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Articolo 2099 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 25/09/2024]

Retribuzione

Dispositivo dell'art. 2099 Codice Civile

La retribuzione del prestatore di lavoro può essere stabilita a tempo o a cottimo [2100, 2101, 2108, 2131] e deve essere corrisposta [nella misura determinata dalle norme corporative](1), con le modalità e nei termini in uso nel luogo in cui il lavoro viene eseguito [1755, 2103, 2751, 2955, 2956; 545 c.p.c.; 36, 37 Cost.].

In mancanza di [norme corporative o di](1) accordo tra le parti, la retribuzione è determinata dal giudice [tenuto conto, ove occorra, del parere delle associazioni professionali](1).

Il prestatore di lavoro può anche essere retribuito in tutto o in parte con partecipazione agli utili o ai prodotti [2102], con provvigione o con prestazioni in natura [1639, 2121].

Note

(1) Gli incisi sono stati abrogati per effetto della soppressione dell'ordinamento corporativo, disposta con R.D.L. 9 agosto 1943, n. 721 e delle organizzazioni sindacali fasciste.

Ratio Legis

Nel concetto di retribuzione vi rientrano non solo gli emolumenti corrisposti in funzione dell'esercizio dell'attività lavorativa, ma anche gli importi che costituiscono adempimento di obbligazioni pecuniarie imposte dal datore di lavoro.
Del pari anche la garanzia apprestata dall'art. 36 Cost. si riferisce al trattamento economico globale e non ai singoli elementi retributivi.

Spiegazione dell'art. 2099 Codice Civile

La retribuzione si compone di più elementi:
a) paga base, ovvero la retribuzione propriamente detta;
b) indennità di contingenza ha la funzione di garantire il costante adeguamento della retribuzione al costo della vita;
c) attribuzioni patrimoniali accessorie che si aggiungono alla retribuzione minima.
L'art. 36 Cost. prescrive la retribuzione proporzionata che nella normalità dei casi è fissata dalle parti sociali contrapposte nella contrattazione collettiva.
In virtù della norma imperativa la retribuzione deve essere costantemente adeguata al costo della vita e dunque garantire il sostentamento del lavoratore.

Massime relative all'art. 2099 Codice Civile

Cass. civ. n. 944/2021

In tema di adeguamento della retribuzione ai sensi dell'art. 36 Cost., il giudice, per i rapporti non tutelati da contratto collettivo, può utilizzare, quale parametro di raffronto, la retribuzione tabellare prevista dal contratto nazionale del settore corrispondente a quello dell'attività svolta dal datore di lavoro ovvero, in mancanza, da altro contratto che regoli attività affini e prestazioni lavorative analoghe, dovendo considerare le sole componenti integranti il cd. minimo costituzionale - anche con riguardo alle imprese di non rilevanti dimensioni -, con esclusione delle voci retributive legate all'autonomia contrattuale, come ad esempio i compensi aggiuntivi, gli scatti di anzianità e la quattordicesima mensilità. (Rigetta, CORTE D'APPELLO CALTANISSETTA, 04/08/2016).

Cass. civ. n. 26017/2018

Il cosiddetto superminimo, ossia l'eccedenza retributiva rispetto ai minimi tabellari, individualmente pattuito tra datore di lavoro e lavoratore, è soggetto al principio dell'assorbimento, nel senso che, in caso di riconoscimento del diritto del lavoratore a superiore qualifica, l'emolumento è assorbito dai miglioramenti retributivi previsti per la qualifica superiore, a meno che le parti abbiano convenuto diversamente o la contrattazione collettiva abbia altrimenti disposto, restando a carico del lavoratore l'onere di provare la sussistenza del titolo che autorizza il mantenimento del superminimo, escludendone l'assorbimento.

Cass. civ. n. 22387/2018

Nell'ipotesi di erogazione continuativa di un emolumento nell'ambito del rapporto di lavoro, spetta al datore che abbia dedotto la cessazione della "causa debendi" dimostrare, ai fini dell'accertamento della non spettanza dell'attribuzione, la natura non retributiva del predetto emolumento, dovendo escludersi che gravi sul lavoratore - a seguito di tale deduzione - l'onere di provare la sussistenza di altra fonte di debito.

Cass. civ. n. 22197/2018

In caso di trasferimento del lavoratore, alle somme erogate a tale titolo deve riconoscersi natura retributiva qualora si tratti di importi compensativi della maggiore gravosità e del disagio morale ed ambientale dell'attività lavorativa prestata presso la nuova sede per adempiere, sia pure indirettamente, gli obblighi della prestazione lavorativa; il collegamento sinallagmatico con detta prestazione rende, infatti, tali importi un adeguamento della retribuzione ai maggiori esborsi sopportati in considerazione delle mutate condizioni ambientali in cui il lavoratore svolge la propria attività.

Cass. civ. n. 20011/2018

Il trattamento economico per servizio estero ha natura retributiva se compensa la maggiore gravosità del lavoro ovvero se è correlato alla professionalità necessaria per svolgere la prestazione fuori dai confini nazionali, mentre ha natura riparatoria se reintegra le spese sopportate dal lavoratore per la permanenza all'estero nell'esclusivo interesse del datore, con accertamento demandato al giudice di merito. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza che aveva ritenuto risarcitoria la natura dell'indennità di alloggio corrisposta da un istituto bancario, perché erogata per esigenze abitative del dipendente e non collegata all'espletamento della prestazione lavorativa).

Cass. civ. n. 7925/2017

Ogni attività oggettivamente configurabile come di lavoro subordinato si presume effettuata a titolo oneroso, salva la prova da fornirsi da colui che contesti l’onerosità che la stessa sia caratterizzata da gratuità; una tale prova, peraltro, non può essere desunta soltanto dalle formali pattuizioni intercorse tra le parti, ma deve consistere nell’accertamento, specie attraverso le modalità di svolgimento del rapporto, di particolari circostanze, oggettive o soggettive (modalità, quantità del lavoro, condizioni economico-sociali delle parti, relazioni tra esse intercorrenti), che giustifichino la causa gratuita e consentano di negare, con certezza, la sussistenza di un accordo elusivo dell’irrinunciabilità della retribuzione, senza che sia sufficiente la semplice dimostrazione che il lavoratore si riprometta di ricavare dalla prestazione gratuita un vantaggio futuro e non pecuniario (nella specie, l'acquisizione del punteggio derivante dallo svolgimento di attività d'insegnamento, utile ai fini dell'assunzione presso istituzioni pubbliche).

Cass. civ. n. 26953/2016

Ai fini del giudizio circa l'adeguatezza della retribuzione ai sensi dell'art. 36 Cost., il giudice del merito deve accertare la natura e l'entità qualitativa e quantitativa delle prestazioni lavorative del dipendente, nonché le effettive esigenze del medesimo e della sua famiglia per un'esistenza libera e dignitosa: a tale scopo, può fare riferimento, come espressione parametrica delle condizioni di mercato, al contratto collettivo di categoria, ove questo non sia direttamente applicabile, o ad altro contratto che concerna prestazioni lavorative affini o analoghe.

Cass. civ. n. 24449/2016

L'art. 36, comma 1, Cost. garantisce sia il diritto ad una retribuzione proporzionata, che assicura ai lavoratori una ragionevole commisurazione della propria ricompensa alla quantità e qualità dell'attività prestata, sia quello ad una retribuzione sufficiente, ossia che non ricada sotto il livello minimo, ritenuto, in un determinato momento storico e nelle condizioni concrete di vita esistenti, necessario ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un'esistenza libera dignitosa, sicché il mancato adeguamento della retribuzione all'aumentato costo della vita, per un lungo periodo lavorativo, comporta che quanto percepito non sia più proporzionato al valore del lavoro secondo la valutazione fatta inizialmente dalle stesse parti. (Omissis).

Cass. civ. n. 20228/2014

Gli scatti d'anzianità non sono soggetti al principio dell'infrazionabilità del periodo di servizio, applicabile solo per l'indennità di anzianità, ma a quello dell'assorbimento poiché l'obbligo del datore di lavoro di corrispondere un elemento aggiuntivo della retribuzione in ragione dell'anzianità di servizio del lavoratore è necessariamente riferito alla durata della permanenza nella categoria o livello retributivo, che costituisce la base al calcolo degli scatti, sicché, in caso di progressione del lavoratore ad una categoria o livello superiore, gli stessi non si conservano per intero, né assume rilievo, in assenza di espressa disposizione contrattuale, la pregressa anzianità maturata.

Cass. civ. n. 19923/2014

La corresponsione, in favore del lavoratore subordinato, di una retribuzione maggiore di quella dovutagli in forza della contrattazione collettiva, costituisce trattamento di miglior favore, giustificato anche in considerazione di specifiche particolarità del caso, salva la dimostrazione, il cui onere incombe sul datore di lavoro, di un errore non imputabile ad esso e riconoscibile anche dallo stesso lavoratore.

Cass. civ. n. 15444/2014

Gli effetti della sospensione cautelare dal servizio permangono fino all'esito del procedimento penale o disciplinare, il cui esito favorevole condiziona il diritto del lavoratore alla percezione delle retribuzioni non corrisposte. Ne consegue che, qualora il rapporto di lavoro sia risolto per dimissioni del lavoratore, intervenute prima della conclusione in senso a lui favorevole del procedimento penale e senza che sia mai stato instaurato il procedimento disciplinare, al lavoratore competono tutte le retribuzioni per il periodo di sospensione cautelare, dovendosi ritenere la misura, avente carattere provvisorio, caducata e non potendo, per contro, un atto volontario del prestatore di lavoro, di carattere non disciplinare, assumere valenza retroattiva ai fini dell'interruzione del rapporto.

Cass. civ. n. 15941/2013

Lo stato di carcerazione preventiva (o di custodia cautelare) del lavoratore subordinato non rientra tra le ipotesi, tutelate dalla legge, di impossibilità temporanea della prestazione, quale la malattia e le altre situazioni contemplate dall'art. 2110 c.c., e comporta la perdita del diritto alla retribuzione per tutto il tempo in cui si protrae la carcerazione medesima, senza che - ove la detenzione concorra con il provvedimento di sospensione cautelare disposto dal datore di lavoro in pendenza del procedimento penale - possa essere invocato il principio della cosiddetta priorità della causa sospensiva della prestazione lavorativa, secondo il quale si considera prevalente ai fini del trattamento retributivo la causa verificatasi prima, atteso che esso si riferisce unicamente alle suddette cause legali di sospensione con diritto alla retribuzione.

Cass. civ. n. 813/2013

In tema di retribuzione dovuta al prestatore di lavoro ai fini dei cc.dd. istituti indiretti (mensilità aggiuntive, ferie, malattia e infortunio), non esiste un principio generale ed inderogabile di omnicomprensività e, pertanto, nella quantificazione degli istituti indiretti il compenso per lavoro notturno o straordinario di turno può essere computato esclusivamente qualora ciò sia previsto da specifiche norme di legge o di contratto collettivo; tale disciplina collettiva, stabilendo un trattamento di maggior favore, può derogare, ai sensi dell'art. 7, ultimo comma, della legge 14 luglio 1959, n. 741, anche al criterio di computo della tredicesima mensilità dettato - richiamando la "retribuzione globale di fatto" - dall'accordo interconfederale per l'industria 27 ottobre 1946, esteso "erga omnes" con d.p.r. 28 luglio 1960, n. 1070, escludendo la computabilità dei compensi aggiuntivi nella tredicesima e prevedendo l'attribuzione di benefici diversi a favore del lavoratore. (Omissis).

Cass. civ. n. 17353/2012

Nel contratto di lavoro - ove le prestazioni sono corrispettive, in quanto all'obbligo di lavorare dell'una corrisponde l'obbligo di remunerazione dell'altra - ciascuna parte può valersi dell'eccezione di inadempimento prevista dall'art. 1460 c.c., dovendosi escludere che alla inadempienza del lavoratore il datore di lavoro possa reagire solo con sanzioni disciplinari o, al limite, con il licenziamento, oppure col rifiuto di ricevere la prestazione parziale a norma dell'art. 1181 c.c. e con la richiesta di risarcimento. Ne consegue che, nel caso di inadempimento della prestazione lavorativa il datore di lavoro non è tenuto al pagamento delle retribuzioni ove ricorrano le condizioni dell'art. 1460 c.c.. (Nella specie, la sentenza impugnata aveva condannato il datore al pagamento delle retribuzioni per il periodo, nel quale non vi era stata alcuna prestazione lavorativa, intercorrente tra la scadenza del periodo di comporto e la data di efficacia del licenziamento, ritenendo che il mantenimento del posto di lavoro del dipendente nel detto periodo, in assenza di causa legittima di sospensione, implicasse rinuncia del datore a far valere l'assenza ingiustificata del dipendente; la S.C., nel cassare la decisione impugnata, ha affermato il principio su esteso).

Cass. civ. n. 16636/2012

Nella nozione di retribuzione deve farsi rientrare qualsiasi utilità corrisposta al lavoratore dipendente che proviene dal datore di lavoro se causalmente collegata al rapporto di lavoro, anche ove si tratti di somme materialmente erogate da un soggetto diverso dal datore di lavoro, ed anche se l'attribuzione patrimoniale costituisca la prestazione di un contratto diverso da quello di lavoro, ove tale contratto costituisca lo strumento per conseguire il risultato pratico di arricchire il patrimonio del lavoratore in correlazione con lo svolgimento del rapporto di lavoro subordinato. (Nella specie, la corte territoriale aveva riscontrato un accordo tra le parti secondo cui il dipendente, nell'adempimento degli obblighi derivanti dal contratto di lavoro, doveva svolgere anche attività come amministratore o liquidatore delle società del gruppo, ricevendo per tali attività un compenso aggiuntivo corrisposto talora direttamente dal datore, talaltra per il tramite delle società del gruppo; la S.C. ha confermato la decisione, affermando il principio su esteso).

Cass. civ. n. 5595/2012

In tema di retribuzione nel lavoro subordinato, ai fini della determinazione della base di calcolo degli istituti indiretti (mensilità aggiuntive, ferie, malattia e infortunio), non vige nell'ordinamento un principio di onnicomprensività, sicché il compenso per lavoro straordinario va computato, a tali fini, solo ove previsto da norme specifiche o dalla disciplina collettiva. Ne consegue che, con riferimento al personale dipendente delle aziende grafiche e affini e delle aziende editoriali (nella specie, l'Istituto Poligrafico o Zecca dello Stato), per la determinazione della retribuzione feriale non sono inclusi i compensi per lavoro straordinario, in quanto l'art. 5 del c.c.n.l. di settore del 1986 e del 1989 fa esclusivo riferimento, per le ferie degli operai, alla retribuzione commisurata "all'orario contrattuale", cui, per definizione, è estraneo il lavoro straordinario, mentre l'art. 6 di tali accordi collettivi, relativo alle ferie degli operai, non prevede l'inserimento di tale compenso variabile nella base di calcolo degli istituti indiretti, né può ritenersi consentita, da parte dell'interprete, l'introduzione di un criterio "di riempimento" della clausola contrattuale.

Cass. civ. n. 1415/2012

In tema di determinazione della giusta retribuzione, i contratti collettivi di lavoro costituiscono solo possibili parametri orientativi, e, poiché non esiste nell'ordinamento un criterio legale di scelta in ipotesi di plurime fonti collettive, il giudice di merito può fare riferimento al contratto collettivo aziendale anziché a quello nazionale, in quanto rispondente al principio di prossimità all'interesse oggetto di tutela, pur se peggiorativo rispetto al secondo, e pur se intervenuto in periodo successivo alla conclusione del rapporto di lavoro, diversamente introducendosi, in modo surrettizio, un principio d'inderogabilità del contratto collettivo nazionale in forza di quello aziendale, sussistente invece solo rispetto al contratto individuale, e a maggior ragione da escludere quando non è possibile riferirsi direttamente alla fonte collettiva nazionale per mancanza di bilateralità d'iscrizione e di spontanea ricezione ad opera delle parti del rapporto individuale.

Cass. civ. n. 5552/2011

In tema di determinazione del trattamento retributivo spettante al lavoratore subordinato, una volta accertata in giudizio l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato in contrasto con la qualificazione del rapporto come autonoma operata dalle parti, trova applicazione - salvo che per le indennità di fine rapporto che maturano al momento della cessazione del rapporto medesimo - il principio dell'assorbimento, per cui ove il trattamento economico complessivamente erogato in concreto dal datore di lavoro risulti superiore a quello minimo dipendente dalla qualificazione del rapporto, non debbono essere liquidate mensilità aggiuntive commisurate ai compensi periodicamente corrisposti, dovendosi, peraltro, escludere che il lavoratore sia tenuto, sulla mera richiesta del datore di lavoro, a restituire tale eccedenza, atteso che i contratti collettivi stabiliscono le retribuzioni minime spettanti ai lavoratori di una determinata categoria, senza che ciò impedisca al datore di lavoro di erogare ai propri dipendenti paghe superiori, siano esse semplicemente offerte al lavoratore o determinate da una contrattazione ovvero conseguenti alla diversa e inesatta qualificazione del rapporto tra le parti, la quale può essere frutto di un errore delle parti ma anche della volontà di usufruire di una normativa specifica ovvero di eluderla. Ne consegue che il datore di lavoro, ove chieda la restituzione delle somme erogate in eccesso rispetto ai minimi previsti dalla contrattazione collettiva, ha l'onere di dimostrare che la maggior retribuzione è stata determinata da un errore essenziale avente i requisiti di cui agli artt. 1429 e 1431 c.c..

Cass. civ. n. 23614/2010

In tema di rapporto di lavoro subordinato, le obbligazioni delle parti si inseriscono all'interno di un rapporto contrattuale sinallagmatico di carattere continuativo che rende inapplicabile il principio, valido per le obbligazioni unilaterali, secondo cui le obbligazioni non possono avere carattere perpetuo, dovendosi ritenere che le erogazioni da parte del datore di lavoro trovano la loro causa nelle prestazioni lavorative dei dipendenti, intesi sia come singoli che come collettività, mentre queste ultime traggono, a loro volta, la giustificazione nelle erogazioni a carico del datore, tra le quali rientrano tutte le somme di denaro, a qualsiasi titolo, anche diverso dallo stipendio di base e dalle voci previste dalla contrattazione collettiva, corrisposte ai dipendenti in maniera stabile e continuativa. Ne consegue che il datore di lavoro non può recedere unilateralmente, senza accordo preventivo, dall'obbligo a suo carico di corrisponderle, integrando l'eventuale loro cessazione, in assenza di specifica giustificazione di carattere giuridico (e non semplicemente di natura economica), una forma di inadempimento contrattuale che può essere, secondo i casi, totale o parziale. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto inadempiente il datore di lavoro per aver unilateralmente congelato la quattordicesima mensilità).

Cass. civ. n. 21274/2010

La giusta retribuzione spettante al lavoratore, ai sensi dell'art. 36 Cost., deve essere individuata nei minimi retributivi stabiliti per ciascuna qualifica dalla contrattazione collettiva, i quali devono applicarsi necessariamente, indipendentemente dall'iscrizione o meno del datore di lavoro ad un'associazione sindacale stipulante, ed anche nel caso si tratti di imprese di non rilevanti dimensioni, ove non sussista una separata contrattazione collettiva.

Cass. civ. n. 15207/2010

In caso di sospensione dell'attività lavorativa per l'attualità di una crisi aziendale implicante la possibilità di intervento della cassa integrazione guadagni, la qualificazione giuridica delle somme corrisposte a titolo di anticipazione della prestazione previdenziale è consentita solo all'esito del procedimento per l'ammissione al trattamento di integrazione salariale, e in caso di mancato accoglimento della richiesta di intervento della C.I.G., tali importi costituiscono solo una parte della retribuzione, al cui pagamento il datore di lavoro continua ad essere interamente obbligato in base alla disciplina generale delle obbligazioni e dei contratti con prestazioni corrispettive, trovandosi in una situazione di "mora credendi" rispetto ad una sospensione unilateralmente da lui disposta, in difetto del relativo potere. Conseguentemente, la persistenza dell'obbligo retributivo in capo al datore di lavoro in caso di sospensione dell'attività lavorativa non seguita da intervento della c.i.g. comporta necessariamente l'assoggettamento a contribuzione previdenziale e assicurativa delle somme che risultano corrisposte a titolo di anticipazione dell'integrazione salariale, ma sono da imputare definitivamente alla retribuzione contrattualmente dovuta.(In applicazione di tale principio la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva escluso che dette somme potessero essere qualificate come atti di liberalità, ai sensi dell'art. 12 della legge n. 153 del 1969, per il solo fatto che fossero state oggetto di accordo transattivo).

Cass. civ. n. 13256/2010

Nell'ipotesi in cui il datore di lavoro si trovi nell'impossibilità di ricevere la prestazione lavorativa per causa a lui non imputabile (nella specie, per l'adesione ad uno sciopero da parte della stragrande maggioranza del personale dipendente e la conseguente inutilizzabilità del personale residuo non scioperante), il diritto alla retribuzione non viene meno per quei lavoratori il cui rapporto di lavoro sia già sospeso per malattia ai sensi dell'art. 2110 c.c., atteso che la speciale disciplina dettata per ragioni di carattere sociale dall'art. 2110 c.c. investe in via esclusiva il rapporto tra datore di lavoro e singolo lavoratore, e su di essa non possono pertanto incidere le ragioni che, nel medesimo periodo di sospensione del rapporto, rendano impossibile la prestazione di altri dipendenti in servizio, senza che, peraltro, possa in tal modo configurarsi una violazione del principio di parità di trattamento, posto che detto principio non può essere validamente invocato al fine di eliminare un regime differenziale voluto a tutela di particolari condizioni già ritenute meritevoli di un trattamento privilegiato.

Cass. civ. n. 10527/2010

In tema di risarcimento del danno subito dal dipendente postale, collocato in quiescenza per raggiungimento della massima anzianità contributiva, in conseguenza della declaratoria di nullità della previsione contrattuale secondo cui il rapporto di lavoro si risolve automaticamente (senza obbligo di preavviso o di erogare la corrispondente indennità sostitutiva) al raggiungimento della detta anzianità, il prestatore di lavoro deve allegare e provare il danno conseguito all'atto nullo produttivo dell'interruzione del rapporto, non avendo egli automaticamente diritto alle retribuzioni per il periodo successivo alla cessazione del servizio, neppure a titolo di risarcimento del danno, atteso che, in ragione della natura sinallagmatica del rapporto, la retribuzione spetta soltanto se la prestazione di lavoro viene eseguita, salvo che il datore di lavoro versi in una situazione di "mora accipiendi" nei confronti del dipendente.

Cass. civ. n. 8255/2010

Il patto di conglobamento nei compensi corrisposti per le prestazioni lavorative di corrispettivi ulteriormente dovuti al lavoratore subordinato per legge o per contratto (quali la tredicesima mensilità, il compenso per le ferie e per le festività), può essere ammesso solo se dal patto risultino gli specifici titoli cui è riferibile la prestazione patrimoniale complessiva, poiché solo in tal caso è superabile la presunzione che il compenso convenuto è dovuto quale corrispettivo della sola prestazione ordinaria, e si rende possibile il controllo giudiziale circa l'effettivo riconoscimento al lavoratore dei diritti inderogabilmente spettanti per legge o per contratto, senza che, in senso contrario, possa essere invocato il criterio dell'assorbimento - imperniato sul "trattamento globale più favorevole" tra quello di fatto goduto e quello spettante sulla base dei minimi contrattuali con conseguente imputazione alle competenze indirette degli emolumenti eccedenti i primi - che, fondandosi sulla diversa situazione della conversione di un rapporto qualificato "ab origine" come autonomo in un contratto di, prestazione d'opera subordinata, pone la necessità di operare un raffronto, per la differente qualificazione delle voci di compenso, fra il percepito e il dovuto.

Cass. civ. n. 7528/2010

In tema di diritto all'equa retribuzione per i lavoratori subordinati, il giudice di merito, nel determinare il compenso o la retribuzione base spettante al lavoratore subordinato, può, in mancanza di una specifica contrattazione di categoria, utilizzare alla stregua dell'art. 36 Cost. la disciplina collettiva di un settore - diverso da quello in cui di fatto ha operato il datore di lavoro - a semplici fini parametrici odi raffronto perla determinazione della sola retribuzione base spettante al lavoratore subordinato (senza riguardo agli altri istituti contrattuali). Tale determinazione può essere impugnata dal lavoratore in cassazione, ex art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., in caso di disapplicazione del criterio giuridico della "sufficienza" della retribuzione - volto a garantire la soddisfazione, dei bisogni di una esistenza libera e dignitosa - nonché di quello della "proporzionalità" - volto a correlare la stessa retribuzione alla quantità e qualità del lavoro prestato, rimanendo di contro l'apprezzamento in concreto dell'adeguatezza della retribuzione riservato al giudice di merito.

Cass. civ. n. 26985/2009

Il potere di emettere una decisione secondo equità ai sensi dell'art. 114 c.p.c. si differenzia dal potere di determinare, nel processo del lavoro, la retribuzione ai sensi dell'art. 36 Cost., atteso che, nel primo caso, la decisione viene adottata a prescindere dallo stretto diritto e presuppone l'istanza delle parti, mentre, nel secondo, non è necessaria alcuna richiesta delle parti e la decisione viene adottata secondo le norme di diritto alla stregua della normativa vigente, con applicazione, in via parametrica, del contratto collettivo di settore di cui non sia possibile l'applicazione diretta e sul presupposto che la retribuzione di fatto corrisposta si appalesa rispondente ai criteri di adeguatezza e proporzionalità posti dalla norma costituzionale. Ne consegue che la sentenza con la quale è stata determinata la giusta retribuzione è appellabile ai sensi dell'art. 339, primo comma, c.p.c.

Cass. civ. n. 14835/2009

Il trattamento economico aggiuntivo attribuito ad un dirigente con il riconoscimento di determinati "benefit" (quali l'attribuzione di buoni mensa, l'uso dell'auto, l'uso di un cellulare) può, in base alle pattuizioni che lo prevedono e alle particolarità del caso concreto, avere sia natura retributiva - qualora il beneficio si riferisca a spese effettuate dal lavoratore per adempiere, sia pur indirettamente, agli obblighi della prestazione lavorativa, risolvendosi in un adeguamento della retribuzione - sia natura risarcitoria - ove l'attribuzione si riferisca a spese che il lavoratore è tenuto a sopportare nell'esclusivo interesse del datore di lavoro, costituendo la reintegrazione di una diminuzione patrimoniale collegata alle modalità della prestazione lavorativa svolta - e il relativo accertamento è riservato al giudice di merito, restando incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivato.

Il valore dei pasti, di cui il lavoratore può fruire in una mensa aziendale o presso esercizi convenzionati con il datore di lavoro, non costituisce elemento integrativo della retribuzione, allorché il servizio mensa rappresenti un'agevolazione di carattere assistenziale, anziché un corrispettivo obbligatorio della prestazione lavorativa, per la mancanza di corrispettività della relativa prestazione rispetto a quella lavorativa e di collegamento causale tra l'utilizzazione della mensa ed il lavoro prestato, sostituendosi ad esso un nesso meramente occasionale con il rapporto.

Cass. civ. n. 13162/2009

Il principio generale secondo cui la retribuzione non spetta in assenza della corrispondente prestazione o della formale relativa offerta si applica anche al rapporto fra livello della prestazione (o della qualifica, che la presuppone) ed adeguata corrispondente retribuzione, nel qual caso deve negarsi la maggiore adeguata retribuzione solo se non vi sia (o non sia stata formalmente offerta) la prestazione di corrispondente livello. Ove, invece, la prestazione con il più elevato livello della connessa qualifica sia stata effettuata, assume rilievo il diverso principio previsto dall'art. 2103 cod. civ., in presenza delle necessarie condizioni normative, salvo che, in presenza di specifiche condizioni, un più elevato livello di qualifica sia separato, per incontestata disposizione del datore di lavoro, dalla maggiore relativa retribuzione e dalla stessa materiale corrispondente prestazione, e sia retroattivamente attribuito, nel qual caso, con la separazione e la retroattiva attribuzione della qualifica, non sussiste il diritto alla contestuale retribuzione corrispondente alla qualifica.

Cass. civ. n. 6225/2009

Poiché il provvedimento di ammissione alla cassa integrazione guadagni ha efficacia costitutiva del rapporto previdenziale e derogatoria della disciplina del rapporto di lavoro, in caso di successivo provvedimento che, respingendo la domanda di rinnovo e prosecuzione del beneficio, disponga la cessazione dello stesso a partire da una determinata data, il datore di lavoro è non
esonerato dagli obblighi retributivi per il periodo compreso tra la cessazione del beneficio ed il provvedimento di diniego ove vi sia stata una sospensione del rapporto di lavoro non addebitatile a colpa del datore di lavoro e sia mancata l'offerta da parte dei lavoratori di riprendere il proprio lavoro con la messa a disposizione delle proprie energie.

Cass. civ. n. 22863/2008

Ove il procedimento disciplinare si concluda in senso sfavorevole al dipendente con l'adozione della sanzione del licenziamento, la precedente sospensione dal servizio - pur strutturalmente e funzionalmente autonoma rispetto al provvedimento risolutivo del rapporto, giacché adottata in via meramente cautelare in attesa del secondo - si salda con il licenziamento, tramutandosi in definitiva interruzione del rapporto e che legittimando il recesso del datore di lavoro retroattivamente, con perdita "ex tunc" del diritto alle retribuzioni a far data dal momento della sospensione medesima. (Nella specie, la S.C., nel rigettare il ricorso, ha confermato la sentenza di merito che, in applicazione del principio su enunciato, aveva ritenuto la validità del licenziamento con decorrenza dalla data della sospensione dal rapporto e, quindi, in epoca anteriore alla richiesta del dipendente - che mai aveva comunicato le sue dimissioni per sopravvenuta inidoneità fisica - di accertamento giudiziale della risoluzione per malattia).

Cass. civ. n. 20316/2008

Al dipendente che sospenda volontariamente l'esecuzione della prestazione lavorativa, finché non provveda a mettere nuovamente a disposizione la stessa, anche se per facta concludentia e senza ricorrere a specifici requisiti formali, determinando una "mora accipiendi" del datore di lavoro, non è dovuta la retribuzione, atteso che, in applicazione della regola generale di effettività e corrispettività delle prestazioni, quest'ultima spetta soltanto se la prestazione di lavoro viene effettivamente eseguita, salvo che il datore di lavoro versi in una situazione di mora accipiendi nei confronti del dipendente. Peraltro, anche a tali fini, l'atto di costituzione in mora - ancorché effettuatile da un terzo, da un "nuncius" o da un rappresentante - configura un atto giuridico in senso stretto a carattere recettizio, sicché deve essere rivolto al datore di lavoro affinché possa risultare formalizzato il rifiuto a ricevere la prestazione. (Nella specie la S.C. ha cassato la sentenza di appello e, decidendo nel merito, ha rigettato la richiesta retributiva dei dipendenti di una Casa di Cura i quali avevano occupato i locali aziendali non rendendo tempestivamente edotto il datore di lavoro della cessazione dell'agitazione).

Cass. civ. n. 19750/2008

Il cosiddetto superminimo, ossia l'eccedenza della retribuzione rispetto ai minimi tabellari, che sia stato individualmente pattuito, è normalmente soggetto al principio generale dell'assorbimento nei miglioramenti contemplati dalla disciplina collettiva, tranne che sia da questa diversamente disposto, o che le parti abbiano attribuito all'eccedenza della retribuzione individuale la natura di compenso speciale strettamente collegato a particolari meriti o alla speciale qualità o maggiore onerosità delle mansioni svolte dal dipendente e sia quindi sorretto da un autonomo titolo, alla cui dimostrazione, alla stregua dei principi generali sull'onere della prova, è tenuto lo stesso lavoratore. (Nella specie, la S.C., nel rigettare il ricorso, ha rilevato che, correttamente, la sentenza di merito aveva disatteso la domanda del ricorrente, secondo il quale andava esclusa la riassorbibilità del superminimo in quanto condizione di miglior favore e diritto acquisito, in quanto sin dall'accordo del 30 maggio 1990, con cui era stato regolato il passaggio dei lavoratori presso il COGEMA, era stata esplicitamente prevista la riassorbibilità dei maggiori trattamenti "ad personam", clausola poi ribadita dalla società in data 22 giugno 1992 e non contraddetta dall'accordo sindacale del 28 marzo 1995, senza che assumesse rilievo - in assenza di ulteriori riscontri - la condotta del datore di lavoro che, in una prima fase, aveva continuato ad erogare l'emolumento aggiuntivo pur in concomitanza dei miglioramento economici contrattuali e legali).

Cass. civ. n. 15070/2008

In mancanza di una diversa previsione della contrattazione collettiva, l'adozione della misura della sospensione cautelare non priva il lavoratore del diritto alla retribuzione, né determina, ove il procedimento disciplinare si sia concluso in senso sfavorevole al dipendente, l'efficacia retroattiva del recesso del datore di lavoro, con conseguente perdita ex tunc della retribuzione dalla data dalla sospensione.

Cass. civ. n. 2872/2008

Le maggiorazioni retributive e le indennità erogate in corrispettivo di prestazioni di lavoro notturno, non occasionali, ma continuative ed organizzate secondo regolari turni periodici, costituiscono parte integrante della ordinaria retribuzione globale di fatto giornaliera e, come tali, concorrono alla composizione della base di computo dei compensi per ferie e festività, dell'indennità di anzianità, del trattamento di fine rapporto ed in genere di quegli istituti retributivi per la cui liquidazione la legge o la contrattazione collettiva facciano riferimento a siffatta nozione di retribuzione globale di fatto. (Nella specie, la S.C. ha confermato sul punto la sentenza impugnata che, interpretando l'art. 18 del C.C.N.L. 31 maggio 1987 per i lavoratori delle autostrade secondo cui il compenso per «l'eventuale» lavoro notturno è elemento solo «aggiuntivo» della retribuzione, ha ritenuto che la disposizione si riferisse al solo lavoro notturno non sistematico).

Cass. civ. n. 19467/2007

In tema di determinazione della giusta retribuzione, il giudice del merito che assuma come criterio orientativo un contratto collettivo non vincolante per le parti, mentre deve prendere in considerazione solo gli elementi e gli istituti retributivi che costituiscono il cosiddetto «Minimo costituzionale » ben può, nella scelta del parametro contrattuale, far riferimento agli importi previsti da un contratto collettivo locale o anche aziendale, pur se peggiorativo rispetto al contratto collettivo nazionale e pur se intervenuto in periodo successivo alla conclusione del rapporto di lavoro di cui trattasi. Ove tuttavia il contratto aziendale sia scaduto e non sia più congruo e sufficiente (come dimostrato proprio dalla sua mancata rinnovazione ) il giudice di merito può escluderne l'utilizzabilità come parametro, facendo per converso riferimento ad altro contratto collettivo di diverso livello.

Cass. civ. n. 10636/2006

Posto che le indennità aventi natura retributiva possono anche svolgere la funzione di compensare particolari disagi o di compensare forfettariamente oneri economici, la qualificazione come retributiva di un'indennità di mensa prevista da un contratto collettivo non esclude che la stessa possa essere correlata alla concreta presenza di determinate situazioni implicanti disagi od oneri. (Nella specie, la S.C., enunciando il riportato principio, ha confermato la sentenza impugnata che aveva escluso il riconoscimento dell'indennità di mensa in favore dei dipendenti delle imprese esercenti servizi postali in appalto sul rilievo della corretta interpretazione delle clausole dell'inerente c.c.n.l. che, indipendentemente dall'attribuzione alla suddetta indennità della natura retributiva, implicavano che la sua spettanza presupponesse la presenza effettiva di determinate situazioni implicanti disagi od oneri, in concreto esattamente ritenuti insussistenti sulla scorta delle specifiche modalità dell'organizzazione lavorativa osservate).

Cass. civ. n. 5496/2006

Anche nel contratto di lavoro subordinato - fermo restando il divieto di unilaterale riduzione della retribuzione di cui all'art. 2099 c.c. è possibile concordare la modifica delle originarie condizioni contrattuali relative agli aspetti retributivi per facta concludentia e ciò anche se il contratto sia stato stipulato per iscritto. (Nella specie, la S.C., enunciando il suddetto principio, ha confermato la sentenza impugnata, con la quale era stata ravvisata l'accettazione del patto di modifica riguardo al sistema di rimborso delle spese di vitto - da quello «a piè di lista» a quello «forfettario» - sulla scorta del comportamento delle parti del rapporto lavorativo, rilevandosi, inoltre, che, in concreto, il protrarsi del nuovo sistema di rimborso per un lungo periodo di tempo e il carattere complessivamente migliorativo del medesimo - alla stregua di quanto congruamente accertato dal giudice di merito - rappresentavano circostanze idonee ad escludere l'unilateralità della rideterminazione del rimborso).

Cass. civ. n. 2245/2006

Alla stregua dell'art. 36, primo comma, Cost. il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. Di conseguenza, ove la retribuzione prevista nel contratto di lavoro, individuale o collettivo, risulti inferiore a questa soglia minima, la clausola contrattuale è nulla e, in applicazione del principio di conservazione, espresso nell'art. 1419, secondo comma, c.c., il giudice adegua la retribuzione secondo i criteri dell'art. 36, con valutazione discrezionale. Ove, però, la retribuzione sia prevista da un contratto collettivo, il giudice è tenuto ad usare tale discrezionalità con la massima prudenza, e comunque con adeguata motivazione, giacché difficilmente è in grado di apprezzare le esigenze economiche e politiche sottese all'assetto degli interessi concordato dalle parti sociali (principio affermato dalla S.C. con riferimento al compenso per lavoro straordinario diurno e notturno previsto dal CCNL dei lavoratori delle aziende municipalizzate di igiene urbana).

Cass. civ. n. 20858/2005

Nel caso di trasformazione in unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato di più contratti a termine succedutisi tra le stesse parti, per effetto dell'illegittimità dell'apposizione dei termini, o comunque dell'elusione delle disposizioni imperative della legge 18 aprile 1962 n. 230, non sussiste, per gli intervalli «non lavorati» tra l'uno e l'altro rapporto, il diritto del lavoratore alla retribuzione, al corrispondente rateo di tredicesima mensilità e la compenso per ferie non godute, mancando una deroga al principio generale secondo cui la maturazione di tali diritti presuppone la prestazione lavorativa, e considerato che la suddetta riunificazione in un solo rapporto, operando ex post non incide sulla mancanza di un effettiva prestazione negli spazi temporali tra contratti a tempo determinato; peraltro, il dipendente che cessa l'esecuzione delle prestazioni alla scadenza del termine previsto può ottenere il risarcimento del danno subito a causa dell'impossibilità della prestazione derivante dall'ingiustificato rifiuto del datore di lavoro di riceverla — in linea generale in misura corrispondente a quella della retribuzione — soltanto qualora provveda a costituire in mora il datore di lavoro ex art. 1217, c.c., non essendo applicabili in via analogica le norme della legge n. 604 del 1966 e l'art. 18, legge n. 300 del 1970 e non potendo neppure ritenersi che non occorra la messa in mora, reputando, in contrasto con gli artt. 1206 e 1217, c.c., che l'offerta della prestazione coincida con l'interesse all'esecuzione ed alla controprestazione.

Cass. civ. n. 5139/2005

In tema di determinazione dei minimi salariali e nel caso in cui il lavoratore chieda l'adeguamento della sua retribuzione ai sensi dell'art. 36 Cost., il giudice deve preliminarmente valutare se sussista l'asserito difetto di proporzionalità e di sufficienza della retribuzione rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato e le primarie esigenze di vita del lavoratore e della sua famiglia, prendendo in considerazione — come statuito dalla Corte Costituzionale, da ultimo, con sentenza n. 470 del 2002 — l'importo globale della retribuzione di fatto percepita e non già isolate componenti della stessa retribuzione. Tale retribuzione costituzionalmente garantita corrisponde, in linea generale, a quella determinata dai contratti collettivi.

Cass. civ. n. 17274/2004

Qualora il giudice di merito, nel fissare i parametri per la retribuzione adeguata ai sensi dell'art. 36 Cost., fa riferimento alla paga base e alla contingenza prevista dalla contrattazione collettiva, fornisce valida giustificazione del criterio equitativo adottato e, in mancanza di specifiche contestazioni, non ha alcun obbligo di motivare in ordine alla pretermissione di altre voci della contrattazione collettiva (nella specie, scatti di anzianità).

Cass. civ. n. 17250/2004

Nel determinare la retribuzione proporzionata e sufficiente, ai sensi dell'art. 36 Cost., il giudice di merito, assunti i minimi salariali indicati dal contratto collettivo nazionale quali parametri di riferimento, può legittimamente, secondo una valutazione non censurabile in Cassazione se non sotto il profilo della logicità e congruità della motivazione, discostarsi da essi in senso riduttivo, tenuto conto di una pluralità di elementi, quali la quantità e qualità del lavoro prestato, le condizioni personali e familiari del lavoratore, le tariffe sindacali praticate nella zona, il carattere artigianale e le dimensioni dell'azienda.

Cass. civ. n. 5934/2004

La particolare garanzia apprestata dall'art. 36 Cost. a tutela del lavoratore subordinato non si riferisce ai singoli elementi retributivi, bensì al trattamento economico globale, comprensivo della retribuzione per lavoro straordinario, come riconosciuto dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 470 del 2002. Pertanto i criteri della proporzionalità e della sufficienza posti dalla citata norma costituzionale a tutela del lavoratore non trovano applicazione in caso di erogazione di un compenso per lavoro straordinario inferiore a quello erogato per l'orario ordinario.

Cass. civ. n. 5519/2004

In tema di adeguamento della retribuzione ai sensi dell'art. 36 Cost., il giudice del merito, anche se il datore di lavoro non aderisca ad una delle organizzazioni sindacali firmatane, ben può assumere a parametro il contratto collettivo di settore, che rappresenta il più adeguato strumento per determinare il contenuto del diritto alla retribuzione, anche se limitatamente ai titoli contrattuali che costituiscono espressione, per loro natura, della giusta retribuzione, con esclusione, quindi, dei compensi aggiuntivi, degli scatti di anzianità e delle mensilità aggiuntive oltre la tredicesima. Ove il giudice del merito intenda discostarsi dalle indicazioni del contratto collettivo, ha l'onere di fornire opportuna motivazione, mentre costituisce specifico onere del datore di lavoro quello di indicare gli elementi dai quali risulti la inadeguatezza, in eccesso, delle retribuzioni contrattualmente previste in considerazione di specifiche situazioni locali o della qualità della prestazione offerta dal lavoratore.

Cass. civ. n. 19123/2003

Ove il datore di lavoro corrisponda ai suoi dipendenti un determinato emolumento, il giudice del merito, al fine di accertare l'obbligatorietà dell'erogazione, deve valutare se quest'ultima — ancorché originariamente corrisposta con carattere di spontanea liberalità, senza essere imposta da alcuna fonte legale né pattizia, sia stata corrisposta continuativamente ad una generalità di dipendenti.

Cass. civ. n. 7843/2003

Il principio generale di effettività e corrispettività delle prestazioni nel rapporto di lavoro comporta che, al di fuori delle espresse deroghe legali o contrattuali, la retribuzione spetti soltanto se la prestazione di lavoro viene eseguita, salvo che il datore di lavoro versi in una situazione di mora credendi nei confronti dei dipendenti. Ne consegue che sono validi, in linea di principio, i patti conclusi tra i lavoratori ed il datore di lavoro per la sospensione del rapporto di lavoro; tali fatti non hanno ad oggetto diritti di futura acquisizione e non concretano rinunzia alla retribuzione, invalida ex art. 2113 c.c., atteso che la perdita del corrispettivo discende dalla mancata esecuzione della prestazione.

Cass. civ. n. 7752/2003

Nel rapporto di lavoro subordinato la retribuzione prevista dal contratto collettivo acquista, pur solo in via generale, una «presunzione» di adeguatezza ai principi di proporzionalità e sufficienza, che investe le disposizioni economiche dello stesso contratto anche nel rapporto interno fra le singole retribuzioni ivi stabilite; ne consegue che, ai fini dell'accertamento dell'adeguatezza di una determinata retribuzione, non può farsi riferimento ad una singola disposizione del contratto che preveda un diverso trattamento retributivo per altri dipendenti, l'eventuale inadeguatezza potendo essere accertata solo attraverso il parametro di cui all'art. 36 Cost., che è «esterno» rispetto al contratto; né può assumere rilievo, ai fini di tale accertamento, l'eventuale disparità di trattamento fra lavoratori della medesima posizione, atteso che non esiste a favore del lavoratore subordinato un diritto soggettivo alla parità di trattamento e che, soprattutto quando il trattamento differenziato trovi il suo fondamento in un dato oggettivo di carattere temporale, l'attribuzione di un determinato beneficio ad un lavoratore non può costituire titolo per attribuire ad altro lavoratore, che si trovi nella medesima posizione, il diritto allo stesso beneficio o al risarcimento del danno. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che — con riferimento all'attribuzione ai lavoratori neoassunti di un salario differenziato con esclusione di alcune voci aggiuntive previste dalla contrattazione collettiva — aveva negato il diritto di questi ultimi di conseguire le differenze retributive richieste).

Cass. civ. n. 11607/2002

La corresponsione di un emolumento nel corso del rapporto di lavoro in favore della generalità dei dipendenti è sufficiente a farlo considerare come elemento della retribuzione, sia per la presunzione di onerosità che assiste tutte le prestazioni eseguite durante il detto rapporto, sia perché un'erogazione liberale da parte dell'imprenditore può giustificarsi solo se occasionale e collegata ad eventi particolari. Pertanto, il premio di fedeltà originariamente corrisposto in modo spontaneo ai dipendenti (nella specie, della Fiat SpA), trasformandosi, per effetto dell'inequivoco comportamento delle parti, (consistente nell'attribuzione della erogazione da parte del datore di lavoro in occasione della maturazione di un servizio pluriennale prestabilito e nella corrispettiva legittima attesa dei lavoratori a conseguirla) in un vincolo obbligatorio, viene privato della natura originaria, conseguendo il carattere di un corrispettivo per la fedeltà della prestazione resa per un numero predeterminato di anni, corrispettivo avente, per effetto del gradimento dei dipendenti, natura di compenso riconosciuto dall'uso aziendale, inserito, come clausola d'uso, nel contratto individuale del quale completa il contenuto in senso modificativo o derogativo in melius della contrattazione collettiva.

Cass. civ. n. 9759/2002

Ai fini del giudizio circa l'adeguatezza della retribuzione ai sensi dell'art. 36 Cost., il giudice del merito deve accertare la natura e l'entità qualitativa e quantitativa delle prestazioni lavorative del dipendente, nonché le effettive esigenze del medesimo e della sua famiglia per un'esistenza libera e dignitosa; a tale scopo può fare riferimento, come espressione parametrica delle condizioni di mercato, al contratto collettivo di categoria, ove questo non sia direttamene applicabile, o ad altro contratto che concerna prestazioni lavorative affini o analoghe.

Cass. civ. n. 10260/2001

Ai fini della determinazione della giusta retribuzione ai sensi dell'art. 36 Costituzione nei confronti di lavoratore dipendente da datore di lavoro non iscritto ad organizzazione sindacale firmataria di contratto collettivo nazionale di lavoro, residente in zona depressa, con potere di acquisto della moneta accertato come superiore alla media nazionale, il giudice del merito può discostarsi dai minimi salariali stabiliti dal contratto collettivo non direttamente applicabile al rapporto, assunto con valore parametrico, accertando che gli effetti della riduzione non comportino risultati di sfruttamento del lavoratore, e, quindi, alla triplice condizione che utilizzi dati statistici ufficiali, o generalmente riconosciuti, sul potere di acquisto della moneta, che tenga conto dell'effetto già di per sé riduttivo della retribuzione contrattuale, insito nel principio del minimo costituzionale, e che, infine, l'eventuale riduzione operata non leda il calcolo legale della contingenza stabilita dalla legge n. 38 del 1986. (Nella specie, la Suprema Corte, in applicazione della massima enunciata, ha annullato la sentenza di merito che, fra l'altro, aveva determinato la retribuzione calcolando il 70 per cento del minimo retributivo «contrattualizzato»).

Cass. civ. n. 7186/2001

Nel caso di illegittima apposizione del termine a un contratto di lavoro, al dipendente che cessi l'esecuzione della prestazione lavorativa alla scadenza del termine previsto non spetta la retribuzione finché non provveda ad offrire la prestazione stessa, determinando una situazione di mora accipiendi del datore di lavoro. Tale principio trova fondamento nella regola generale di effettività e corrispettività delle prestazioni del rapporto di lavoro secondo la quale, al di fuori delle espresse deroghe legali o contrattuali, il diritto alla retribuzione sussiste soltanto in caso di effettivo svolgimento dell'attività lavorativa.

Cass. civ. n. 1018/2001

Rientrano nel concetto di retribuzione e restano soggetti al regime della prescrizione dei crediti di lavoro non solo gli emolumenti corrisposti in funzione dell'esercizio dell'attività lavorativa, ma anche tutti gli importi che, pur senza trovare riscontro in una precisa prestazione lavorativa, costituiscono adempimento di obbligazioni pecuniarie imposte al datore di lavoro da leggi o da convenzioni nel corso del rapporto ed hanno origine e titolo nel contratto di lavoro, mentre ne restano escluse le sole erogazioni originate da cause autonome ovvero da responsabilità del datore di lavoro. Ne consegue che soggiacciono alla prescrizione quinquennale i crediti per le maggiorazioni dovute ai dipendenti, retribuiti a misura fissa, in caso di coincidenza delle festività del venticinque aprile e del primo maggio con la domenica.

Cass. civ. n. 14468/2000

Nel rapporto di lavoro subordinato, l'onere di provare la durata della prestazione, nonché, al suo interno, la misura dell'effettivo impegno lavorativo in termini di giorni e ore, grava sul lavoratore che agisca per il riconoscimento del diritto al pagamento delle retribuzioni o di differenze di retribuzione, salvo che, in presenza di una misura predeterminata e normale delle prestazioni, sia il datore di lavoro ad eccepire il mancato adempimento dei corrispondenti obblighi. (Nella specie non risultava applicabile al rapporto — avente ad oggetto attività di carico, scarico e vendita di carburanti — un contratto collettivo e di conseguenza la S.C. ha escluso in radice la possibile rilevanza della mancata stipulazione in forma scritta di un contratto a tempo parziale, la cui normativa può ritenersi applicabile in assenza di un orario «ordinario previsto da contratti collettivi di lavoro»: cfr. art. 5, comma primo, D.L. n. 726 del 1984, convertito con modificazioni dalla legge n. 863 del 1984).

Cass. civ. n. 14438/2000

Nell'ipotesi di annullamento delle dimissioni presentate dal lavoratore (nella specie, per incapacità naturale), il principio secondo il quale l'annullamento di un negozio giuridico ha efficacia retroattiva non comporta il diritto del lavoratore alle retribuzioni maturate dalla data delle dimissioni a quella della riammissione al lavoro, atteso che la retribuzione presuppone la prestazione dell'attività lavorativa, onde il pagamento della prima in mancanza della seconda rappresenta un'eccezione che, come nelle ipotesi di malattia o licenziamento non sorretto da giusta causa o giustificato motivo, deve essere espressamente prevista dalla legge, a nulla rilevando che le dimissioni siano state immediatamente revocate, giacché le dimissioni producono istantaneamente lo scioglimento del rapporto di lavoro, onde la successiva revoca, in mancanza di consenso del datore di lavoro, non è idonea a ripristinare il suddetto rapporto.

Cass. civ. n. 14395/2000

Non esistendo una generale e onnicomprensiva nozione legale di retribuzione, l'autonomia privata, individuale o collettiva, ben può escludere un determinato compenso dalla base di calcolo di istituti di retribuzione indiretta, ne tale facoltà può essere esclusa per l'indennità per le festività infrasettimanali in quanto il criterio (stabilito per tale emolumento l'art. 5 della legge n. 260 del 1949) della «retribuzione globale di fatto giornaliera comprensiva di ogni elemento accessorio» va riferito alla «retribuzione normale», rimessa alla contrattazione collettiva. (Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che, in applicazione dell'art. 7 C.C.N.L. 21 novembre 1946 e dell'art. 9 C.C.N.L.del 1980, aveva escluso dalla base di calcolo dell'indennità per festività infra-settimanali da corrispondere ad alcuni lavoratori autoferrotranviari le indennità previste dai punti 4 e 5 degli accordi nazionali 6 febbraio 1979 e 21 maggio 1981).

Cass. civ. n. 13941/2000

Il principio della retribuzione sufficiente di cui all'articolo 36 della Costituzione riguarda esclusivamente il. lavoro subordinato e non può essere invocato in tema di compenso per prestazioni lavorative, autonome, ancorché rese, con carattere di continuità e coordinazione, nell'ambito di un rapporto di collaborazione, assimilabili a quelle svolte in regime di subordinazione. (In applicazione di tale principio la S.C. ha confermato la sentenza con cui era stata rigettata la domanda di un messo di conciliazione diretta a conseguire un'equa retribuzione integrativa dei proventi percepiti a titolo di notifica degli atti giudiziari, interpretata dal giudice di merito nel senso che il rapporto fosse prospettato in termini di autonomia).

Cass. civ. n. 11293/2000

Nella determinazione della giusta retribuzione a norma dell'art. 36 Cost., può assumere rilevanza anche l'anzianità di servizio del lavoratore, sul presupposto di una correlazione tra anzianità di servizio e qualità della prestazione resa, e il relativo apprezzamento dà luogo ad un giudizio di merito sul caso concreto, non censurabile in sede di legittimità se non per vizio di motivazione o per violazione di norme di diritto. Ne consegue che l'operato del giudice di merito che, nel determinare la retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro, faccia riferimento ai minimi dei contratti collettivi del settore includendo gli aumenti corrispondenti agli scatti di anzianità, non può considerarsi irrazionale a priori e in sede di giudizio di cassazione la relativa sentenza va confermata se non ne sono dedotti specifici profili di irrazionalità.

Cass. civ. n. 10434/2000

La determinazione da parte del giudice della retribuzione adeguata a norma dell'art. 36 Cost. — al quale scopo le tariffe retributive previste dai contratti collettivi post-corporativi offrono il primario criterio di riferimento non è preclusa ne dall'art. 43 del D.L.vo Lgt. 23 novembre 1944, n. 369, che ha transitoriamente conservato efficacia normativa ai contratti collettivi corporativi, poiché le disposizioni di questi ultimi possono essere disapplicate dal giudice ordinario se contrastano con disposizioni imperative appartenenti ad un livello superiore della gerarchia delle fonti del diritto e, in primo luogo, con precetti costituzionali, né con l'attribuzione di efficacia erga omnes a determinati contratti collettivi di diritto comune mediante decreti presidenziali emanati in base alla delega di cui agli artt. 1 e 7 della L. 14 luglio 1959, n. 741, poiché la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di tutti tali atti aventi forza di legge nella parte in cui non consentono che la sopravvenuta non corrispondenza dei minimi economici da essi previsti alla retribuzione adeguata conferisca al giudice l'esercizio del potere attribuitogli dall'art. 36 Cost. (Corte cost. 6 luglio 1971, n. 156).

Cass. civ. n. 9764/2000

La computabilità o meno di determinati emolumenti ai fini di istituti retributivi indiretti deve essere verificata alla stregua della disciplina collettiva, tenendo presente che il criterio di onnicomprensività della retribuzione, valido solo per determinati istituti di origine legale, non opera neppure come criterio sussidiario, per cui un particolare emolumento è computabile a detti fini in quanto ciò sia espressamente previsto dalla disciplina contrattuale e che il criterio di onnicomprensività, da questa eventualmente adottato in sede nazionale, non è riferibile ad istituti retributivi aggiuntivi introdotti a livello aziendale. (Fattispecie relativa al trattamento retributivo del personale del Servizio nettezza urbana del Comune di Roma assunto dalla azienda municipalizzata Amnu - ora Ama - dopo la relativa istituzione).

Cass. civ. n. 3749/2000

Ove si adotti, quale parametro per la determinazione della giusta retribuzione, un contratto collettivo non vincolante fra le parti, il solo fatto del mancato adeguamento, da parte del datore di lavoro, di indennità accessorie corrisposte al lavoratore ad un aumento pattuito in sede di contratto collettivo non è di per sè significativo né probante di una violazione del principio ex art. 36 Cost., che può essere appurata dal giudice soltanto avendo riguardo al complesso delle voci retributive attribuite al lavoratore e conseguentemente riscontrando l'insufficienza e inadeguatezza di tale importo retributivo globale rispetto al cosiddetto minimo costituzionale rappresentato essenzialmente dalla retribuzione base stabilita dalla contrattazione collettiva non direttamente applicabile e dall'indennità di contingenza (a meno che anche la valutazione di altri istituti contrattuali sia dimostrata essenziale e imprescindibile per rendere la retribuzione adeguata e giusta ai sensi della norma costituzionale).

Cass. civ. n. 13389/1999

I compensi per lavoro straordinario, anche se erogati in misura fissa e continuativa, non entrano - in difetto di una contraria volontà delle parti rigorosamente provata ed accertata dal giudice di merito - a far parte della retribuzione ordinaria; con la conseguenza che il compenso pagato per tale lavoro non rientra nella paga normale da porre a base per la determinazione di tutti gli istituti fissi come le ferie, le festività infrasettimanali, le mensilità aggiuntive. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione del giudice di merito che - interpretando la clausola del C.C.N.L. dei metalmeccanici che prevedeva un tetto massimo di 48 ore settimanali - aveva escluso che tale «tetto» costituisse nell'intento delle parti il normale orario lavorativo)

Cass. civ. n. 11916/1999

È valido l'accordo col quale l'imprenditore e le organizzazioni sindacali pattuiscano, ai fini del ricorso alla Cassa integrazione guadagni, una sospensione del rapporto di lavoro con esonero del datore di lavoro dall'obbligazione retributiva indipendentemente dall'esito della richiesta di concessione dell'integrazione salariale; per l'efficacia di tale accordo è tuttavia indispensabile che i lavoratori interessati abbiano conferito specificamente ai rappresentanti sindacali l'incarico di stipularlo, oppure che provvedano a ratificarne l'operato, trattandosi di accordo che incide immediatamente sulla disciplina dei contratti individuali di lavoro e sui diritti di cui i singoli sono già titolari. Tanto l'incarico che la successiva ratifica possono essere espressi anche mediante comportamenti concludenti, purché si tratti di condotte significative della volontà degli interessati, in quanto l'iscrizione all'associazione sindacale non è atto idoneo a conferirle anche il potere di disporre di diritti acquisiti al patrimonio del lavoratore.

Cass. civ. n. 5046/1999

Gli scatti d'anzianità istituto la cui regolamentazione è rimessa interamente alla volontà delle parti ed esula dalla tutela della retribuzione garantita dall'art. 36 Cost. sono soggetti, non al principio dell'infrazionabilità del periodo di servizio (che, per quanto desumibile dall'art. 2120 c.c., trova applicazione solo per l'indennità di anzianità), bensì a quello dell'assorbimento (desumibile viceversa dai canoni di ermeneutica contrattuale), atteso che l'obbligo del datore di lavoro di corrispondere un elemento aggiuntivo della retribuzione in ragione dell'anzianità di servizio del lavoratore non può fare riferimento che alla durata della permanenza dello stesso lavoratore nella categoria o livello corrispondente alla retribuzione che costituisce base di calcolo degli scatti stessi. Da ciò consegue che, nel caso di progressione del lavoratore ad una categoria o livello superiore, gli scatti non possono essere riportati in cifra o conservati per intero; né rileva l'anzianità nella precedente categoria o livello, a meno che diversamente sia stato previsto dalle parti in maniera espressa, non essendo sufficiente il silenzio tenuto in proposito dalla contrattazione collettiva.

Cass. civ. n. 3235/1999

Atteso che i minimi retributivi fissati dai contratti collettivi di diritto comune sono stabiliti in relazione ad un determinato orario settimanale, ne deriva che la loro utilizzazione come parametro per stabilire l'equa retribuzione di cui all'art. 36 Cost. (in relazione alla qualità e alla quantità del lavoro prestato), non può prescindere dall'orario di fatto osservato dal lavoratore con conseguente riproporzionamento in riferimento a quest'ultimo.

Cass. civ. n. 866/1999

La dichiarazione (ai sensi della legge n. 230 del 1962) d'illegittimità del termine, apposto ad un contratto di lavoro, con conversione ex lege del rapporto in rapporto a tempo indeterminato, comporta la persistenza, dopo la scadenza di quel termine illegittimo, di tutte le contrapposte obbligazioni, compresa quella datoriale di pagamento, alle scadenze legali o convenzionali, delle retribuzioni, senza che sia necessaria un'offerta contestuale della propria prestazione da parte del lavoratore, ai sensi dell'art. 1460 c.c., in presenza del comportamento del datore di lavoro che allontana il lavoratore stesso dall'azienda e poi costantemente ne rifiuta il rientro in azienda, nonostante le contestazioni del dipendente, e senza che neppure occorra un'offerta delle stesse prestazioni secondo le forme dell'art. 1217 c.c., avendo la costituzione in mora del creditore funzione diversa da quella di rendere ammissibile la richiesta di adempimento di un'obbligazione dovuta per la prosecuzione (illegittimamente rifiutata dalla parte inadempiente) di un rapporto di durata a prestazioni corrispettive.

Cass. civ. n. 11137/1998

L'inesistenza di un principio di onnicomprensività della retribuzione comporta che un certo emolumento non possa, in mancanza di una previsione esplicita di legge o di contratto collettivo, essere incluso nella base di calcolo di altri istituti retributivi e che la contrattazione collettiva possa legittimamente escludere determinate voci retributive dalla computabilità ai fini dei vari istituti indiretti, salvo che questi siano regolati da norma imperativa (come nel caso della tredicesima mensilità la cui base di calcolo ex art. 9 dell'accordo interconfederale 27 ottobre 1946, esteso erga omnes con D.P.R. 28 luglio 1960 n. 1070 è costituita dalla retribuzione globale mensile di fatto); restando l'interpretazione della disciplina collettiva di diritto comune riservata al giudice di merito, la cui valutazione è censurabile in sede di legittimità solo per violazione di criteri legali di ermeneutica contrattuale o per vizi di motivazione (nella specie, l'impugnata sentenza, confermata in tale parte dalla Suprema Corte, aveva ritenuto che la contrattazione collettiva dei dipendenti di imprese di navigazione marittima non prevedeva, fino al Ccnl 8 novembre 1991, la regola della computabilità dell'indennità per lavoro notturno prestato a turni avvicendati nella base di calcolo per quattordicesima mensilità, ferie e permessi; tale pronuncia è stata invece cassata nella parte in cui escludeva tale compatibilità nella gratifica natalizia o tredicesima mensilità).

Cass. civ. n. 3218/1998

Con riguardo a rapporto di lavoro intercorso con datore di lavoro non aderente ad una delle organizzazioni firmatarie di un contratto collettivo, è impedito assumere puramente e semplicemente quale parametro di determinazione della giusta retribuzione ex art. 36 Cost. i minimi salariali fissati dal contratto non vincolante per il datore di lavoro, risolvendosi tale utilizzazione nella attribuzione al contratto collettivo di una efficacia erga omnes che non gli appartiene, e non è per contro vietato al giudice di merito, nella determinazione (incensurabile se adeguatamente motivata), della retribuzione proporzionata e sufficiente in base alla cit. norma costituzionale di far riferimento, sempre in via parametrica, agli importi previsti da un contratto collettivo locale o anche aziendale, pur se peggiorativo rispetto al contratto nazionale e pur se intervenuto in periodo successivo alla conclusione del rapporto di lavoro di cui trattasi.

Cass. civ. n. 4224/1997

La determinazione della giusta retribuzione in un importo inferiore ai minimi salariali fissati dalla contrattazione collettiva non può essere giustificata col richiamo alle condizioni del mercato del lavoro relative al luogo in cui la prestazione viene effettuata, atteso che il precetto costituzionale di cui all'art. 36 Cost. è finalizzato ad impedire qualsiasi forma di sfruttamento del dipendente, che è reso possibile proprio dalle condizioni di un mercato depresso.

Cass. civ. n. 974/1997

I trattamenti pensionistici integrativi aziendali hanno natura giuridica di retribuzione differita, ma, in relazione alla loro funzione previdenziale (che spiega la sottrazione alla contribuzione previdenziale dei relativi accantonamenti, disposta — in via di interpretazione autentica dell'art. 12 della legge 30 aprile 1969, n. 153 — dall'art. 9 bis del D.L. 29 marzo 1991, n. 103, aggiunto dalla legge di conversione 1 giugno 1991, n. 166), sono ascrivibili alla categoria delle erogazioni solo in senso lato in relazione di corrispettività con la prestazione lavorativa. Ne discende la non operatività del criterio di inderogabile proporzionalità alle quantità e qualità del lavoro e, più in genere — con particolare riferimento alle pensioni aggiuntive rispetto al trattamento previdenziale obbligatorio — della garanzia dell'art. 36, primo comma, Cost., in relazione all'art. 2099 c.c., perché in materia il parametro di sufficienza ai fini di un'esistenza libera e dignitosa è rappresentato dai livelli di trattamento assicurati dal secondo comma dell'art. 38 Cost. Conseguentemente l'autonomia privata non subisce, in linea generale, limiti alla determinazione del quantum dovuto e dei presupposti e requisiti di erogazione, né al riguardo è invocabile (tanto più per il carattere contrattuale della disciplina) un principio generale di parità di trattamento nel rapporto di lavoro, e neanche può ritenersi pertinente — con particolare riferimento alla esclusione del trattamento integrativo in caso di svolgimento di determinate attività lavorative — il vincolo di destinazione delle somme allo scopo pensionistico, posto dall'art. 2117 c.c. (Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza con cui il giudice di merito aveva ritenuto legittima la clausola contrattuale collettiva escludente il diritto all'erogazione della pensione integrativa in costanza di prestazione di «servizio per aziende di credito», ed aveva interpretato la clausola stessa nel senso che non poneva un obbligo di non concorrenza ai sensi dell'art. 2125 c.c. ed era riferibile anche a prestazioni lavorative autonome a favore di società di gestione di fondi comuni d'investimento, la cui attività all'epoca era appena agli inizi e successivamente era stata espressamente presa in considerazione).

Cass. civ. n. 7379/1996

Per la determinazione della giusta retribuzione ex art. 36 Cost. i contratti collettivi postcorporativi, non direttamente applicabili al rapporto, possono essere utilizzati soltanto quale parametro e quindi con esclusione dell'automatica applicazione degli istituti convenzionali di cosiddetta retribuzione indiretta, quali le mensilità aggiuntive o gli scatti di anzianità, la cui applicazione è subordinata all'esito positivo dell'indagine del giudice (condotta anche tenendo conto del rapporto fra la retribuzione di fatto ricevuta dal lavoratore e quella prevista dal contratto collettivo, nonché delle caratteristiche della prestazione e della situazione personale e familiare del lavoratore stesso) circa la necessità di computare i detti compensi per garantire l'adeguatezza della retribuzione ex art. 36 Cost., dovendo in particolare considerarsi, quanto agli scatti di anzianità, che, ferma l'esclusione di ogni automatismo nella loro applicazione, la giusta retribuzione deve essere adeguata in proporzione all'acquisita anzianità di servizio, atteso che la prestazione di lavoro, di norma, migliora qualitativamente per effetto dell'esperienza.

Cass. civ. n. 10371/1995

Nella determinazione della giusta retribuzione ex art. 36 Cost. del lavoratore assunto con contratto di formazione e lavoro, in assenza di qualsiasi espressa disposizione legislativa o contrattuale in materia, non può escludersi la legittimità del ricorso in via parametrica ai normali trattamenti contrattuali collettivi di diritto comune anziché a quelli propri dello speciale rapporto di apprendistato, giacché mentre l'art. 3 della L. 19 dicembre 1984, n. 863, prevedendo l'applicazione al contratto di formazione e lavoro delle norme sul rapporto di lavoro subordinato, porta ad escludere il ricorso alla diversa e specifica disciplina dell'apprendistato, l'applicazione dei normali parametri retributivi previsti per i lavoratori subordinati di pari livello trova giustificazione nella stessa formulazione della menzionata L. n. 863 del 1984, la quale, a differenza della precedente L. 1 giugno 1977, n. 285, non prevede più nei suddetti contratti una netta separazione fra i tempi di lavoro e i tempi di formazione ma consente l'assorbimento di quest'ultima nei tempi di svolgimento della ordinaria attività lavorativa, considerando non disgiungibile da tale attività la funzione formativa.

Cass. civ. n. 7326/1995

L'arbitrario mutamento di denominazione di un emolumento ad iniziativa di uno dei soggetti del rapporto di lavoro non vale di per sé ad attribuirgli natura e finalità diversa da quelle desumibili dalla sua natura e destinazione, giacché in caso contrario si consentirebbe un'inammissibile frode di una delle parti.

Cass. civ. n. 5826/1995

Attesa l'inesistenza di un principio generale di onnicomprensività della retribuzione, nel caso di istituti retributivi di origine legale o contrattuale, per la cui operatività debba farsi riferimento al parametro costituito dalla retribuzione normale, la base di computo deve essere fissata con esclusione di tutte le erogazioni destinate a compensare le prestazioni che non siano a loro volta qualificabili come normali, anche se fisse e continuative; in particolare le prestazioni rese oltre l'orario normale, anche se il prolungamento del lavoro ha carattere di continuità, eventualmente in osservanza di turni di servizio prestabiliti, restano nondimeno straordinarie, salvo che non sia riscontrabile un patto specifico inteso a qualificare come orario ordinario quello che costituisce prolungamento dell'orario normale stabilito per legge o per contratto.

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Consulenze legali
relative all'articolo 2099 Codice Civile

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

F. C. chiede
martedì 03/10/2023
“Buongiorno,
un cittadino, senza partita iva, apprendista sarto, che attualmente non ha un proprio negozio, al fine di provare alcuni modelli, può esercitarsi, provandoli su altre persone? A queste non pagherà una retribuzione ma gli regalerà il capo di abbigliamento che hanno indossato. Si può fare legalmente? Oppure si nasconde una mancata retribuzione lavorativa? Potrebbe configurarsi come una donazione?
Si può fare sempre senza alcuna limitazione temporale e quantitativa?
Grazie”
Consulenza legale i 09/10/2023
La retribuzione in natura consiste nell’insieme di beni e servizi che il lavoratore riceve e che sono utili per sé o per la sua famiglia. Questo vuol dire che la retribuzione in natura non è una somma di denaro, ma è spesso un bene o un servizio da utilizzare direttamente. Non esiste una definizione legislativa, ma lo stesso codice civile all’art. 2099, comma 3, prevede che “Il prestatore di lavoro può anche essere retribuito in tutto o in parte con partecipazione agli utili o ai prodotti, con provvigione o con prestazioni in natura”.

Il regalo del vestito potrebbe quindi essere considerata una retribuzione in natura, andrebbe, quindi, quantificata e assoggettata alle ritenute fiscali previste.

L’ordinamento, infatti, salvo casi particolari, presume sempre che qualsiasi attività sia svolta a fronte di una retribuzione.

In particolare, se l’attività dovesse essere svolta con una certa regolarità, il regalo del vestito potrebbe essere considerata una retribuzione in natura.

Il rapporto di lavoro, a seconda dei casi, potrebbe configurarsi come una prestazione occasionale di natura autonoma (art. 2222 c.c.) e in tal caso dovrebbe rispettare i limiti retributivi e i relativi adempimenti fiscali.
a) per ciascun prestatore, con riferimento alla totalità degli utilizzatori, a compensi di importo complessivamente non superiore a 5.000 euro;
b) per ciascun utilizzatore, con riferimento alla totalità dei prestatori, a compensi di importo complessivamente non superiore a 10.000 euro.
c) per le prestazioni complessivamente rese da ogni prestatore in favore del medesimo utilizzatore, a compensi di importo non superiore a 2.500 euro.

Per esempio, il medesimo modello non potrebbe fornire la propria opera a fronte di una ricompensa in natura (abiti) superiore 2.500 euro. Superato tale limite sarebbe obbligato ad aprire una partita IVA come modello.

La natura autonoma del rapporto andrebbe in ogni caso messa per iscritto e il rapporto andrebbe normato. Diversamente, il lavoro di modello/a potrebbe anche essere considerato come lavoro subordinato e, quindi, la retribuzione in natura potrebbe essere interpretata come un modo per nascondere un lavoro dipendente non regolarizzato (lavoro nero).

Con riferimento all’apertura della partita iva, per i dipendenti del settore privato non vi è alcun obbligo di comunicazione al datore di lavoro in merito all’apertura di partita IVA. Questo sia per attività di lavoro autonomo di tipo professionale che imprenditoriale. È invece fondamentale rispettare l’obbligo di non concorrenza.


M. C. chiede
venerdì 02/12/2022 - Sicilia
“Buongiorno,
sono un architetto assunto come funzionario tecnico presso l'Agenzia Dogane e Monopoli (Area 3 - F1). In qualità di Ex Ufficiale in Ferma Prefissata della Marina Militare sono stato richiamato in servizio temporaneo (da Ottobre a Dicembre) come Ufficiale di Completamento usufruendo della conservazione del posto garantita dall'art. 48 del CCNL Funzioni Centrali 2016/18 "Servizio militare" (disposizione non disapplicata dal nuovo contratto). Lo stesso articolo, per quanto riguarda il trattamento economico, cita l'art. 1799 del D.Lgs. 66/2010: " Agli ufficiali delle forze di completamento, che sono lavoratori dipendenti pubblici, spettano, in aggiunta alle competenze fisse ed eventuali determinate e attribuite ai sensi del comma 1 (il trattamento economico dell'amminitrazione militare), limitatamente al periodo di effettiva permanenza nella posizione di richiamo, anche lo stipendio e le altre indennità a carattere fisso e continuativo, fatta eccezione per l'indennità integrativa speciale, dovuti dall'amministrazione di origine, che ne assicura la diretta corresponsione all'interessato".

Allo stato attuale l'Agenzia delle Dogane sta continuando a pagarmi lo stipendio così come dettato dalla Contrattazione Collettiva. Il problema oggetto del quesito nasce con l'Amministrazione della Marina. L'Ufficio Stipendi della Base presso cui presto servizio ritiene infatti si applichino nel mio caso le disposizioni del DPCM 23/03/2012 che all'art. 4, per le funzioni direttive/dirigenziali, pone un limite retributivo del 25 % rispetto allo stipendio base dell'amministrazione di provenienza (allego PEC inviatami dallo stesso ufficio con i loro riferimenti normativi).

L'ufficio in questione, sentito via telefono, ritiene si applichino le disposizioni di limite retributivo in quanto come Ufficiale svolgo funzioni direttive/dirigenziali facendo appello all'art. 627 del d.lgs 66/2010 "La carriera degli ufficiali, preposti all'espletamento delle funzioni di direzione, comando, indirizzo, coordinamento e controllo sulle unità poste alle loro dipendenze, ha sviluppo dirigenziale".

Secondo la mia interpretazione la norma non è applicabile nel mio caso in quanto da Ufficiale Inferiore non ho funzione dirigenziale (funzione riservata agli Ufficiali superiori) e nemmeno funzione direttiva in quanto da semplice richiamato temporaneo non ho nessuna unità alle mie dipendenze e/o incarico di comando (Capo Nucleo, Capo Sezione etc.) ma sono un semplice addetto alla progettazione. Per di più, essendo solo un richiamo temporaneo, non sono nemmeno inquadrato nella tabella organica del Comando presso cui presto servizio; le attività di comando e controllo nominate nell'art. 627 sono svolte dai colleghi in servizio permanente.

A dimostrazione di ciò i miei cedolini stipendiali non presentano nessun trattamento accessorio tipico delle funzioni direttive (Indennità Comando, Capo Nucleo, Capo Sezione) ne è mai stato emesso un ordine di servizio interno nei miei confronti con cui si ufficializza una posizione di responsabilità o di direzione.

Alla luce di quanto su detto ho ragione io a pretendere il trattamento disposto dall'art. 1799 del dlgs 66/2010 non ritenendo una semplice definizione generica valida ad inquadrarmi come dipendente con funzione direttiva, dirigenziale o equiparata, o ha ragione l'Ufficio stipendi della Marina?

Grazie, saluti.”
Consulenza legale i 18/12/2022
La circolare n. 8/2012 della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Funzione Pubblica nel commentare il D.P.C.m. 23 marzo 2012 afferma che la ratio della disciplina è quella del contenimento della spesa pubblica, attraverso l’imposizione di limiti alle retribuzioni e a tal fine il d.P.C.m. citato impone vincoli precisi e contiene prescrizioni dettagliate per le pubbliche amministrazioni e per i diretti interessati.

In particolare, l’art. 4 del d.P.C.m. 23 marzo 2012 contiene una disciplina speciale per i pubblici dipendenti che esercitano funzioni direttive, dirigenziali o equiparate, anche in posizione di fuori ruolo o di aspettativa presso ministeri o enti pubblici nazionali, comprese le autorità amministrative indipendenti, che conservano secondo il proprio ordinamento il trattamento economico riconosciuto dall'amministrazione di appartenenza. La norma pone un limite al trattamento che questi dipendenti possono percepire per lo svolgimento dell'incarico presso l'amministrazione nella quale svolgono la funzione, prevedendo che questo trattamento non può essere superiore al 25% dell'ammontare complessivo del trattamento economico riconosciuto dall'amministrazione di appartenenza.

Anche in questo caso, secondo la Circolare citata, la ratio è di contenimento della spesa pubblica, ponendo dei limiti ai trattamenti complessivi percepiti da dipendenti che cumulano la propria retribuzione di origine con emolumenti aggiuntivi corrisposti in virtù dello svolgimento di incarichi presso ministeri o enti pubblici nazionali, comprese le autorità amministrative indipendenti.

In base a quanto stabilito espressamente nel comma 1, la disposizione introduce un limite ulteriore rispetto a quello previsto nell'art. 3 del d.P.C.m. ("fermo restando il limite massimo retributivo di cui all'articolo 3") e, pertanto, i dipendenti che ricadono nel campo di applicazione del menzionato art. 4:
- non possono percepire complessivamente emolumenti superiori al tetto corrispondente alla retribuzione del primo Presidente della Corte di cassazione;
- non possono percepire per l'incarico ricoperto più del 25% dell'ammontare complessivo del trattamento economico riconosciuto dall'amministrazione di appartenenza.

Quanto ai destinatari della disposizione, testualmente il comma 1 fa riferimento al personale che esercita funzioni direttive, dirigenziali o equiparate, anche in posizione di fuori ruolo o di aspettativa.

Secondo la circolare citata, “tali sono le funzioni per le quali i regolamenti di organizzazione o di diretta collaborazione delle amministrazioni interessate prevedono responsabilità di direzione, coordinamento e gestionali, nonché quelle ad esse equiparate dal punto di vista retributivo”.

A parere di scrive, pertanto, tenuto conto della ratio della normativa in esame, il limite del 25% si applica anche al caso di specie, essendo collegato non tanto alla funzione svolta, ma all’ammontare della retribuzione percepita.

Infatti, tralasciando la retribuzione accessoria, a pari grado corrisponde pari retribuzione, indipendentemente dalle funzioni attribuite.

E. C. chiede
giovedì 17/11/2022 - Lombardia
“Buongiorno,

sono un lavoratore dipendente del settore privato. A febbraio 2020 la mia attuale azienda, causa Covid, ha sospeso l'emissione dei buoni pasto previsti da contratto.
Nel giugno 2022 l'azienda ha inviato a tutti i dipendenti una comunicazione nella quale ci informava di quanto segue: "..Inoltre da Ottobre inizieremo a saldare i crediti dei buoni pasto del 2020/2021/2022, ai dipendenti in forza in tale data, in 12 tranches.."
A fine ottobre 2022 ho effettivamente ricevuto la prima tranche come previsto.
Veniamo però al quesito. Ho formalmente presentato le dimissioni qualche giorno fa. Ho diritto al riconoscimento delle ulteriori tranches di buoni pasto mancanti? Oppure non avendo i ticket natura retributiva l'azienda non è tenuta a saldarmi quanto dovuto?

Grazie

Consulenza legale i 24/11/2022
La disciplina relativa ai buoni pasto è contenuta nel regolamento del Ministero dello sviluppo economico n. 122 del 7 giugno 2017. La normativa richiamata definisce il buono pasto come “un servizio sostitutivo di mensa di importo pari al valore facciale del buono” e utilizzabile “esclusivamente dai prestatori di lavoro subordinato, a tempo pieno o parziale, anche qualora l’orario di lavoro non preveda una pausa per il pasto, nonché dai soggetti che hanno instaurato con il cliente un rapporto di collaborazione anche non subordinato”.

La normativa deve, inoltre, essere letta congiuntamente con gli accordi derivanti dalla contrattazione collettiva nazionale che, generalmente disciplinano l’erogazione dei buoni pasto nel proprio settore di riferimento.

Il fine dei buoni pasto è quello di garantire il benessere fisico necessario per la prosecuzione dell’attività lavorativa al lavoratore, obbligato a rendere la prestazione in un orario comprensivo della fisiologica pausa pranzo e in un luogo, la sede di lavoro, diverso dalla propria abitazione.

Tenuto conto di tale finalità, la giurisprudenza, interpellata sul punto, ha ritenuto di qualificare i buoni pasto non già come elementi della retribuzione, né come trattamenti necessariamente conseguenti alla prestazione di lavoro, ma come un beneficio conseguente alle modalità concrete di organizzazione dell’orario di lavoro.

Nella sentenza della Corte di Cassazione n. 14388 del 14 luglio 2016, i giudici hanno ribadito come il “valore del c.d. buono pasto, salva diversa disposizione, non è un elemento della retribuzione concretandosi lo stesso in una agevolazione di carattere assistenziale collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale
Si attribuisce, quindi, ai buoni pasto un carattere assistenziale volto a garantire una finalità conciliativa tra le esigenze dell’organizzazione del lavoro con le esigenze quotidiane del lavoratore.

Data questa premessa, la Corte di Cassazione, nell’ordinanza n. 16135 del 28 luglio 2020, ha addirittura attribuito alla corresponsione del buono pasto una unilaterale revocabilità da parte del datore di lavoro, in tutti quei casi dove non si ravvedano più le condizioni di agevolazione nell’ambiente lavorativo che sono il presupposto per l’erogazione del servizio.

Nel caso di specie, tuttavia, il datore di lavoro non ha revocato l’erogazione dei buoni pasto, ma, anzi, ne ha previsto il saldo in più tranches.

I buoni pasto in questione sono relativi ad un periodo in cui il lavoratore dimissionario prestava ancora la propria attività lavorativa presso l’azienda. Pertanto, sussistevano le condizioni di agevolazione nell’ambiente lavorativo che sono il presupposto per l’erogazione dei buoni pasto.
In altre parole, durante il periodo 2020, 2021, 2022 a cui si riferiscono i buoni pasto il lavoratore ha prestato la propria attività lavorativa e pertanto ha dovuto conciliare le proprie esigenze con quelle dell’organizzazione del lavoro.

Di conseguenza, nonostante i buoni pasto non abbiano natura retributiva, il saldo dei buoni pasto relativi al periodo precedente alle dimissioni deve comunque essere erogato al lavoratore dimissionario.

D. G. chiede
venerdì 28/10/2022 - Puglia
“La mia azienda ha distribuito un premio solo ad alcuni lavoratori senza indicare di che premio si tratta e come ha scelto i lavoratori premiati.
Il premio non è stato previamente concordato a livello sindacale.
Posso agire per richiederlo anche io? In base a quali articoli di legge?”
Consulenza legale i 06/11/2022
I premi, fra i quali i più diffusi sono i premi di produzione, sono generalmente contrattati a livello collettivo, ma possono anche assumere forma individuale. I premi costituiscono il principale oggetto salariale della contrattazione aziendale, periodicamente adeguati e solitamente fissati in cifra uguale per tutti i lavoratori.

Tra le tipologie di premi oggi più diffuse, si trovano i premi di produttività e quelli di redditività.

I premi di produttività sono agganciati ad indicatori quali la qualità e quantità del prodotto, la percentuale degli scarti, il risparmio dei costi o anche l’effettiva presenza del lavoratore in azienda. Essi ricadono nella sfera di dominio e controllo dei lavoratori e costituiscono propriamente forme di retribuzione incentivante dell’impegno lavorativo.

I premi di redditività, invece, sono legati ad indici che denotano il successo dell’impresa sul mercato ed il cui raggiungimento dipende in larga misura da scelte strategiche che esulano dall’impegno dei lavoratori: essi costituiscono un modo di flessibilizzazione della retribuzione e quindi di alleggerimento del costo del lavoro in periodi di difficoltà.

Per quanto riguarda i premi di produttività, è solitamente la contrattazione aziendale a prevedere indici e parametri.

Il parametro di riferimento è spesso collettivo, cosicchè l’aumento retributivo è riconosciuto a tutti i lavoratori dell’azienda o del comparto di attività.

Ma non mancano casi in cui il premio è graduato a seconda dell’inquadramento dei lavoratori.

Ad ogni modo, i premi possono essere corrisposti a un singolo dipendente, a un intero team o dipartimento o anche globalmente a tutti gli impiegati, per il raggiungimento di specifiche metriche o se il lavoro svolto è stato particolarmente di qualità.

Quando vengono corrisposti premi individuali di operosità, assiduità, ecc. hanno funzioni e caratteri simili ai superminimi individuali.

Il caso di specie sembrerebbe rientrare in quest’ultima categoria. Sarebbe da considerare una sorta di superminimo ad personam o per particolari meriti non meglio specificati.

Stante tale considerazione, non avendo ulteriori particolari circa la natura del premio distribuito e alla luce delle informazioni trasmesse, non sembra possibile richiedere il premio in questione.

Nel caso in cui il premio trasmesso fosse previsto dalla contrattazione aziendale, sarebbe possibile richiederlo solo nel caso in cui si rientri nella casistica prevista.

Se, invece, si trattasse di un premio “ad personam”, non si potrebbe richiedere alcunchè. Al limite, nel caso si possieda abbastanza forza contrattuale, si potrebbe contrattarne la corresponsione con il datore di lavoro.

Eventualmente, si potrebbe informare i sindacati della situazione per avviare una contrattazione sindacale sul punto.

Anonimo chiede
martedì 21/09/2021 - Marche
“Oggetto: Superminimo Assorbibile
Il Fatto: Nel 2006 sono stata assunta presso una società di telecomunicazioni inquadrata al 6° livello del contratto metalmeccanico, venendo da una ventennale esperienza in ruoli simili e superiori in aziende del commercio, in sede di colloqui assunzione contrattavo un superminimo quale riconoscimento anzianità ed esperienza pregressa ed altresì professionalità già riconosciuta con relativi superminimi non assorbibili nei precedenti contratti.

Per politiche aziendali mi fu imposta l'assorbibilità del superminimo, dichiarata nel contratto, pur assicurandomi che l'azienda non intendeva praticarla.

Nel marzo 2007 l'aumento contrattuale mi fu riassorbito, ma decisi di non reclamare per non compromettere il rapporto da poco iniziato.

Nel Gennaio 2008 l'aumento contrattuale mi fu nuovamente riassorbito, ed a quel punto reclamai, di qui il successivo aumento non fu riassorbito e l'importo del superminimo venne incrementato del doppio della somma dei precedenti assorbimenti, quale, indennizzo (non dichiarato) di quanto precedentemente assorbito.
Da quel momento fino al 2013 nessun aumento contrattuale fu più assorbito, dal 2014 con un nuovo corso di politiche aziendali che prevede il riassorbimento degli aumenti contrattuali per tutti i dipendenti che superano un determinato importo lordo, il superminimo mi viene sistematicamente assorbito.

Domanda: Nell'ambito e motivazione di politiche aziendali collettive, è legittimo l'assorbimento di un superminimo, concesso in fase contrattuale di assunzione, quale riconoscimento di specifica esperienza e professionalità, nonchè straordinari non retribuiti ?”
Consulenza legale i 27/09/2021
Nel nostro ordinamento vige il principio della assorbibilità del superminimo (ex multis, Cass. 3 dicembre 2015, n. 24643; Cass. 27 marzo 2013, n. 7685; Cass. 29 agosto 2012, n. 14689).
In generale, pertanto, gli aumenti retributivi che vengono stabiliti, a qualunque titolo, dal contratto collettivo, non si sommano al superminimo individuale goduto dal lavoratore ma lo "assorbono", cioè lo riducono in tutto o in parte.

La medesima regola si applica anche nell’ipotesi di aumento della retribuzione base derivante dal riconoscimento di un livello superiore di inquadramento (v., da ultimo, Cass. n. 26017/2018).
Tuttavia, la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che la regola generale dell’assorbimento non trova applicazione nei seguenti casi:
  1. quando le parti del rapporto di lavoro abbiano stabilito che il superminimo non sia assorbibile e questo può risultare:
  • dalla clausola del contratto individuale che preveda la natura non “assorbibile” del superminimo (Cass. 16 agosto 1993, n. 8711);
  • da un comportamento concludente del datore di lavoro che - nonostante la mancanza di un’espressa previsione - abbia in occasione dei precedenti rinnovi contrattuali collettivi sempre adottato la regola del cumulo e non dell’assorbimento (Cass. 29 agosto 2012, n. 14689; Cass. 25 febbraio 1994, n. 1899; recentemente, Tribunale di Mantova, Sez. Lav., n. 96/2020);
  1. Qualora la stessa contrattazione collettiva stabilisca che l’aumento retributivo non assorba i superminimi individuali goduti dai lavoratori (Cass. 18 luglio 2008, n. 20008; Cass. 9 luglio 2004, n. 12788; Cass. 7 agosto 1999, n. 8498);
  2. Nel caso in cui le parti del rapporto di lavoro abbiano attribuito al superminimo la natura di compenso speciale strettamente collegato a particolari meriti o alla speciale qualità o maggiore onerosità delle mansioni svolte dal dipendente. In tal caso, il superminimo non è un generico miglioramento della posizione retributiva del lavoratore, ma ha un titolo (ragione) specifico, e quindi diventa un elemento intangibile della retribuzione (Cass. 9 luglio 2004, n. 12788; Cass. 7 agosto 1999, n. 8498).
Nel caso di specie sembrerebbe essersi verificata l’ipotesi del comportamento concludente del datore stesso che, pur in assenza di un’espressa previsione nel contratto individuale, ha - in più occasioni di rinnovi del CCNL - adottato la regola del cumulo e non quella dell’assorbimento. Inoltre, si potrebbe sostenere che le parti abbiano attribuito all’eccedenza della retribuzione individuale la natura di compenso speciale strettamente collegato a particolari meriti o alla speciale qualità o maggiore onerosità delle mansioni svolte dal dipendente (nel caso di specie, specifica esperienza e professionalità, nonché straordinari non retribuiti). Naturalmente, ciò dovrà essere dimostrato nell’eventuale giudizio dal lavoratore.

In conclusione, si ritiene potersi dimostrare l’illegittimità del comportamento del datore di lavoro che unilateralmente abbia deciso per l’assorbibilità del superminimo.

Preme porre l’attenzione, tuttavia, sulla tematica della prescrizione. Infatti, tutto ciò che viene corrisposto dal datore al prestatore di lavoro con periodicità annuale o infra- annuale - ed, in particolare, i crediti di retribuzione - si prescrive nel termine di cinque anni, secondo il disposto dell'art. 2948, n. 4, c.c.

Tale prescrizione decorre anche nel corso del rapporto nel caso in cui quest’ultimo rientri nel campo di applicazione dell’art. 18. Infatti, la giurisprudenza ha affermato che il principio del differimento all’epoca dell’estinzione del rapporto, della decorrenza della prescrizione non è applicabile tutte le volte che il rapporto di lavoro subordinato sia caratterizzato da una particolare forza di resistenza la quale derivi da una disciplina che assicuri normalmente la stabilità del rapporto e fornisca la garanzia di appositi rimedi giurisdizionali contro ogni illegittima risoluzione.

Pertanto, nel caso in cui si decidesse di agire in giudizio per recuperare il superminimo illegittimamente assorbito si dovrà tenere conto della possibilità che questo possa essere ritenuto prescritto, ad eccezione delle cifre relative agli ultimi 5 anni.


LUIGI O. chiede
venerdì 14/02/2020 - Lazio
“Avvocato, una donna lavora come cassiera in un supermercato. No continuamente ma a periodi alternati.
L’ultimo periodo non è stato pagato. Come recuperare il dovuto? Pignorare la merce? Altro?

Un inquilino (negozio) non paga il fitto, come recuperare il dovuto?”
Consulenza legale i 23/02/2020
Per quanto riguarda il primo quesito, è, innanzitutto, necessario stabilire quale sia il termine ultimo per il pagamento dello stipendio. Generalmente, il pagamento della retribuzione deve avvenire ogni mese, ma possono essere concordati termini diversi, purchè vengano rispettati i termini ultimi stabiliti dal contratto collettivo nazionale (CCNL) di riferimento. Oltre tale data, il datore di lavoro è da considerarsi in mora ed è tenuto a versare gli interessi, in base alle disposizioni legali in corso. Nel caso di specie, dal momento che il CCNL Commercio nulla prevede in merito, si dovrà fare riferimento ad eventuali accordi o consuetudini aziendali. Se con nessuna di tali fonti è possibile stabilire la data di pagamento dello stipendio, questo va accreditato alla fine di ogni mese.

Se l’azienda è in ritardo con il pagamento della busta paga si può, innanzitutto, scrivere un sollecito di pagamento bonario. In questo caso non sarà obbligatorio rivolgersi ad un legale. Il sollecito di pagamento può essere inviato tramite raccomandata A/R, oppure a mano presso un soggetto dell’amministrazione autorizzato a ricevere la posta, oppure attraverso Pec. Il dipendente potrà altresì inviare una lettera di diffida o di messa in mora a firma dell’avvocato con preavviso di azioni legali. La lettera di messa in mora dovrà contenere l’indicazione della mensilità non corrisposta e di cui si richiede il pagamento, i dati necessari al pagamento (anche se l’azienda ne è già in possesso è consigliabile precisare nuovamente gli estremi del conto corrente bancario o postale); l’avvertimento che si ricorrerà per vie giudiziali se il difetto di pagamento supera i 10 giorni, data e firma.

Non esiste un termine minimo entro cui inviare il sollecito di pagamento. In teoria il lavoratore potrebbe inviarlo anche il giorno successivo alla scadenza dell’obbligo di versamento. Tuttavia, sarebbe opportuno concedere un margine di flessibilità all’azienda che potrebbe aver avuto qualche problema amministrativo oppure una carenza di liquidità.
Il termine massimo entro cui inviare la diffida coincide, invece, con i termini di prescrizione di cui all’art. 2948 c.c., ovvero 5 anni che decorrono per giurisprudenza costante dalla cessazione del rapporto.

Oltre al sollecito di pagamento e alla lettera di diffida, il dipendente può intraprendere il c.d. il “tentativo di conciliazione monocratico” di cui all’art. 11, D. Lgs. 124/2004, un procedimento gratuito al quale può accedere ogni lavoratore anche senza il supporto di un avvocato. Il lavoratore si deve recare presso l’Ispettorato territoriale del lavoro (Itl) più vicina e chiedere di compilare il modulo per la richiesta di conciliazione monocratica. L’Itl, mediante un proprio funzionario, anche con qualifica ispettiva, comunica successivamente, sia al dipendente che all’azienda, una data in cui questi dovranno presentarsi personalmente per tentare una conciliazione. Il lavoratore può presentarsi con l’assistenza di un avvocato, il commercialista, il consulente del lavoro o un sindacalista. Se il tentativo di conciliazione non va a buon fine o una delle due parti non si presenta, l’Itl procede, d’ufficio, all’ispezione e, qualora dovesse ritenere che gli stipendi non sono stati effettivamente versati, procede a irrogare pesanti sanzioni all’azienda. L’Itl è chiamato a un primo vaglio di attendibilità della richiesta del dipendente, dimodoché vengano filtrate le istanze palesemente pretestuose, inattendibili o prive di fondamento. Se, invece, la denuncia riguarda irregolarità gravi e incisive, l’Itl procederà all’ispezione.

Un’altra possibilità è che il dipendente proceda con una richiesta di conciliazione in sede sindacale in presenza dei sindacati del lavoratore e dell’azienda. Il relativo verbale rappresenta un titolo esecutivo.

Infine, il dipendente potrà richiedere l’emissione di decreto ingiuntivo da parte del tribunale competente. Tale procedura può essere attivata solo con l’assistenza di un avvocato, presentando il contratto di lavoro. L’ingiunzione verrà emessa dal giudice solo sulla base della prova scritta del credito, senza convocare la controparte. Il decreto emesso verrà notificato all’azienda entro i 60 giorni successivi e il datore di lavoro avrà poi 40 giorni per fare opposizione oppure pagare (anche interessi e rivalutazione monetaria). Se non intraprende nessuna delle due azioni si potrà procedere al pignoramento.

Si precisa che in caso di mancato pagamento dello stipendio il dipendente può interrompere il rapporto di lavoro presentando le dimissioni per giusta causa, senza necessità di preavviso. Con le dimissioni per giusta causa si ha comunque diritto all’indennità di disoccupazione Naspi, non riconosciuta invece ai dipendenti che interrompono senza motivo un rapporto di lavoro.
Tuttavia, non sempre il mancato pagamento dello stipendio giustifica le dimissioni del dipendente. La giurisprudenza ha precisato che per presentare le dimissioni per giusta causa ci deve essere un reiterato inadempimento da parte del datore di lavoro; nel dettaglio questo deve essere in arretrato di almeno due buste paga (Tribunale di Ivrea, n. 150/2017).
Quando le dimissioni del dipendente in caso di ritardo per il pagamento dello stipendio sono previste dal contratto collettivo nazionale queste possono essere presentate anche nel 1° giorno successivo al termine ultimo per il pagamento della retribuzione (Tribunale di Milano, sentenza n°1713/2017).


Per quanto concerne il secondo quesito, in caso di ritardo nel pagamento del canone di locazione, il locatore deve intimare il pagamento del canone mediante una raccomandata con avviso di ricevimento e soltanto a seguito della costituzione in mora così formulata potrà pretendere gli interessi per il ritardo nel pagamento. L’art. 1282, comma II, del codice civile stabilisce che, salvo patti contrari, i crediti per fitti e pigioni non producono interessi se non dalla costituzione in mora, che, ai sensi dell’art. 1219 c.c., si determina soltanto a seguito di intimazione di pagamento fatta per iscritto dal locatore.

Se la diffida non produce alcun effetto, il conduttore può chiedere la risoluzione del contratto attraverso il procedimento di sfratto per morosità ex art. 658 c.p.c.

Di regola è il contratto a stabilire quanti mesi di morosità sono necessari per poter esercitare l'azione di sfratto contro il conduttore (spesso viene previsto che un solo canone non pagato comporti la risoluzione del contratto).
Se il contratto non prevede nulla, si applica l'art. 5 della legge 27 luglio 1978, n. 392, che recita: "Salvo quanto previsto dall'articolo 55, il mancato pagamento del canone decorsi venti giorni dalla scadenza prevista, ovvero il mancato pagamento, nel termine previsto, degli oneri accessori quando l'importo non pagato superi quello di due mensilità del canone, costituisce motivo di risoluzione, ai sensi dell'articolo 1455 del codice civile".
Tale norma, però, riguarda le sole locazioni ad uso abitativo, non applicandosi agli immobili locati per uso diverso.
Per le locazioni non abitative la valutazione dell'importanza dell'inadempimento del conduttore resta affidata, dunque, ai comuni criteri di cui all'art. 1455 c.c. “Salva la facoltà del Giudice di utilizzare come parametro orientativo il principio di cui alla legge n. 392 del '978, art. 5, alla stregua delle particolarità del caso concreto (Cass., sez. VI, 23 giugno 2011, n. 13887)”. Ne deriva, che “La risoluzione del contratto di locazione a uso commerciale per mancato pagamento di canoni e/o oneri accessori, può aversi solo con riferimento a inadempimenti tali da rompere l'equilibrio contrattuale, tenuto conto del complessivo comportamento osservato dal conduttore” (Cassazione civile n. 8076 del 04.06.2002).

Il locatore, tramite un avvocato, deve notificare al conduttore l’intimazione a presentarsi davanti al giudice (competente è il Tribunale del luogo in cui si trova l’immobile ex art. 661 c.p.c.) allo scopo di ottenere l’accertamento dell’inadempimento del conduttore e la condanna al rilascio dell’immobile.
Se il conduttore non si presenta alla udienza o pur presentandosi non contesti la morosità e non si opponga alle richieste del locatore, il giudice nella stessa udienza, verificata la regolarità formale degli atti, convalida lo sfratto per morosità, con il conseguente scioglimento del contratto di locazione per fatto e colpa del conduttore (art. 663 c.p.c.). Contemporaneamente il giudice fissa la data entro la quale l’inquilino deve lasciare libero l’appartamento, normalmente a distanza di un mese o due dalla data della udienza.

Il conduttore può presentarsi in udienza, non contestare la propria morosità ed effettuare il pagamento dei canoni o degli oneri dovuti, maggiorati degli interessi legali e delle spese processuali liquidate in tale sede dal giudice. In questo caso la morosità si considera sanata ed il rapporto di locazione prosegue inalterato tra le parti.

Più complessa è l’ipotesi in cui il conduttore si presenti in udienza e si opponga alle richieste del locatore contestandone la fondatezza, ad esempio negando la morosità e la somma pretesa dal locatore. L’opposizione del conduttore, infatti, obbliga il giudice ai sensi dell’art. 667 c.p.c. a trasformare il procedimento sommario di convalida di sfratto per morosità in un giudizio ordinario, seppure regolato dal rito locatizio, nel corso del quale entrambe le parti dovranno fornire al giudice le prove delle rispettive pretese e che si concluderà con una vera e propria sentenza.

Se l'intimato comparisce e oppone eccezioni non fondate su prova scritta, il giudice, su istanza del locatore, se non sussistono gravi motivi in contrario, pronuncia ordinanza non impugnabile di rilascio, con riserva delle eccezioni del convenuto (art. 665 c.p.c.).

Ai sensi dell’art. 666 c.p.c. “Se è intimato lo sfratto per mancato pagamento del canone, e il convenuto nega la propria morosità contestando l'ammontare della somma pretesa, il giudice può disporre con ordinanza il pagamento della somma non controversa e concedere all'uopo al convenuto un termine non superiore a venti giorni. Se il conduttore non ottempera all'ordine di pagamento, il giudice convalida l'intimazione di sfratto e, nel caso previsto nell'articolo 658, pronuncia decreto ingiuntivo per il pagamento dei canoni”.

Nel caso in cui il conduttore non restituisca spontaneamente l’immobile entro il termine fissato dal Giudice, il locatore dovrà promuovere una procedura esecutiva per riprendere il possesso dell’immobile con l’intervento dell’Ufficiale Giudiziario.
A tale scopo dovrà notificare al conduttore un atto di precetto con l’intimazione di rilasciare l’immobile (art. 605 c.p.c.) entro e non oltre un determinato termine, decorso il quale il locatore potrà richiedere all’Ufficiale Giudiziario di procedere allo sfratto.

Con l’intimazione di sfratto per morosità o con un separato ricorso il locatore può chiedere al giudice di ingiungere al conduttore il pagamento dei canoni di locazione scaduti e di quelli che scadranno fino alla riconsegna dell’immobile, sia che avvenga spontaneamente sia che avvenga a seguito della esecuzione forzata dello sfratto.
Il decreto ingiuntivo costituisce titolo idoneo a procedere in via esecutiva nei confronti del debitore che non adempia spontaneamente il pagamento.

Si sottolinea, tuttavia, che il recupero del credito sarà possibile se il conduttore possiede un patrimonio, mobiliare o immobiliare, che possa essere assoggettato a pignoramento e che sia di valore sufficiente per soddisfare i diritti del locatore.

Giovanni D. V. chiede
giovedì 16/01/2020 - Puglia
“Lo scrivente “ Ispett. Superiore di P.L. dal 24/12/1984 presso il comando del comune ...”, è stato collocato in pensione il 30/05/2019 con la legge 335 ex art. 2 comma 12, dalla commissione medica di verifica di ..., dopo la visita medica del 29/05/2019.
Al sottoscritto è stata riconosciuta l’indennità sostitutiva del preavviso di quattro mesi (Giugno-Settembre) ai sensi degli artt. 2118 e 2121 del codice civile.
Per quanto sopra, visto che non sono stati corrisposti, si chiede:
- Si ha diritto all'indennità di turno e reperibilità, in quanto da oltre vent'anni, si coprono sei notti di reperibilità al mese, si effettua il servizio di turnazione - sei ore la mattina e sei ore il giorno successivo nel pomeriggio?
Certo di una V.s. risposta, con l’occasione, cordialmente saluto.”
Consulenza legale i 21/01/2020
Al quesito deve essere data risposta affermativa.

Il CCNL relativo al personale del comparto funzioni locali prevede infatti sia la corresponsione dell’indennità di turno (art. 23 del vigente CCNL), sia l’indennità di reperibilità (art. 24 del vigente CCNL).

In particolare, l’art. 23 del vigente CCNL prevede per il turno diurno antimeridiano e pomeridiano (tra le 6 e le 22.00) una maggiorazione oraria del 10% della retribuzione. L’indennità è corrisposta solo per i periodi di effettiva prestazione di servizio in turno.

Invece, l’art. 24 del vigente CCNL prevede che la reperibilità sia remunerata con la somma di € 10,33 per 12 ore al giorno. Tale importo è raddoppiato in caso di reperibilità cadente in giornata festiva, anche infrasettimanale o di riposo settimanale secondo il turno assegnato.

Ovviamente il calcolo di quanto spettante dovrà essere fatto in base alla contrattazione collettiva vigente per ogni periodo lavorato.

Tuttavia, si deve considerare che i crediti retributivi dei lavoratori dipendenti pubblici si prescrivono, per giurisprudenza costante (Corte Cost. n. 143/1969, Corte Cost. n. 86/1971, Consiglio di Stato, sez. V, n. 1486/2007), in 5 anni che decorrono dal momento di maturazione del diritto ex art. 2948, n. 4., c.c.

I crediti retributivi dei lavoratori sono inoltre sottoposti ad una concorrente prescrizione, denominata prescrizione presuntiva, in ragione del fatto che essi, salvo prova contraria, si presumono pagati ove sia trascorso un certo lasso di tempo dall'epoca in cui sono sorti. Tale prescrizione è annuale per il diritto dei prestatori alle retribuzioni corrisposte per periodi non superiori al mese (art. 2955, n. 8, c.c.), come nel caso delle indennità di turno e di reperibilità.
Nella specie non si verifica dunque l’estinzione del credito, ma si riscontra unicamente una presunzione legale del suo soddisfacimento che può essere vinta in due modi: attraverso la confessione giudiziale- se cioè il datore ammette in giudizio che l’obbligazione non è stata estinta (art. 2959 c.c.) – oppure tramite il giuramento decisorio che il lavoratore può deferire, sempre nell'ambito di un giudizio, al datore di lavoro, onde accertare se si è realizzata l’estinzione del debito (art. 2960 c.c.).

V. F. chiede
mercoledì 14/02/2018 - Veneto
“il 10% di maggiorazione della retribuzione ordinaria, per quale motivo viene preso a riferimento la retribuzione ordinaria al lordo delle trattenute previdenziali e fiscali, previste dalla legge, invece dal 10% della retribuzione netta effettivamente percepita dal dipendente in ogni periodo di paga.”
Consulenza legale i 20/02/2018
La retribuzione ordinaria lorda è la sommatoria di tutte le competenze dovute quali: retribuzione ordinaria (paga base, contingenza e altri elementi tabellari), straordinari, permessi, ferie, malattia, infortunio, maternità, assenze, tredicesima e quattordicesima.
Il lavoratore subisce delle trattenute relative a: contributi (diversi), tasse, detrazioni, addizionali, rimborsi irpef; che detratte dalla retribuzione lorda totale ci consentono di ottenere la retribuzione netta, vale a dire alla somma che il dipendente incassa a fine mese.

Per determinare la retribuzione netta in busta busta paga bisogna, pertanto, individuare l'imponibile fiscale sottraendo dalla retribuzione lorda i contributi previdenziali a carico del lavoratore (solitamente il 9,1% della retribuzione lorda); successivamente, individuare il salario al netto delle trattenute sottraendo all'imponibile fiscale le trattenute irpef; infine, è possibile ottenere il netto corrisposto in busta paga sommando al salario al netto delle trattenute, gli assegni familiari e altre eventuali voci quali il "bonus Renzi".

Pertanto, l'aumento dello stipendio in busta paga si calcola al lordo perché per il calcolo al netto (volendo mantenere la medesima percentuale di aumento) bisognerebbe considerare una serie di elementi soggettivi del lavoratore (che possono anche variare nel tempo e in relazione alle condizioni familiari oltre che lavorative), quali la contribuzione (che può variare in relazione alle differenti mansioni o differenti orari di lavoro), la conseguente tassazione ordinaria in busta paga (tra cui le varie addizionali locali), l'aliquota dell'IRPEF applicabile allo specifico lavoratore in considerazione anche delle varie detrazioni (ad es. coniuge e/o figli a carico etc.) oltre che degli ulteriori redditi personali e/o familiari, che nel complesso vanno ad incidere in maniera differente su ogni lavoratore anche a parità di percentuale applicata all'aumento dello stipendio lordo.

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