite dall'appaltatore — per le spese sostenute ed i lavori eseguiti — e del mancato guadagno) cui sono applicabili gli stessi principi in tema di risarcimento del danno da inadempimento e, in particolare, sia quello della possibilità di una liquidazione equitativa sia quello della necessità di tener conto, anche d'ufficio, della svalutazione monetaria sopravvenuta fino alla data della liquidazione.

Cass. civ. n. 1513/1990

La disposizione dell'art. 1373, primo comma, c.c., per la quale la facoltà di recedere dal contratto, attribuita ad una delle parti, può essere esercitata finché il contratto non abbia avuto un principio di esecuzione, non opera relativamente ai contratti ad esecuzione continuata, per i quali il secondo comma della medesima norma espressamente prevede che detta facoltà può essere esercitata anche successivamente; ed è, comunque, suscettibile di deroga per contraria pattuizione, da riconoscersi sussistente allorché la facoltà di recesso sia attribuita in correlazione ed in funzione di un patto di prova, che necessariamente presuppone l'esecuzione delle prestazioni dedotte in contratto.

Cass. civ. n. 987/1990

Il recesso unilaterale, lungi dal costituire una facoltà normale delle parti contraenti, presuppone, invece, a norma dell'art. 1373 c.c., che essa sia specificamente attribuita per legge o per clausola contrattuale e, in quest'ultimo caso, l'onere di provarne l'esistenza ricade sulla parte che intenda farla valere in giudizio. (Nella specie, la C.S. in base all'enunciato principio ha confermato la sentenza con la quale i giudici del merito avevano negato, interpretando l'art. 16 dell'accordo collettivo nazionale 24 aprile 1958, sulla previdenza integrativa per il personale dipendente dall'Assitalia, che a quest'ultima fosse consentito di denunziare unilateralmente gli impegni assunti con l'accordo medesimo).

Cass. civ. n. 1101/1988

La somma di denaro che, all'atto della conclusione di un contratto di compravendita, una parte consegna all'altra a titolo di caparra confirmatoria e principio di pagamento deve intendersi impiegata per la sua intera entità per assolvere la duplice funzione, alternativa, della caparra confirmatoria di preventiva liquidazione del danno per il caso di inadempimento, ovvero di anticipato parziale pagamento per l'ipotesi di adempimento. Pertanto il versamento di essa, costituendo principio di esecuzione del contratto, impedisce l'esercizio del diritto di recesso ai sensi dell'art. 1373 del codice civile.

Cass. civ. n. 8776/1987

La clausola con la quale si attribuisce ad uno o ad entrambi i contraenti la facoltà di recesso ex art. 1373 c.c., siccome derogativa al principio generale per il quale il contratto ha forza di legge tra le parti, pur non richiedendo alcuna formula sacramentale, deve essere sempre redatta in termini inequivoci, tali da non lasciare alcun dubbio circa la volontà dei contraenti di inserirla nel negozio da loro sottoscritto. (Nella specie, in applicazione di tale principio, la Suprema Corte ha ritenuto corretta la decisione del giudice del merito secondo cui le parti non avevano in concreto inteso stabilire un recesso ex art. 1373 c.c., ma una penale per il caso di inadempimento).

Cass. civ. n. 6582/1984

Il principio che il diritto della parte di recedere dal contratto, anche se collegato alla prestazione di una caparra penitenziale, non si sottrae alla regola generale, stabilita dall'art. 1373, primo comma c.c., secondo cui il recesso non può essere esercitato quando dopo la conclusione del contratto questo abbia avuto un principio di esecuzione, quando cioè l'effetto reale del contratto si è in tutto o in parte realizzato o la prestazione obbligatoria è stata in tutto o in parte adempiuta, trova applicazione anche in ordine al contratto preliminare, dal quale conseguono effetti anticipatori delle prestazioni corrispettive delle parti, come il versamento di un acconto sul prezzo e la consegna della cosa anteriormente alla stipulazione del contratto definitivo.

Cass. civ. n. 2625/1984

Costituisce «principio di esecuzione» del contratto preliminare di vendita ostativo, ai sensi dell'art. 1373, primo comma, c.c., all'esercizio del recesso, il versamento di parte del prezzo, anche se con cambiali emesse al momento della stipula, ma scadute e pagate in data successiva al preliminare ed anteriore all'esercizio del recesso, in quanto siffatto regolamento cambiario in luogo dell'immediato pagamento di quella parte del prezzo, dovendosi ritenere pro solvendo, determina l'estinzione dell'obbligazione pecuniaria solo al momento dell'effettivo pagamento delle cambiali.

Cass. civ. n. 6160/1983

Il diritto di recesso ex art. 1373 c.c. — insuscettibile di interpretazione estensiva per la sua natura di eccezione al principio generale della irrevocabilità degli impegni negoziali — non può essere svincolato da un termine preciso o, quanto meno, sicuramente determinabile, in assenza del quale l'efficacia del contratto resterebbe indefinitamente subordinata all'arbitrio della parte titolare di tale diritto, con conseguente irrealizzabilità delle finalità perseguite con il contratto stesso.

Cass. civ. n. 2615/1982

Il «principio di esecuzione» del contratto — che l'art. 1373, primo comma, c.c. considera ostativo all'esercizio della facoltà di recesso attribuita ad uno dei contraenti — deve ravvisarsi nella consegna della cosa promessa in vendita in tempo posteriore alla stipulazione del preliminare, ancorché non prevista in contratto, e nel rilascio contestuale a detta stipulazione, in funzione del pattuito anticipato adempimento della prestazione del prezzo, di cambiali con scadenza fissata in momenti successivi alla stipulazione stessa, trattandosi di comportamenti di attuazione del contratto preliminare.

Cass. civ. n. 6354/1981

Nei contratti di durata, in cui sono previste reciproche prestazioni da attuarsi in un lungo lasso di tempo, qualora la cessazione del rapporto sia pattuita con riferimento alla consumazione di una certa quantità di beni o di merci da parte di uno dei contraenti, non può parlarsi di durata indeterminata, risultando il termine finale del rapporto prefissato in modo indiretto col rinvio al verificarsi della prevista situazione di esaurimento del bene o della merce in questione. Con la conseguenza che l'esistenza del termine finale (certus an incertus quando) preclude la possibilità del recesso unilaterale, che è applicabile ai contratti senza alcuna determinazione di tempo, essendo i suoi effetti in contrasto con un'esplicita, diversa volontà delle parti.

Cass. civ. n. 6482/1980

Se è vero che, fin quando non si sia formato il consenso per il contratto definitivo o non sia passata in giudicato la sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c., il contratto preliminare non si può considerare eseguito, peraltro, quando la parte interessata chiede giudizialmente la pronuncia ex art. 2932 c.c. offrendo anche il dovuto prezzo e gli accessori, ha inizio l'iter che conduce all'esecuzione del preliminare, e, perciò, sussiste quel principio di esecuzione che impedisce alla controparte l'esercizio della facoltà di recesso eventualmente a suo favore.

Cass. civ. n. 4023/1978

Il principio, proprio del recesso unilaterale previsto nell'art. 1373 c.c. - in base al quale, eccezion fatta per i contratti a esecuzione continuata e periodica, la facoltà di recedere non può essere esercitata quando il contratto abbia avuto un principio di esecuzione - non è applicabile al cosiddetto «recesso» che trova il suo presupposto e la sua giustificazione nell'inadempimento dell'altra parte, il quale non è eliminato «in radice» da una parziale esecuzione del contratto. (Nella specie, il giudice del merito aveva ritenuto che il versamento della caparra implicava la natura preliminare del contatto di vendita).

Cass. civ. n. 267/1976

A norma dell'art. 1373 c.c., la facoltà di una delle parti di recedere dal contratto non può essere esercitata se non alle condizioni e nei modi convenzionalmente stabiliti. Pertanto, quando tali condizioni comprendono una prestazione a carico del recedente, sia che tale prestazione abbia il contenuto di un indennizzo o di un prezzo dello jus poenitendi, sia che, invece, si risolva nell'adempimento di un'obbligazione restitutoria o, comunque, avente oggetto diverso da quello indennitario, il recesso non ha effetto se la prestazione non sia stata adempiuta. L'atto con il quale si esercita il diritto potestativo di recesso di cui all'art. 1373 c.c. integra un negozio giuridico unilaterale recettizio che deve sottostare alle medesime garanzie di forma prescritta per la costituzione del rapporto contrattuale alla cui risoluzione il recesso stesso è preordinato. Pertanto, la manifestazione di volontà rivolta allo scioglimento di un contratto preliminare di vendita immobiliare, redatto per iscritto a norma dell'art. 1351 c.c., deve necessariamente assumere la forma scritta e non può, quindi, essere desunta dal comportamento omissivo opposto da una delle parti all'invito rivoltole dall'altro contraente di prestarsi alla stipula dell'atto definitivo.

Cass. civ. n. 3071/1973

Non può configurarsi come recesso unilaterale a norma dell'art. 1373 c.c. una facoltà esercitabile, per espressa previsione delle parti, soltanto a contratto eseguito.

Cass. civ. n. 2417/1971

Il recesso unilaterale convenzionale dal contratto, previsto in via generale dall'art. 1373 c.c., è diverso dal recesso legale disciplinato dall'art. 1898 in tema di assicurazione, il quale contiene una disposizione inderogabile solo a vantaggio dell'assicurato, come stabilisce l'art. 1932 dello stesso codice. Al recesso convenzionale non può quindi essere applicata la disciplina del predetto recesso legale, in quanto le norme che limitano la libertà contrattuale, qualora siano dichiarate inderogabili, costituiscono eccezioni rispetto ai principi generali, e non si applicano oltre i casi previsti (art. 14 delle preleggi).

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Consulenze legali
relative all'articolo 1373 Codice Civile

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

A.P. chiede
lunedì 02/08/2021 - Lombardia
“Ho firmato con la mia palestra un abbonamento annuale alla riapertura palestre, luglio 2021.adesso con il green pass, non volendo vaccinarmi perche contrario al vaccino (facoltativo) ,mi trovo a dover fermarmi dall'andare in palestra chiedendo annullamento abbonamento che però la palestra sembra contraria a darmi<br />
vorrei sapere se la palestra è obbligata ad annullare abbonamento annuale poiché nn dipendente dalla mia volontà e poiché libero di scegliere.<br />
attendo vs.cordiale risposta<br />
grazie”
Consulenza legale i 18/08/2021
Occorre premettere che la sottoscrizione di un abbonamento comporta la stipula di un contratto.
Salvo i casi di vizi che lo rendono invalido ed inefficace con conseguente nullità del medesimo oppure vizi meno gravi (dolo, violenza od errore) che comportano il suo annullamento, lo scioglimento successivo del contratto può avvenire in modo unilaterale tramite il recesso (art. 1373 c.c.) o la risoluzione.

Il recesso unilaterale è una facoltà che può essere esercitata dal contraente laddove essa sia prevista dalla legge o dal contratto.
La risoluzione, invece, avviene con il consenso delle parti oppure può essere dichiarata dal giudice in presenza di determinati presupposti.

Ciò brevemente premesso, passando allo specifico della presente vicenda, si osserva quanto segue.

Il decreto legge n. 105 del 23 luglio 2021 all’art. 3 ha introdotto l’obbligo del cd. green pass (certificazione verde COVID 19) a far data dal 6 agosto 2021 per l’accesso ad una serie di servizi ed attività, tra cui rientrano piscine e palestre.
Tale certificazione è rilasciata non solo a chi è stato vaccinato (è sufficiente una dose) ma anche a chi è in possesso di un tampone negativo (eseguito entro 48 h) o è guarito dal Covid entro i sei mesi precedenti.
Tali disposizioni “non si applicano ai soggetti esclusi per età dalla campagna vaccinale e ai soggetti esenti sulla base di idonea certificazione medica rilasciata secondo i criteri definiti con circolare del Ministero della salute.”

Nel caso in esame, è pacifico ed ovvio che la palestra non possa far accedere chi non sia in possesso del green pass trattandosi di un obbligo di legge; come è altrettanto pacifico che non sia tenuta in alcun modo a soddisfare la richiesta di “annullamento” dell’abbonamento per il solo fatto che il cliente abbia deciso di non vaccinarsi (peraltro, come specificato sopra, in alternativa sarebbe possibile eseguire un tampone nelle 48 h precedenti l’accesso alla struttura).
La scelta volontaria di non vaccinarsi infatti non comporta né la facoltà di esercitare il recesso né tanto meno di chiedere una risoluzione contrattuale.

In conclusione, quindi, in risposta alla domanda contenuta nel quesito possiamo affermare che la palestra giustamente rifiuta di “annullare” l’abbonamento dovendo attenersi ad un obbligo di legge introdotto per la tutela della salute della collettività (in ottemperanza a quanto previsto dall’art. 32 della Costituzione) e non costituendo la scelta di non vaccinarsi un motivo legittimo per esercitare il recesso unilaterale e/o richiedere la risoluzione contrattuale. In sostanza, la "colpa" non è attribuibile alla palestra, la quale, probabilmente anche suo malgrado (perderà certamente tutti i potenziali nuovi clienti no vax), si deve attendere ad una normativa di legge che le impone questo "filtro". Il problema è semmai di legittimità costituzionale di quest'obbligo. Ma questo è tutto un altro discorso e certamente è questione assai complessa e non spendibile per la soluzione concreta e immediata del caso proposto alla nostra attenzione.

O. K. chiede
mercoledì 15/07/2020 - Veneto
“Buongiorno. Ho firmato contratto per corso di recitazione dei miei 3 figli nella sede della agenzia. Arrivando a casa e valutando bene ho capito che fatto un grande sbaglio. Subito inviato email chiedendo di recedere dal contratto stipulato in quanto il costo è alto e non ho possibilità di sostenerlo. Giorno successivo di mattina chiamato all'agenzia spiegando delle difficoltà, scusandomi, chiedendo recesso del contratto, visto anche che i ragazzi non hanno fatto ancora nessuna lezione. La richiesta di recesso la ho inviata anche per iscritto con email e con posta raccomandata con ricevuta di ritorno. Risposta della agenzia: per recedere dal contratto dovrò pagare 500 euro e entro giorni partendo da oggi altrimenti dovrò risarcire intorno a 5000 euro (500 euro di iscrizione e 300 euro circa per 18 mensilità).
Domanda : visto la tempistica della richiesta di recesso e il fatto che non hanno usufruito di nessuna lezione, ho diritto di recedere dal contratto senza dover pagare 500 euro di penale?
Grazie.
Vi porgo i miei più cordiali saluti.”
Consulenza legale i 20/07/2020
Esaminata la documentazione che ci ha trasmesso, in risposta al quesito possiamo affermare quanto segue.
In effetti, come ha specificato nella lettera raccomandata la scuola di recitazione, il diritto di ripensamento del consumatore entro i 14 giorni vale soltanto per i contratti sottoscritti fuori dei locali commerciali (art. 52 del codice del consumo).
Nella presente vicenda, come da Lei stessa puntualizzato anche nella lettera di recesso, il contratto è stato sottoscritto invece all’interno della sede dell’agenzia.
Non potendo quindi applicare la predetta normativa del codice del consumo, dobbiamo fare riferimento a quanto previsto dal codice civile e, più precisamente, agli articoli 1372 e 1373 c.c.
La prima norma prevede che “il contratto ha forza di legge tra le parti. Non può essere sciolto che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge”.
Tra le cause ammesse dalla legge rientra sicuramente la facoltà di recesso di cui all’art. 1373 c.c. il quale dispone che le parti possono stabilire nel contratto la facoltà di recesso e, in tal caso, essa è esercitabile fino a che il contratto non abbia avuto un principio di esecuzione.
Come ha osservato la Suprema Corte già nella risalente pronuncia n.2817/1976, “l'art. 1373 c.c. non stabilisce affatto che nei contratti ad esecuzione continua o periodica il recesso sia una facoltà spettante ex lege al contraente; invece, la norma, in base al suo 1° comma ed al richiamo alle forme di scioglimento previste dall'art. 1372 c.c., si riferisce alle ipotesi di recesso convenzionalmente previsto.“
Ciò significa che il contraente può ripensarci solo se nel contratto è stata attribuita tale facoltà.
Facoltà che, nella presente vicenda, non è prevista.

Un’altra ipotesi di risoluzione contrattuale è quella relativa alla eccessiva onerosità sopravvenuta prevista dall’art.1467 c.c. il quale testualmente dispone che se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto.
Orbene, nel nostro caso, pur facendo riferimento nella lettera di recesso a difficoltà economiche esse non rientrano nella eccessiva onerosità sopravvenuta in quanto non vi è stato alcun avvenimento straordinario e imprevedibile tra la stipula del contratto e la richiesta di scioglimento contrattuale essendo avvenute nel medesimo giorno a distanza di poche ore. Quando il contratto è stato firmato, infatti, si era a conoscenza delle difficoltà economiche.

Alla luce di tali considerazioni, dobbiamo purtroppo rispondere che in effetti il recesso esercitato non è valido né può essere sostenuta l’eccessiva onerosità sopravvenuta.
Per tali ragioni, suggeriamo quindi di trovare un accordo bonario con la scuola.
Prima di corrispondere la somma richiesta da quest'ultima, tuttavia, dato che si tratta di una transazione potreste provare a proporre la metà dell’importo suggerito dalla scuola e quindi euro 250,00 a tacitazione di qualsiasi pretesa.

Alfonso D. chiede
martedì 07/07/2020 - Lazio
“Salve, il mio problema, attiene ad un contenzioso con ENEL fornitura elettrica.
Problema: oltre 30 anni fa, nello stabile in cui vivo, siamo 3 proprietari, fu installato 1 punto luce ed un sistema citofonico con 3 cornette. Per alimentare il tutto, si decise di richiedere ad ENEL, un allaccio della potenza minima per utenze non domestiche. Mi occupai della richiesta, facendola a nome di condominio. ENEL ci concesse la stessa. Faccio presente che all'epoca, non esisteva obbligo di Codice Fiscale. Nel tempo, quando ci fu l'obbligo del C. F., ENEL tramite fattura, ha richiesto tale codice. Più di qualche volta, ho chiamato l'azienda, spiegando che non esisteva nessun codice fiscale per quella utenza "Condominio" perché non era persona fisica, né tantomeno giuridica. ENEL, ha continuato a mantenere attiva la fornitura. Col tempo, le condizioni contrattuali della fornitura, a causa di leggi e regolamenti cervellotici, sono divenute economicamente insostenibili. Per un consumo reale di circa 3 Kwh a bimestre, avevamo un esborso di circa 50,00 €. Pertanto, in considerazione dell'irrisorio consumo, abbiamo deciso di disdire la fornitura. Come per l'attivazione, mi sono occupato di richiedere la cessazione del contratto. Ho prima fisicamente aperto l'interruttore del misuratore e poi ho distaccato i fili elettrici della fornitura a valle del suddetto interruttore. Dopo qualche tempo, ENEL mi risponde che rifiuta di chiudere la fornitura per un problema non chiaramente identificato. Con pazienza contatto il call center, così scopro che il cavillo burocratico, atteneva al codice fiscale, non presente nella richiesta di cessazione. Faccio presente all'operatore, che quella richiesta è inesaudibile, perché Condominio non ha mai avuto il C. F.. L'operatore afferma che purtroppo il sistema non permette di cessare il contratto senza quel dato ed io "scusi, quel dato non è mai stato fornito, perché inesistente, eppure la fornitura è stata mantenuta attiva ugualmente". L'operatore resta della sua posizione. Nel frattempo, come da logica, il consumo energetico della fornitura è 0 Kwh, come confermato dalle teleletture di ENEL stessa, ma la richiesta di denaro è sempre sui 50,00 €. A questo punto decidiamo di non farci più rapinare è sospendiamo il pagamento delle fatture, con consumo nullo. Dopo alcune fatture, anzi rapine non andate a buon fine, ENEL, finalmente interrompe ufficialmente il contratto di fornitura. Dopo un po' di tempo, arriva richiesta da uno studio legale di recupero crediti, per le fatture che secondo ENEL, risultano insolute. Sono tutte attinenti a dopo la richiesta di cessazione fornitura, che ENEL ha rifiutato e, tutte senza consumo. Questo studio, dopo che gli ho inviato tutta la documentazione inerente la richiesta di fornitura, e date tutte le delucidazioni, richieste, ha continuato ad importunarmi di telefonate e richieste vessatorie, attuando nei miei confronti azioni e tecniche di vero mobbing. Cosa posso fare, al di fuori di farmi rapinare?”
Consulenza legale i 13/07/2020
Un condominio con un numero di unità abitative inferiore ad otto non necessita di amministratore e viene definito condominio minimo.
Nella circolare della Agenzia delle Entrate n.11/E del 21 maggio 2014 leggiamo: “secondo una consolidata giurisprudenza, la nascita del condominio si determina automaticamente “senza che sia necessaria deliberazione alcuna, nel momento in cui più soggetti costruiscano su un suolo comune, ovvero quando l’unico proprietario di un edificio ne ceda a terzi piani o porzioni di piano in proprietà esclusiva, realizzando l’oggettiva condizione del frazionamento” (cfr.risoluzione n. 45/E del 2008 e la giurisprudenza ivi richiamata). Il condominio -per effetto dell’art. 21, comma 11, lettera a), n. 1), della legge n. 449/1997 -ha assunto la qualifica di sostituto d’imposta,tenuto ad effettuare la ritenuta di acconto ogni qualvolta corrisponda compensi in denaro o in natura, pertanto, è necessario che lo stesso sia provvisto di codice fiscale, indipendentemente dalla circostanza che non sia necessario, ai sensi dell’art. 1129 codice civile, nominare un amministratore (circolare n. 204/E del 6 novembre 2000).”
Tuttavia, nella successiva circolare n. 3 del 2 marzo 2016 vi è un mutamento nell’interpretazione del predetto obbligo in quanto leggiamo che “si può ritenere che non sia necessario acquisire il codice fiscale del condominio nelle ipotesi in cui i condòmini, non avendo l’obbligo di nominare un amministratore, non vi abbiano provveduto.

Alla luce di quanto precede, in risposta al quesito possiamo dunque affermare quanto segue.

Il recesso dalla fornitura deve essere stato esercitato secondo le modalità e tempistiche previste nelle condizioni generali di contratto. Se ciò è stato rispettato, il recesso è pienamente valido ed efficace.
Questo è il primo aspetto da valutare (non essendo in possesso né delle condizioni generali né di copia della comunicazione di recesso su tale punto non possiamo pronunciarci).

Dando per pienamente valido ed efficace il recesso non vi è ragione per cui il soggetto fornitore si sia rifiutato di interrompere subito la fornitura e, conseguentemente, l’emissione di fatture non dovute.
La mancanza di codice fiscale non può essere ostativa in tal senso.
In merito a tale aspetto, suggeriamo di segnalare tutta la vicenda all’Autorità Garante per l’energia elettrica e gas con apposito reclamo scaricabile online affinché vengano fatti tutti gli accertamenti del caso ed emesse, se vi sono i presupposti, le sanzioni a carico del soggetto fornitore.

Quanto invece alla richiesta nel frattempo pervenuta da uno studio legale per fatture successive alla disdetta, si osserva quanto segue.

Se le diffide ad adempiere pervengono in modalità diverse da pec o raccomandata a/r suggeriamo di ignorarle del tutto. Addirittura nel quesito leggiamo che lo studio vi importuna al telefono. Anche a tal proposito, suggeriamo di non rispondere o se rispondete di chiedere le modalità con cui sono in possesso del Vs numero di telefono e di provvedere immediatamente alla sua cancellazione, ai sensi dell’art. 17 del GDPR, riservandovi tutela presso l’Autorità garante della privacy. Se le molestie continuano, potete anche valutare di far rispondere a questo studio legale tramite altro avvocato con una lettera raccomandata a/r o pec in cui in sostanza diffidate di insistere nella richiesta di pagamenti non dovuti e, soprattutto, di esercitare dette richieste con modalità “moleste” in violazione anche della normativa in materia di privacy.

Alessandro B. chiede
lunedì 09/09/2019 - Veneto
“Ho sottoscritto un contratto di vendita di un auto senza ricevere alcuna caparra. Ho cambiato idea e voglio recedere dal contratto. Sono tenuto a pagamento di penali? Posso esercitare il diritto di recesso?”
Consulenza legale i 13/09/2019
Il recesso è un atto giuridico con cui una delle parti può sciogliere in modo unilaterale un contratto. Non è un diritto ma una facoltà che può essere esercitata solo se prevista nel contratto medesimo oppure attribuita dalla legge in determinati casi.
In base all’art. 1373 del codice civile tale facoltà, se attribuita, “può essere esercitata finché il contratto non abbia avuto un principio di esecuzione.”
Un classico esempio di diritto di recesso legale è quello previsto dal Codice del consumo per i contratti stipulati fuori dei locali commerciali tra consumatore e professionista.

La presente vicenda è relativa ad una compravendita di un auto usata: la normativa del codice del consumo in tema di recesso non è sicuramente applicabile sia perché chi ha acquistato non è persona fisica e non rientra nella categoria del consumatore (art. 3 Codice del Consumo), sia perché il contratto non è stato stipulato fuori del locali commerciali e sia perché comunque chi vorrebbe recedere non è chi ha acquistato ma chi ha venduto il bene.
Nè sono applicabili al caso in esame altre ipotesi di recesso previste dalla legge.

Escluso quindi il recesso legale, occorre verificare se possa essere esercitato il recesso convenzionale.

L’art. 5 comma 3 delle condizioni generali di contratto (che abbiamo consultato sul sito online) prevede espressamente che: “Con la sottoscrizione del contratto di compravendita la proprietà dell’autovettura passerà insindacabilmente ed immediatamente dal Venditore alla Società, la quale si impegna a pagarne il prezzo al Venditore a mezzo bonifico bancario. Dal canto suo, il Venditore si obbliga ad espletare ogni formalità necessaria al trasferimento del bene, ivi compresa la sottoscrizione dell’atto di vendita P.R.A. presso agenzia convenzionata, entro 24 ore dalla consegna dell’autoveicolo in filiale o, comunque, entro il giorno lavorativo successivo.”
Tale disposizione è riportata anche dalla clausola b. del contratto firmato dalle parti.
Non è prevista invece alcuna clausola (né nelle condizioni generali né nel contratto) che attribuisca alle parti il diritto di recedere unilateralmente dal contratto.
Ovviamente, non essendo stata prevista una facoltà di recesso non sono menzionate nel contratto né una multa penitenziale (terzo comma art. 1373 c.c.) né una caparra penitenziale (prevista dall’art. 1386 c.c. e che la ha la funzione di corrispettivo del recesso).

Alla luce di quanto precede, la risposta alla domanda se può essere esercitato il diritto di recesso deve intendersi negativa in quanto tale facoltà non è prevista né dalla legge né dal contratto. Ne consegue che non potendo esercitare il diritto di recesso non è tenuto al pagamento di alcuna penale.

Ad ogni modo, se la parte acquirente non avesse ancora corrisposto il prezzo di vendita, Lei potrebbe verificare se possa trovarsi un accordo per una risoluzione consensuale del contratto.
Tale risoluzione potrebbe aversi anche laddove l’auto sia stata consegnata ed il prezzo già pagato in quanto in tal caso, se entrambe le parti fossero d’accordo, basterebbe restituire vettura e soldi.
In mancanza però di accordo, sia Lei che la parte acquirente siete tenuti al rispetto degli adempimenti previsti nel contratto sottoscritto.

Francesco C. chiede
domenica 08/09/2019 - Veneto
“Ho un contratto di lavoro autonomo come medico a partita iva con incarico di direzione sanitaria. In una voce del contratto viene riportato che il recesso deve avere preavviso di 90 giorni. Io vorrei recedere senza preavviso in quanto vengo pagato sempre con estremo ritardo (sul contratto è scritto che devo essere pagato entro il 15 del mese per le prestazioni effettuate nel mese precedente); ad esempio sto aspettando il pagamento del mese di luglio.
Un’altra domanda: essendo direttore sanitario ed avendo una mia stanza non c’è presunzione di lavoro dipendete?
Grazie”
Consulenza legale i 17/09/2019
Il recesso è l’atto con il quale una delle parti può sciogliersi unilateralmente dal vincolo contrattuale, in deroga al principio sancito dall’art. 1372 c.c. secondo il quale il contratto può essere sciolto solo per mutuo consenso o per le altre cause ammesse dalla legge.

La disciplina generale del recesso dal contratto è prevista dall’art. 1373 c.c. che, con specifico riguardo al contratto di specie, disciplina al comma secondo: «Nei contratti a esecuzione continuata o periodica 1467, tale facoltà può essere esercitata anche successivamente [all’inizio dell’esecuzione], ma il recesso non ha effetto per le prestazioni già eseguite o in corso di esecuzione».
La facoltà di recesso unilaterale dal contratto, ai sensi del primo comma dell’art. 1373 c.c., presuppone «che essa sia specificamente attribuita per legge o per clausola contrattuale» (Cass. n. 987/1990). Si parla pertanto di recesso “convenzionale” o “volontario”.

Dall’analisi dell’art. 1373 c.c. sopra citato, emerge la fissazione di due elementi di natura temporale riguardanti il recesso unilaterale, in base alla circostanza relativa al momento di esecuzione del contratto. Qualora, il contratto sia ad esecuzione immediata, la facoltà di recesso potrà essere esercitata finché il contratto non abbia avuto un principio di esecuzione; qualora invece, l’esecuzione del contratto possa qualificarsi come differita o ad esecuzione continuata, come nel caso di specie,la facoltà di recesso potrà essere esercitata anche successivamente all’inizio di esecuzione del contratto, ma gli effetti del recesso non coinvolgono le prestazioni già eseguite o in corso di esecuzione.

È importante considerare quanto previsto al comma terzo dell’art. 1373 c.c., ove è stabilito che qualora sia stata stipulata la prestazione di un corrispettivo per il recesso, questo (il recesso) ha effetto quando la prestazione è eseguita.

Il contratto sottoscritto sottoposto al nostro esame, prevede all’art. VI la facoltà, in capo ad entrambi i contraenti, di esercizio del recesso anticipato con preavviso di 90 giorni. Tale previsione è da ritenersi riconducibile alla disciplina dettata dal sopra richiamato art. 1373 comma 3 c.c.

Orbene, a nostro parere, in relazione al rapporto contrattuale di specie quest’ultima prescrizione normativa ha portata determinante. Infatti, ai sensi del precetto normativo testé citato gli effetti del recesso (cioè la cessazione degli effetti contrattuali) potranno legittimamente verificarsi soltanto una volta trascorsi 90 giorni dalla comunicazione del recesso da parte del prestatore d’opera. Tanto è da tenere in considerazione alla luce dei motivi (mancato o ritardato pagamento del compenso da parte del cliente) che spingono il prestatore d’opera a voler risolvere le obbligazioni contrattualmente assunte.

A tale scopo la fattispecie concreta in esame è più correttamente sussumibile nell’alveo normativo della risoluzione per inadempimento. A tale istituto, da tenere ben distinto dal recesso, si può ricorrere nel caso in cui una delle parti di un contratto a prestazioni corrispettive non adempia alle proprie obbligazioni. La parte adempiente, potrà, alternativamente, chiedere alla parte inadempiente l’adempimento o la risoluzione del contratto.
Il riferimento normativo da tenere in considerazione, in questo caso, va rinvenuto negli articoli [n1453cc]] e seguenti del codice civile. Tali norme soddisfano le ragioni sottostanti alla stipula del contratto a prestazioni corrispettive, ove ognuna delle prestazioni trova giustificazione nell’altra (prestazione d’opera verso corrispettivo), per cui il venir meno di una (ad esempio il pagamento del corrispettivo pattuito) legittima la controparte a chiedere la risoluzione del contratto, sempre che questa non preferisca insistere per l’adempimento. Solo in quest’ultimo caso, però, a fronte del persistere dell’inadempimento, la parte adempiente può ancora agire per la risoluzione, mentre nel caso in cui avesse prima agito giudizialmente per ottenere la risoluzione rimarrà ad essa preclusa la possibilità di chiedere successivamente l’adempimento e, conseguentemente l’inadempiente non potrà più adempiere la propria obbligazione (fermo restando il diritto al risarcimento del danno conseguente all’inadempimento).

In ordine alla successiva domanda, bisogna osservare che sono molteplici le forme con cui un'attività lavorativa può essere resa, ed i confini tra le stesse non sono sempre facili da tracciare. Per ognuna delle varie tipologie, trova applicazione una disciplina differente.
La giurisprudenza è intervenuta a più riprese per individuare alcuni indici di subordinazione, cioè fattori che possono aiutare ad identificare la reale natura del rapporto di lavoro dietro al nome che ad esso le parti hanno dato; questo, con tutta evidenza, per evitare che dietro ad un contratto autonomo o parasubordinato si nasconda l’intento fraudolento del datore di lavoro di limitare i diritti del prestatore di lavoro (contributi, previdenza, etc.).
La Corte di Cassazione ha avuto modo di affermare ripetutamente che laddove si accerti che un rapporto, sebbene qualificato come di collaborazione, abbia in realtà natura subordinata, il lavoratore potrà rivendicare tutti i diritti conseguenti (retributivi e contributivi).
A tal uopo è necessario che ricorrano dei requisiti ben precisi e tra i più significativi indici valutati dalla giurisprudenza vanno senz’altro ricordati:
• il fatto che l'attività lavorativa si svolga presso i locali aziendali;
• una presenza costante sul lavoro, specie se ad orario fisso e caratterizzata da un vero e proprio obbligo di presenza (e dunque con necessità di avvertire e di giustificarsi in caso di assenza);
• il concordare il periodo feriale;
• l'utilizzo, per lo svolgimento dell'attività lavorativa, di strumenti di proprietà del datore di lavoro;
• il ricevere costantemente ordini e disposizioni;
• la mancanza, in capo al lavoratore, di una propria attività imprenditoriale e della relativa struttura, sia pur minima.
Nessuno degli elementi sopra indicati è, di per sé, determinante ma, laddove sia riscontrabile la contemporanea presenza di più indici tra quelli esemplificativamente indicati, ciò potrà costituire una prova della natura subordinata del rapporto.

Va, infine, segnalato che il legislatore, con decreto legislativo n. 81 del 2015 – uno dei decreti attuativi del c.d. Jobs Act –, ha recentemente stabilito che la disciplina del rapporto di lavoro subordinatosi applica anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro” (art. 2, d.lgs. 81/2015).
La norma in parola introduce, dunque, una presunzione legale di subordinazione, destinata a operare allorché:

• la prestazione sia svolta in modo esclusivamente personale (vale a dire senza una minima organizzazione e senza avvalersi dell’apporto di terze persone);
• la prestazione sia svolta con continuità;
• la prestazione sia etero organizzata dal committente, anche con riferimento all’orario e al luogo di lavoro.

In ogni caso, il secondo comma dell’art. 2 dell’ultima citata legge stabilisce che la nuova presunzione di subordinazione non si applica:
• alle collaborazioni per le quali gli accordi collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale prevedono discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore;
• alle collaborazioni prestate nell'esercizio di professioni intellettuali per le quali è necessaria l'iscrizione in appositi albi professionali;
• alle attività prestate nell'esercizio della loro funzione dai componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società e dai partecipanti a collegi e commissioni;
• alle collaborazioni rese a fini istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal C.O.N.I.

Illustrato tutto quanto sopra, per poter porre in essere tutte le opportune valutazioni in ordine alla possibilità di ottenere la riqualificazione del rapporto di lavoro con riconoscimento del carattere della subordinazione, non è sufficiente la disponibilità esclusiva di una stanza dell’ambulatorio medico, è invece necessario approfondire e verificare, attraverso la ricostruzione dell’intero rapporto lavorativo, l’effettivo svolgimento delle mansioni da parte del prestatore con assoggettamento al potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro.

Rimaniamo a completa disposizione per gli ulteriori approfondimenti.

Carmen M. chiede
domenica 30/12/2018 - Piemonte
“Buongiorno,
nel 2014 ho stipulato un contratto con TeleTu per servizio voce e ADSL, a prezzo fisso per sempre. L'azienda chiude (fallisce?), continua ad erogare il servizio pattuito, ma gli aspetti amministrativi vengono assorbiti e gestiti da Vodafone.
In data febbraio 2018, stipulo un contratto direttamente con Vodafone, con una nuova linea telefonica e nuovo numero. Come da prassi, mando comunicazione di recesso dal contratto. Verso metà marzo, vengo contattata sul mobile, un gentilissimo operatore mi spiega che sarei tenuta a pagare circa Euro 40,00 per interruzione del contratto, fatto salvo inviare un fax, in cui chiedo la chiusura gratuita per modifica condizioni contrattuali, entro il 5 aprile. Invio tale fax, alla data del 03/04/2018.
Da allora, ricevo regolare fattura bimestrale, in quanto sostengono che nella data in cui sono stata contattata dall'operatore io abbia attivato una nuova offerta, che ha fatto ripartire il contratto interrotto.
Non ho pagato la prima fattura (che era ridotta, trattandosi di una promozione), né la seconda, sperando che non pagando il servizio, venisse interrotto automaticamente. In data 30/06/2018 mando un altro fax, in cui riassumo tutto e comunico che non pagherò un servizio non richiesto, che non utilizzo. Ad ottobre ricevo una diffida dell'amministrazione Vodafone, che intima di pagare e risolvere in via stragiudiziale, per evitare che si procedesse davanti al giudice. Sperando che pagando gli arretrati, tutto si chiudesse, pago il dovuto. Mi arriva un'altra fattura per novembre. Ricontatto (cosa sempre difficile) Teletu e mi spiegano che la recessione era sbagliata, perché mancante della fotocopia del mia Carta d'Identità. Rinvio, come RA una nuova richiesta di recesso, con i miei dati e la fotocopia della C.I.
Oggi ricevo la mail, che mi anticipa che in data 16/01/2019 scade la nuova fattura.
Dovrò pagare per sempre? Come posso uscire da questo circolo vizioso?
La prego mi aiuti.

Consulenza legale i 09/01/2019
Premesso che le modalità di esercizio del diritto di recesso sono di norma individuate nelle condizioni generali di contratto, le penali per il recesso anticipato sono state abolite dalla legge 40/2007. Tuttavia, in base a tale normativa, in caso di recesso anticipato, la società di telefonia può chiedere all'utente il pagamento di somme pari ai “costi dell'operatore”, che vanno opportunamente motivati. Recentemente, l’AGCOM ha approvato delle nuove linee guida con la delibera 487/18 relative anche al diritto di recesso alle quali, tuttavia, non possiamo far riferimento essendo successive ai fatti della presente vicenda.
Possiamo però tener presente quanto previsto dalla Legge 124/2017 che all’art. 41 lett. a prevede testualmente che: "le spese relative al recesso o al trasferimento dell'utenza ad altro operatore sono commisurate al valore del contratto e ai costi reali sopportati dall'azienda, ovvero ai costi sostenuti per dismettere la linea telefonica o trasferire il servizio, e comunque rese note al consumatore al momento della pubblicizzazione dell'offerta e in fase di sottoscrizione del contratto, nonché comunicate, in via generale, all'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, esplicitando analiticamente la composizione di ciascuna voce e la rispettiva giustificazione economica”.

Ciò molto brevemente illustrato dal punto di vista legislativo, passando allo specifico del caso in esame, si osserva quanto segue.

Sulla base dei soli dati in nostro possesso e senza aver visionato né il contratto né la corrispondenza intercorsa, riteniamo che l’importo di euro 40,00 probabilmente era comunque dovuto in quanto rientrante nei costi dell’operatore sopra menzionati.
Di contro, le fatture inviate successivamente alla disdetta appaiono non dovute laddove il diritto di recesso sia stato regolarmente comunicato a mezzo lettera raccomandata a/r oppure a mezzo pec.
La circostanza del mancato invio di copia del documento d’identità non appare sufficiente ad inficiare la validità ed efficacia dell’esercitato diritto di recesso non essendo previsto in alcuna normativa.
Anzi, a tal proposito, il Corecom Lazio con delibera n.36/11 (in un caso analogo) ha sottolineato che tale motivazione addotta dalla compagnia telefonica “sembra in ogni caso non giustificare l’omessa lavorazione della richiesta, dato che si tratterebbe di una prassi stabilita dall’azienda a (pretesa) tutela del cliente, che potrebbe invece essere semplicemente contattato per una verifica sulla sua effettiva volontà”.

Ciò posto, suggeriamo di procedere nel modo seguente.
Non paghi l’ultima fattura ed invii un formale reclamo scritto a mezzo fax, lettera raccomandata a/r o pec con cui contesta tale ennesima fattura inviata, non dovuta, riservandosi:
a) di chiedere la ripetizione di quanto già versato in forza delle precedenti fatture illegittimamente emesse a seguito di regolare invio di comunicazione di recesso;
b) di informare la competente autorità garante.
Se entro 45 giorni (art. 4 delibera 79/09 agcom) dalla ricezione del reclamo la compagnia telefonica non risponde (o risponde in maniera insoddisfacente), è possibile ricorrere al Co.Re.Com. della Sua regione per il tentativo di conciliazione.


M. M. chiede
mercoledì 05/07/2023
“Sono proprietario al 100 % del fondo A e sono anche proprietario di una quota ideale del 25 % del fondo B che confina con il fondo A.
Il restante 75 % del fondo B è di proprietà, in misura del 25 % ciascuno, di altre tre persone.
Una di queste tre persone vorrebbe rimettere in discussione i confini tra i due fondi ma non può farlo perché non tutti i proprietari sono concordi nell'avviare una causa legale (per quanto ne so, serve l'unanimità e, ovviamente, io non sono d'accordo).
Ho la necessità di vendere la mia quota ideale del 25 % del fondo B a uno degli altri tre proprietari. Con il consenso dell'acquirente, posso attribuire alla quota ideale oggetto di vendita un vincolo di voto? In pratica, in caso di votazione sulla decisione di avviare azione legale per rimettere in discussione i confini tra fondo A e fondo B, il proprietario del 25 % da me venduto dovrebbe sempre esprimere parere contrario.
In questa maniera potrei vendere la mia quota ideale del 25 % del fondo B e assicurarmi che, in futuro, i proprietari del fondo B non mi diano noie. Si consideri che, se io vendo la mia quota del 25% del fondo B, quasi certamente l'intero 100 % delle quote del fondo B confluirà nelle mani del soggetto che vorrebbe oggi rimettere in discussione i confini.
Grazie.”
Consulenza legale i 07/07/2023
Ciò che ci si prefigge di fare, seppur astrattamente ammissibile, è perfettamente inutile.
La giurisprudenza ha chiarito che ai fini della promozione dell’azione di regolamento di confini ex art 950 del c.c., se i fondi appartengono a più proprietari non è necessario il litisconsorzio necessario, né per promuovere la causa né per resistere ad essa. Pertanto ciascun comproprietario del fondo B può tranquillamente citare in giudizio il proprietario del fondo A per regolare i confini dei due terreni senza il consenso degli altri proprietari, essendo il singolo comunista di per sé solo legittimato a promuovere l’azione (tra le tante Cass. Civ. n.1462 del 09.02.95; Cass. Civ.n. 3082 del 13.02.2006; Cass.Civ.n. 27041del 03.12.2013). Per questo motivo ciascun comproprietario potrebbe già ora farle causa in assoluta autonomia rispetto al suo voto o a quello dell’altro proprietario.

Per completezza si precisa che il codice civile non contiene norme che vietino di per sé un accordo tra venditore e acquirente, in forza del quale quest’ultimo si obbligherebbe a esercitare il suo diritto di voto nella assemblea dei comproprietari con determinate modalità gradite al venditore.

Vi è però da fare una importante precisione, in quanto per principio generale del nostro diritto privato, il cui capostipite normativo è rappresentato dall’ art. 1373 del c.c., non sono ammissibili vincoli giuridici obbligatori di durata perpetua; per molti interpreti tale principio avrebbe addirittura valore pubblicistico che andrebbe quindi oltre ai meri interessi privati.
Per tale motivo, se anche il contenuto di un tale tipo di accordo può essere astrattamente ammissibile, affinché esso sia comunque valido dovrebbe essere limitato ad un congruo periodo di tempo, solitamente non oltre i 5 anni.
Ad ogni modo si è già detto che tale tipo di accordo non impedirebbe agli altri comproprietari di farle causa per l’accertamento dei confini dei due fondi.
 


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