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Articolo 1988 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 26/11/2024]

Promessa di pagamento e ricognizione di debito

Dispositivo dell'art. 1988 Codice Civile

La promessa di pagamento o la ricognizione di un debito [969, 1309, 1870, 2720, 2944, 2966] dispensa colui a favore del quale è fatta dall'onere di provare [2697] il rapporto fondamentale(1). L'esistenza di questo si presume fino a prova contraria [1325 n. 2, [2944](2).

Note

(1) La norma si riferisce all'ipotesi in cui la promessa di pagamento e la ricognizione di debito siano pure, cioè non facciano riferimento al rapporto fondamentale (che è quello dal quale traggono giustificazione). In tal caso esse sono, secondo la tesi dominante, dichiarazioni confessorie, cioè negozi processuali e non sostanziali perché non fanno sorgere un obbligo ma comportano la presunzione del rapporto fondamentale e l'inversione dell'onere della prova (2697 c.c.).
(2) La prova contraria, che può essere fornita anche per testimoni (2721 c.c.), può coprire non solo l'inesistenza ma anche l'invalidità, l'inefficacia o la sopravvenuta estinzione del rapporto sottostante.

Ratio Legis

Secondo la tesi dominante (che vede nella promessa di pagamento e nella ricognizione di debito dichiarazioni confessorie) la norma risponde alla volontà legislativa di agevolare chi riceva l'una o l'altra di tali promesse unilaterali, atteso che tale soggetto non è tenuto a provare il rapporto fondamentale sottostante.

Brocardi

Recognitio nil dat novi

Spiegazione dell'art. 1988 Codice Civile

Il concetto fondamentale dell'articolo secondo la relazione ministeriale. La promessa di pagamento e la ricognizione di debito come negozi giuridici, e non soltanto come prove

Non si possono trascurare le osservazioni che la Relazione mi­nisteriale contiene a proposito di detto articolo: “Nell'articolo 1988 sono riunite la promessa di pagamento e la ricognizione di debito, in quanto appaiono come negozi unilaterali. La disposizione ha preso in esame l'ipotesi che l'una e l'altra non menzionino il rapporto fondamentale, cui si ricolle­gano. L'art. 1988 attribuisce prima facie all'una o all'altra virtù obbligatoria nel senso che il debitore pub essere convenuto in base alla promessa e alla ricognizione, senza che sia necessario provare anche il rapporto fonda­mentale. Come si è detto, spetterà al convenuto richiamarvisi o provarne la mancanza, traendo tutte le possibili difese.

Il caso meritava di essere considerato perché é il solo di promessa obbligatoria non titolata, e perché conveniva di mettere in evidenza meglio di quanto non risultasse per la promessa di pagamento dell'art. 1325 del codice del 1865 che promessa di pagamento e ricognizione di debito non sono e non meritano di essere trattate soltanto come prove, ma soprattutto come negozi giuridici, regolandosi anche dal punto di vista processuale in riguardo alla loro astrattezza dal rapporto fondamentale, che rimane sempre astrat­tezza processuale e non materiale”.

In precedenza, la Relazione, ragionando della causa nei contratti aveva osservato: « La mancanza di causa è ricordata nell'art. 1418 cap. Da questo risulta riaffermato il divieto di costruire negozi astratti, mediante i quali la dichiarazione di volontà risulta separata dalla causa che le sta a base e la giustifica. Nemmeno la promessa di pagamento o la ricognizione di debito danno origine, come si ripeterà, a negozi sostanzialmente astratti. L' una isola la promessa col .suo corrispettivo; l'altra scinde la dichiarazione di cia­scuna parte; ma nell'un caso e nell'altro la dichiarazione non è definitiva­mente staccata dalla ragione giuridica, che l'ha determinata. Ciò è tanto vero che, nello stesso giudizio in cui la controparte fa valere la promessa o la ricognizione, il promittente o il dichiarante sono ammessi a provare l'insussistenza del rapporto fondamentale o il suo venir meno, in modo che il giudice è costretto a costruire il complesso negozio, da cui la promessa o la ricognizione venne stralciata (c. d. astrazione processuale).


L'autonomia del documento. Le impugnative del rapporto sottostante

La parte della relazione trascritta è esauriente per spiegare la ragione e la portata della norma. Questa non codifica alcun principio nuovo e benché, secondo la relazione, mira a detergerei caratteri processuali dalla promessa di pagamento e dalla ricognizione di debito, concerne sempre l'onore della prova. Meglio si direbbe che afferma l'autonomia del documento.
In effetti, il creditore in base all'una o all'altra può chiedere la condanna, senza dare altra dimostrazione del suo credito, che il debitore promette di soddisfare o riconosce; l'origine e la causa del debito non devono essere provate, anche se la promessa o la ricognizione non ne facciano parola. A sua volta il debitore, che vuol provare la sua liberazione nei confronti della promessa o della ricognizione, deve dimostrare che il debito fu successivamente estinto o prescritto o che la promessa o la ricognizione fu fatta per errore o fu estorta, ottenuta con dolo, ecc. Nel caso, per altro, che voglia impugnare il debito per una delle cause di nullità (art. 1418 del c.c.) del rapporto sotto­stante, questo viene in discussione e si verifica così una concentrazione pro­cessuale dell'intero negozio giuridico nelle due fasi per cui è passato della costituzione e della ricognizione. In tal caso la promessa di pagamento o la ricognizione non può valere come convalida (art. 1423 del c.c.).


Rapporto sottostante plurilaterale e gli effetti della promessa o della ricognizione a favore di uno dei creditori. Gli stessi effetti sulle obbligazioni solidali o indivisibili

Se il rapporto sottostante è plurilaterale, la promessa o la ricognizione può avvenire che sia fatta nei confronti di uno dei creditori o dei più, ma non dì tutti. Essa in tal caso opera nei confronti di colui o di coloro a favore dei quali fu rilasciata. Se si tratta però di un debito solidale, il rico­noscimento dello stesso fatto da uno dei debitori in solido non ha effetto riguardo agli altri; se invece è fatto dal debitore nei confronti di uno dei creditori in solido, giova anche altri (art. 1309 del c.c.). Altrettanto è a dire della promessa di pagamento. Gli stessi principi regolano la promessa o la ricogni­zione di prestazione indivisibile che sia tale, tanto per sua natura quanto per il modo con cui è stato considerato dalle parti nel rapporto sottostante (art. 1316 del c.c.)

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

782 Nell'art. 1988 del c.c. sono riunite la promessa di pagamento e la ricognizione di debito in quanto appariscono come negozi unilaterali. La disposizione ha preso in esame l'ipotesi che l'una o l'altra non menzionino il rapporto fondamentale cui si ricollegano. L'art. 1988 attribuisce prima facie all'una ed all'altra virtù obbligatoria, nel senso che debitore può essere convenuto in base alla promessa ed alla ricognizione senza che sia necessario provare anche il rapporto fondamentale. Come si è detto (n. 615), spetterà al convenuto richiamarvisi o provarne la mancanza, traendo tutte le possibili difese. Il caso meritava di essere considerato perché è il solo di promessa unilaterale obbligatoria non titolata; e perciò conveniva mettere in evidenza, meglio di quanto non risultasse per la promessa di pagamento dall'art. 1325 del codice del 1865, che promessa di pagamento e ricognizione di debito non sono o non meritano di essere trattate soltanto come prove, ma soprattutto come negozi giuridici, regolandoli anche dal punto di vista processuale in riguardo alla loro astrattezza dal rapporto fondamentale, che rimane sempre astrattezza processuale e non materiale.

Massime relative all'art. 1988 Codice Civile

Cass. civ. n. 7682/2023

La scrittura privata non autenticata di ricognizione di debito che, come tale, abbia un carattere meramente ricognitivo di un situazione debitoria certa, non avendo per oggetto una prestazione a contenuto patrimoniale, è soggetta ad imposta di registro in misura fissa solo in caso d'uso.

Cass. civ. n. 32787/2022

L'espromissione si distingue dalla promessa di pagamento, disciplinata dall'art 1988 c.c., in quanto, mentre quest'ultima si colloca fra i negozi unilaterali, la prima integra un contratto, caratterizzato dall'incontro delle volonta di chi si pone come nuovo debitore (accanto, e talora al posto, del debitore originario) e chi lo accetta come tale.

Cass. civ. n. 2091/2022

La promessa di pagamento, al pari della ricognizione di debito, non costituisce autonoma fonte di obbligazione, ma ha soltanto effetto confermativo di un preesistente rapporto fondamentale, venendo ad operarsi, in forza dell'art. 1988 c.c., un'astrazione meramente processuale della "causa debendi", comportante una semplice "relevatio ab onere probandi" per la quale il destinatario della promessa è dispensato dall'onere di provare l'esistenza del rapporto fondamentale, che si presume fino a prova contraria e che, oltre ad essere preesistente, può anche nascere contemporaneamente alla dichiarazione di promessa (o trovarsi "in itinere" al momento di questa), ma della cui esistenza o validità non può prescindersi sotto il profilo sostanziale, con il conseguente venir meno di ogni effetto vincolante della promessa stessa ove rimanga giudizialmente provato che il rapporto fondamentale non è mai sorto, o è invalido, o si è estinto, ovvero che esista una condizione ovvero un altro elemento attinente al rapporto fondamentale che possa comunque incidere sull'obbligazione derivante dal riconoscimento.

In tema di ricognizione di debito, ove l'atto ricognitivo provenga da una pubblica amministrazione, lo stesso richiede la forma scritta "ad substantiam" e la prova della sua esistenza e del suo contenuto non può essere fornita né attraverso la confessione, né mediante la testimonianza.

Allorquando l'atto di riconoscimento di un debito provenga da una pubblica amministrazione, l'adempimento della trasmissione dell'atto scritto di ricognizione alla Procura regionale della Corte dei Conti, prescritto dall'art. 23, comma 5, della legge n. 289 del 2002 per le pubbliche amministrazioni nei casi ivi disciplinati, integra un requisito formale e procedimentale della ricognizione di debito, che ne condiziona la validità e l'efficacia e di cui va tratta necessaria evidenza dal documento stesso, in quanto vincolato alla forma scritta, in ordine sia alla previsione dell'invio alla competente Procura regionale della Corte dei Conti che al tempestivo adempimento dell'onere stesso. (In applicazione dell'enunciato principio, la S.C. ha cassato la sentenza con la quale la corte d'appello aveva ritenuto, in una fattispecie di cessione del credito, che fosse onere della debitrice ceduta provare il mancato adempimento della trasmissione ex art. 23, comma 5, della legge n. 289 del 2002, invocando anche il principio di vicinanza della prova, e non, invece, che fosse onere della creditrice cessionaria documentare di avere agito in giudizio sulla scorta di un atto connotato dalla ricorrenza dei requisiti formali e procedimentali richiesti, nella specie, per potersi avvalere della ricognizione di debito "titolata" o, in mancanza, provare il rapporto fondamentale.

Cass. civ. n. 2431/2020

La ricognizione di debito avente data certa anteriore alla dichiarazione di fallimento del suo autore è opponibile alla massa dei creditori, in quanto deve presumersi l'esistenza del rapporto fondamentale, salva la prova - il cui onere grava sul curatore fallimentare - della sua inesistenza o invalidità.

Cass. civ. n. 731/2020

Il mero possessore di un assegno bancario, il quale non risulti prenditore o giratario dello stesso (nella specie, mancante dell'indicazione del beneficiario), non è legittimato alla pretesa del credito ivi contenuto se non dimostrando l'esistenza del rapporto giuridico da cui deriva tale credito, poiché il semplice possesso del titolo non ha un significato univoco ai fini della legittimazione, non potendo escludersi che l'assegno sia a lui pervenuto abusivamente; né l'assegno può comunque valere come promessa di pagamento, ai sensi dell'art. 1988 c.c., atteso che l'inversione dell'onere della prova, prevista da tale disposizione, opera solo nei confronti del soggetto a cui la promessa sia stata effettivamente fatta, sicché anche in tal caso il mero possessore di un titolo all'ordine (privo del valore cartolare), non risultante dal documento, deve fornire la prova della promessa di pagamento a suo favore.

Cass. civ. n. 31879/2019

In materia di titoli di credito, il mero possessore di un assegno bancario che non risulti né prenditore né giratario dello stesso non è legittimato alla pretesa del credito ivi contenuto se non dimostrando l'esistenza del rapporto giuridico da cui deriva tale credito, né l'assegno può valere come promessa di pagamento ex art. 1988 c.c., la quale richiede la certezza del destinatario del titolo, non desumibile dalla mera apposizione della firma del prenditore nella cd. "girata in bianco"; ne consegue che, al fine di fondare l'azione causale, il giratario che invochi la "girata in bianco" è tenuto a fornire la prova che il girante intese trasmettergli i diritti portati dall'assegno (cd. "intentio"), generalmente individuabile nella materiale "traditio" (o in altra modalità di trasmissione del titolo), purché questa sia coerente con la suddetta intenzione e non viziata.

Cass. civ. n. 14773/2019

La rinuncia al vantaggio della dispensa dell'onere della prova del rapporto fondamentale, derivante dall'effetto di astrazione processuale prodotto dalla promessa di pagamento ai sensi dell'art. 1988 c.c., può essere anche implicita, ma richiede una inequivoca manifestazione della volontà abdicativa, la quale è configurabile quando il beneficiario, nell'azionare il credito, deduca, oltre alla promessa di pagamento, il rapporto ad essa sottostante chiedendo "sua sponte" di provarlo, e non anche quando lo stesso promissario formuli tale richiesta istruttoria per reagire alle eccezioni del promittente.

Cass. civ. n. 10215/2019

In tema di insinuazione allo stato passivo, la ricognizione di debito avente data certa anteriore alla dichiarazione di fallimento del suo autore, non determina la presunzione dell'esistenza del rapporto fondamentale, trattandosi di documento liberamente apprezzabile dal giudice al pari di quanto avviene per la confessione stragiudiziale resa ad un terzo, qual'è il curatore fallimentare (Nella specie la S.C. ha cassato con rinvio il decreto del tribunale che aveva ammesso al concorso il credito vantato dalla banca, sulla base del riconoscimento di debito contenuto in una scrittura privata autenticata sottoscritta dal correntista prima dell'apertura del suo fallimento).

Cass. civ. n. 28094/2018

Dal curatore del fallimento non può provenire l'effetto dell'inversione della prova di cui all'art. 1988 c.c. ("la promessa di pagamento o la ricognizione di un debito dispensa colui a favore del quale è fatta dall'onere di provare il rapporto fondamentale"), in quanto il riconoscimento di un debito "deve pur sempre provenire da un soggetto legittimato sotto il profilo sostanziale a disporre del patrimonio sul quale incide l'obbligazione dichiarata, trattandosi di atto avente carattere negoziale". La dichiarazione rilasciata dal soggetto poi fallito non può comunque assumere, nell'ambito dei giudizi relativi allo stato passivo, l'efficacia della confessione stragiudiziale di cui all'art. 2735 c.c., posto che il curatore "rappresenta la massa dei creditori e non il fallito"; nè può essere messo in dubbio che il principio così espresso venga a valere anche per la figura del riconoscimento di debito e in relazione all'inversione dell'onere della prova disposta dalla norma dell'art. 1988 c.c.

Cass. civ. n. 20899/2018

La rinuncia al vantaggio della dispensa dall'onere della prova del rapporto fondamentale, derivante dall'effetto di astrazione processuale prodotto dalla promessa di pagamento ai sensi dell'art. 1988 c.c., può essere anche implicita, ma richiede un'inequivoca manifestazione della volontà abdicativa, la quale è configurabile quando il beneficiario, nell'azionare il credito, deduca, oltre alla promessa di pagamento, il rapporto ad essa sottostante chiedendo "sua sponte" di provarlo, e non anche quando lo stesso promissario formuli tale richiesta istruttoria per reagire alle eccezioni del promittente.

Cass. civ. n. 26334/2016

La ricognizione del debito, prevista dall’art. 1988 c.c., costituisce una dichiarazione unilaterale recettizia che, in virtù di astrazione meramente processuale, esonera dall’onere di provare il rapporto fondamentale soltanto il soggetto al quale è stata indirizzata, a meno che non contenga l’indicazione della “causa debendi”: in tal caso, anche il cessionario del credito, quale successore a titolo particolare nel rapporto obbligatorio oggetto della scrittura ricognitiva, può avvalersi della presunzione correlata alla sua sottoscrizione.

Cass. civ. n. 20689/2016

La ricognizione di debito non costituisce autonoma fonte di obbligazione, ma ha solo effetto confermativo di un preesistente rapporto fondamentale, determinando, ex art. 1988 c.c., un'astrazione meramente processuale della "causa debendi", da cui deriva una semplice "relevatio ab onere probandi" che dispensa il destinatario della dichiarazione dall'onere di provare quel rapporto, che si presume fino a prova contraria, ma dalla cui esistenza o validità non può prescindersi sotto il profilo sostanziale, venendo, così, meno ogni effetto vincolante della ricognizione stessa ove rimanga giudizialmente provato che il rapporto suddetto non è mai sorto, o è invalido, o si è estinto, ovvero che esista una condizione o un altro elemento ad esso attinente che possa comunque incidere sull'obbligazione derivante dal riconoscimento.

La ricognizione di debito può offrire elementi di prova anche nei confronti di un soggetto diverso da quello dal quale proviene ove contenga un espresso riferimento al rapporto fondamentale, del quale il primo sia parte, nonché la menzione di fatti da cui possa evincersi, in concorso con altri elementi istruttori, la dimostrazione della pretesa azionata. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto immune da censure la sentenza impugnata laddove aveva condannato la debitrice della banca controricorrente avvalendosi, oltre che dei contratti di conto corrente tra esse intercorsi, recanti pure l'indicazione del pattuito tasso di interessi per la disponibilità accordata, e delle fideiussioni rilasciate in favore della creditrice, di due lettere ricognitive di debito provenienti dalle garanti e da cui aveva desunto l'ammontare del debito residuo).

Cass. civ. n. 19803/2016

La cambiale può essere utilizzata anche come titolo recante una promessa di pagamento riconducibile alla previsione dell'art. 1988 c.c., ed in tal caso è idonea ad integrare la prova scritta del credito derivante dal rapporto sottostante (nella specie, un contratto di mutuo chirografario) tra il traente ed il prenditore della stessa.

Cass. civ. n. 14993/2016

La ricognizione di debito, come qualsiasi altra manifestazione di volontà negoziale, può risultare anche da un comportamento tacito, purché inequivoco, tale essendo il contegno che nessuno terrebbe se non al fine di riconoscersi debitore, e senza altro scopo se non quest'ultimo. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che aveva ravvisato rinuncia ad avvalersi dell'eccezione di reticenza dell'assicurato, e con essa tacita ricognizione di debito nei suoi confronti, nel comportamento dell'assicuratore contro i danni che si era limitata a far visitare da un medico legale l'assicurato).

Cass. civ. n. 3184/2016

L'accettazione della cessione del credito da parte del debitore ceduto non costituisce ricognizione tacita del debito, trattandosi di una dichiarazione di scienza priva di contenuto negoziale, sicché, il ceduto non viola il principio di buona fede nei confronti del cessionario, se non contesta il credito, pur se edotto della cessione, né il suo silenzio può costituire conferma di esso, perché, per assumere tale significato, occorre un'intesa tra le parti negoziali cui il ceduto è estraneo.

Cass. civ. n. 24710/2015

La ricognizione di debito ha natura di negozio unilaterale recettizio, sicché il suo effetto si verifica solo se la dichiarazione sia indirizzata alla persona del creditore; non ha, pertanto, tale valenza l'atto interno dell'organo di una P.A. (nella specie, la delibera di una giunta comunale) non investito della rappresentanza legale dell'ente.

Cass. civ. n. 22186/2014

La firma apposta dall'avallante ad una cambiale dà luogo esclusivamente ad una obbligazione cartolare, in quanto la promessa di pagamento insita nella sottoscrizione della cambiale sussiste esclusivamente nei rapporti tra emittente e prenditore o fra girante ed il suo immediato giratario, onde solo nell'ambito di tali rapporti opera l'inversione dell'onere della prova di cui all'art. 1988 cod. civ., non anche nei rapporti tra avallante e avallato.

Cass. civ. n. 17193/2014

Nel caso di assegno con clausola di intrasferibilità, e girato in bianco, il giratario può far valere la girata come promessa di pagamento ex art. 1988 cod. civ., ove provi che il girante abbia inteso trasmettergli i diritti provenienti dal titolo e, quindi, dimostri la materiale "traditio" oppure altra modalità di trasmissione coerente con l'intento del girante.

Cass. civ. n. 13243/2014

La dichiarazione "provvederò" o altra simile, resa dal trattario di una cambiale tratta non accettata al notaio o al pubblico ufficiale che procede al protesto e che la riproduce nell'atto pubblico di protesto, non ha natura di negozio cambiario né efficacia di accettazione della cambiale tratta, essendo priva della forma richiesta, nonché contenuta in un atto distinto dal titolo cambiario anche se collegato a quest'ultimo attraverso il foglio di allungamento; essa, tuttavia, ha valore di promessa di pagamento o di riconoscimento di debito ex art. 1988 cod. civ., ed è idonea ad obbligare il dichiarante, salvo che questi non provi il difetto di causa.

Cass. civ. n. 21098/2013

La promessa di pagamento ha il solo effetto di sollevare il promissario dall'onere di provare l'esistenza del rapporto fondamentale, che si presume fino a prova contraria e deve essere, oltre che esistente, valido. Ne consegue che essa è priva di effetti se si accerti giudizialmente che il rapporto non è sorto, è invalido o si è estinto. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di accoglimento di opposizione a decreto ingiuntivo, la cui prova scritta era costituita da un assegno bancario risultato emesso per coprire interessi usurari su una somma oggetto di mutuo, accertando, pertanto, che il rapporto sottostante alla promessa di pagamento era nullo per illiceità della causa, in ragione del combinato disposto degli artt.1321 e 1343 cod. civ.).

Cass. civ. n. 15688/2013

In materia di titoli di credito, il mero possessore di un assegno bancario che non risulti né prenditore né giratario dello stesso (nella specie, sul titolo mancava l'indicazione del beneficiario) non é legittimato alla pretesa del credito ivi contenuto se non dimostrando l'esistenza del rapporto giuridico da cui deriva tale credito, poiché il semplice possesso del titolo non ha un significato univoco ai fini della legittimazione, non potendo escludersi che l'assegno sia a lui pervenuto abusivamente. Né l'assegno può comunque valere come promessa di pagamento, ai sensi dell'art. 1988 c.c., atteso che l'inversione dell'onere della prova, prevista da tale disposizione, opera solo nei confronti del soggetto a cui la promessa sia stata effettivamente fatta, sicché anche in tal caso il mero possessore di un titolo all'ordine (privo del valore cartolare), non risultante dal documento, deve fornire la prova della promessa di pagamento a suo favore.

Cass. civ. n. 13689/2012

La promessa di pagamento, al pari della ricognizione di debito, comporta la presunzione fino a prova contraria del rapporto fondamentale, differenziandosi dalla confessione,che ha per oggetto l'ammissione di fatti sfavorevoli al dichiarante e favorevoli all'altra parte; ne consegue che una promessa di pagamento, ancorché titolata, non ha natura confessoria, sicché il promittente può dimostrare l'inesistenza della causa e la nullità della stessa promessa, e che le particolari limitazioni di prova, poste per la confessione dall'art. 2732 c.c., possono trovare applicazione soltanto ove, nello stesso documento, coesistano una promessa di pagamento (o una ricognizione di un debito) e la confessione.

Cass. civ. n. 6473/2012

La ricognizione di debito e la promessa di pagamento, pur non avendo natura giuridica di confessione, consistendo la prima in una dichiarazione di scienza e la seconda in una dichiarazione di volontà, devono comunque provenire da soggetto legittimato dal punto di vista sostanziale a disporre del patrimonio su cui incide l'obbligazione dichiarata; ne consegue che, con riferimento ad un ente collettivo, non può aversi una promessa unilaterale proveniente da persona non munita dei relativi poteri rappresentativi. (Nella specie, in applicazione dell'enunciato principio, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva riconosciuto valore di ricognizione di debito fatta da una società di capitali ad un assegno bancario emesso da soggetto cui risultava, già in data anteriore all'emissione, revocata la delega ad operare sul conto corrente intestato alla stessa società).

Cass. civ. n. 2104/2012

Il riconoscimento e la ricognizione di debito, che ai sensi dell'art. 1988 c.c. costituiscono dichiarazione unilaterale recettizia, non rappresentano una fonte autonoma di obbligazione, ma hanno soltanto un effetto confermativo di un preesistente rapporto fondamentale. Pertanto, affinché la dichiarazione unilaterale, con la quale ci si riconosca debitori, possa spiegare i suoi effetti, è necessario che sia rimessa direttamente dall'obbligato al creditore, senza intermediazioni e vi sia lo specifico intento del primo di costituirsi debitore del secondo, da ciò conseguendo la sua efficacia nel momento in cui venga a conoscenza del promissario la volontà del mittente di obbligarsi nei suoi confronti. Ne deriva che nessuna presunzione può sussistere a beneficio del preteso promissario nel caso in cui la ricognizione ed il riconoscimento del debito siano avvenuti per interposta persona, restando irrilevante che il documento che li contenga venga ugualmente a conoscenza, seppure indirettamente, del presunto creditore.

Cass. civ. n. 16556/2010

Il possessore di un assegno bancario, in cui non figuri l'indicazione del prenditore oppure cui l'assegno sia stato girato dal primo prenditore o da ulteriori giratari, sia con girata piena che con girata in bianco, ha diritto al pagamento dello stesso in base alla sola presentazione del titolo, senza che, se presentato per il pagamento direttamente all'emittente, questi possa pretendere che il titolo contenga anche la firma di girata di colui che ne chiede il pagamento, applicandosi a tali ipotesi la disciplina dei titoli al portatore.

Cass. civ. n. 5245/2006

In tema di promessa di pagamento e ricognizione di debito, una volta che il debitore abbia fornito la prova dell'inesistenza o dell'estinzione del debito relativo al rapporto fondamentale indicato dal creditore (ovvero dallo stesso debitore, essendone il creditore esentato e non essendo la promessa titolata), spetta a chi si afferma comunque creditore l'indicazione di un diverso rapporto sottostante che giustifichi il credito, in quanto il principio dell'astrazione processuale della causa, posto dall'art. 1988 c.c., che esonera colui a favore del quale la promessa o la ricognizione è fatta dall'onere di provare il rapporta fondamentale, non può intendersi nel senso che al debitore compete l'impossibile prova dell'assenza di qualsiasi altra ipotetica ragione di debito, ulteriore rispetto a quella di cui abbia dimostrato l'insussistenza.

Cass. civ. n. 6191/2005

In tema di promessa di pagamento, i limiti alla prova testimoniale, desumibili dall'art. 2556, primo comma, c.c. (in forza del quale i contratti aventi ad oggetto il trasferimento della proprietà o del godimento di un'azienda debbono essere provati per iscritto), operano solo quando sia dedotto, come fonte di obblighi, direttamente e specificamente il contratto e la parte chieda in giudizio l'accertamento o l'adempimento del suo eredito: Quando, però, la pretesa creditoria si fondi su una promessa di pagamento o su una dichiarazione ricognitiva di debito, in cui la causa non venga neppure enunciata, come il promittente, allo scopo di superare la presunzione di esistenza del rapporto sottostante (art. 1988 c.c.), non incontra alcun limite probatorio, e può provare con testimoni l'inesistenza o l'estinzione del rapporto giuridico assunto a causa della promessa, così il destinatario della promessa medesima può contrastare con qualsiasi mezzo istruttorio i risultati della prova prevista dalla controparte, e, quindi, far ricorso alla prova per testimoni contraria, anche se essa abbia ad oggetto un contratto per cui sia richiesta la forma scritta ad probationem (nella specie, trasferimento di azienda), quale fonte dell'obbligazione cui la deliberazione si riferisce, tenuto conto che, in questa situazione, il contratto stesso viene dedotto solo per esigenze difensive, quale mezzo al fine di consentire alla promessa di pagamento di spiegare i suoi effetti.

Cass. civ. n. 4632/2004

L'atto di riconoscimento di debito non ha natura negoziale né carattere recettizio e non deve essere necessariamente compiuto con una specifica intenzione ricognitiva; tuttavia occorre che esso rechi, anche implicitamente, la manifestazione della consapevolezza del debito e riveli i caratteri della volontarietà. (Nella specie, la sentenza impugnata, confermata dalla S.C., ha escluso che la presentazione all'INPS, da parte di un datore di lavoro, del modello 01/M, contenente il riepilogo delle retribuzioni corrisposte nell'anno precedente ai propri dipendenti, integrasse un riconoscimento del debito contributivo - in quanto tale idoneo ad interrompere la prescrizione - in relazione alle retribuzioni ivi indicate e risultanti di importo superiore a quello mensilmente documentato con i diversi modelli DM 10, in relazione alle quali i contributi erano stati regolarmente versati).

Cass. civ. n. 18311/2003

La ricognizione di debito, al pari della promessa di pagamento, non costituisce autonoma fonte di obbligazione, ma ha soltanto effetto conservativo di un preesistente rapporto fondamentale, realizzandosi ai sensi dell'art. 1988 c.c. — nella cui previsione rientrano anche dichiarazioni titolate — un'astrazione meramente processuale della causa, comportante l'inversione dell'onere della prova, ossia l'esonero del destinatario della promessa dall'onere di provare la causa o il rapporto fondamentale, mentre resta a carico del promittente l'onere di provare l'inesistenza o la invalidità o l'estinzione di detto rapporto, sia esso menzionato oppure no nella ricognizione di debito.

Cass. civ. n. 8515/2003

La promessa di pagamento cosiddetta titolata, cioè facente riferimento al rapporto fondamentale, quale è quella che abbia per oggetto il pagamento del «saldo prezzo» di vendita di un immobile e contenga il riferimento al contratto di compravendita, spiega gli effetti di cui all'art. 1988, c.c., in tema di ripartizione dell'onere della prova, dispensando il promissario dall'onere di provare l'esistenza del rapporto, che si presume fino a prova contraria, ma dalla sua esistenza o validità non può prescindersi sotto il profilo sostanziale, con il conseguente venire meno di ogni effetto vincolante della promessa stessa, se il promettente dimostri che il rapporto fondamentale non è mai sorto, o è invalido, o si è estinto. (Nella specie, la S.C., nell'enunciare il suindicato principio di diritto, ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto provata l'estinzione dell'obbligazione, in quanto il promittente aveva prodotto quietanza liberatoria rilasciatagli dal promissario).

Cass. civ. n. 1831/2001

La ricognizione del debito costituisce una dichiarazione unilaterale recettizia che, in virtù di astrazione meramente processuale, produce l'effetto dell'inversione dell'onere della prova in ordine all'esistenza del sottostante rapporto obbligatorio. La presunzione di esistenza della causa debendi non sottrae il rapporto sostanziale alle norme ed ai patti che lo regolano, e la legge non pone alcuna limitazione alla prova di cui è onerato l'autore della ricognizione: tale prova può riguardare, pertanto, sia l'esistenza o meno del rapporto sostanziale, sia lo specifico contenuto e la causa di questo, sia infine le modalità e le ragioni della eventuale cessazione della vigenza del rapporto o dell'esigibilità del credito.

Cass. civ. n. 15575/2000

La natura di negozio unilaterale recettizio del riconoscimento di debito di cui all'art. 1988 c.c. comporta che l'effetto negoziale della dichiarazione (che determina astrazione processuale della causa debendi ) si verifichi soltanto se detta dichiarazione è indirizzata alla persona del creditore.

La promessa di pagamento, al pari della ricognizione del debito, non costituisce autonoma fonte di obbligazione, ma ha soltanto effetto confermativo di un preesistente rapporto fondamentale, venendo ad operarsi, in forza dell'art. 1988 c.c. - nella cui previsione rientrano anche le dichiarazioni titolate - un'astrazione meramente processuale della causa debendi , comportante una semplice rilevatio ab onere probandi per la quale il destinatario della promessa è dispensato dall'onere di provare l'esistenza del rapporto fondamentale, che si presume fino a prova contraria e che, oltre ad essere preesistente, può anche nascere contemporaneamente alla dichiarazione di promessa (o trovarsi in itinere al momento di questa), ma della cui esistenza o validità non può prescindersi sotto il profilo sostanziale, con il conseguente venir meno di ogni effetto vincolante della promessa stessa ove rimanga giudizialmente provato che il rapporto fondamentale non è mai sorto, o è invalido, o si è estinto, ovvero (come nel caso di specie) che esista una condizione ovvero un altro elemento attinente al rapporto fondamentale che possa comunque incidere sull'obbligazione derivante dal riconoscimento.

Cass. civ. n. 1231/2000

La ricognizione di debito è atto unilaterale recettizio; in mancanza di tale requisito può valere come prova del rapporto debitorio se ha efficienza confessoria.

Cass. civ. n. 6675/1998

La ricognizione di debito non è fonte di obbligazioni nuove ed autonome, in quanto ha un valore meramente confermativo di un preesistente rapporto fondamentale, con il limitato effetto di dispensare colui a cui favore è fatta dall'onere di fornire la prova. Di conseguenza, essa non sottrae il rapporto medesimo alle norma ed ai patti che lo regolano, e — pertanto — non interferisce sull'operatività della clausola compromissoria con la quale le parti abbiano devoluto ad arbitri le controversie ad esso inerenti.

Cass. civ. n. 259/1997

La promessa di pagamento, anche se titolata, non ha natura confessoria, poiché non contiene una dichiarazione di scienza, ma una dichiarazione di volontà intesa a impegnare il promittente all'adempimento della prestazione oggetto della promessa, ma questo non esclude — pur nella distinzione concettuale delle due figure negoziali — che nello stesso documento siano contenute una promessa di pagamento (o la ricognizione di un debito) e la confessione, proveniente dal promittente, di fatti a lui sfavorevoli e pertinenti al rapporto fondamentale (nella fattispecie concreta la questione della identificazione della promessa di pagamento e della confessione si è posta, nel contesto di rapporti nascenti da un contratto di factoring, in relazione alla dichiarazione di accettazione della cessione del credito da parte del debitore ceduto, che aveva sottoscritto dei moduli di notificazione della cessione, recanti l'indicazione di avvenuta regolare, esecuzione delle forniture di cui alle fatture in essi menzionate).

Cass. civ. n. 3173/1993

La promessa di pagamento cosiddetta titolata, cioè facente riferimento al rapporto fondamentale, quale è quella che abbia per oggetto il versamento di una provvigione per attività di mediazione in relazione alla conclusione di un determinato affare, spiega gli effetti di cui all'art. 1988 c.c., in tema di ripartizione dell'onere della prova, solo se non vi sia contrasto sull'interpretazione del rapporto (o, se insorto, venga risolto secondo le comuni regole di ermeneutica negoziale), ed, inoltre, ove il rapporto stesso sia ancora in fieri al momento della formulazione, se il promissario fornisca la dimostrazione del suo perfezionamento; pertanto, se il promittente neghi che il rapporto sia stato eseguito, spetta al promissario dare la prova dell'esecuzione, fornita la quale spetta al promittente provare gli eventuali fatti modificativi o estintivi del rapporto medesimo, ai sensi dell'art. 2697 c.c.

Cass. civ. n. 9480/1991

Con riguardo alla ricorrenza di una promessa unilaterale di pagamento non sussistono limitazioni di carattere probatorio a carico del promissario, il quale, pertanto, si può avvalere della prova testimoniale, anche se questa abbia riferimento ad un rapporto per il quale sia richiesta la prova scritta, tenuto conto che il contratto viene richiamato solo per esigenze difensive, quale mezzo al fine di consentire alla promessa di pagamento di spiegare i suoi effetti e non viene azionato come autonoma fonte dalla quale nasca l'obbligazione dedotta in giudizio.

L'effetto giuridico che si ricollega alla promessa unilaterale di pagamento, sia essa pura o titolata, è l'astrazione processuale della causa debendi , per cui il promissario, agendo per l'adempimento dell'obbligazione, ha soltanto l'onere di provare la ricorrenza di tale promessa e non anche l'esistenza del rapporto giuridico da cui essa trae origine, mentre incombe al promittente l'onere di provare l'inesistenza o l'invalidità o l'estinzione del rapporto fondamentale, sia questo menzionato oppure non nella promessa unilaterale di pagamento.

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Consulenze legali
relative all'articolo 1988 Codice Civile

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C. N. chiede
sabato 29/06/2024
“Il decesso di mio padre ha portato ad ereditare 4/6 di un appartamento (non divisibile) per mia madre (che ne ha tuttora l'usufrutto), 1/6 per me e 1/6 per mia sorella.
I rapporti tra mia madre e mia sorella sono sempre stati e sono ancora pessimi. Ora mia madre è gravemente malata e le sue cure hanno portato ad un esborso, da parte mia, di oltre 17.000 euro.
Mia madre vorrebbe vendermi i suoi 4/6 di eredità, per poter avere dei soldi per rimborsarmi dell'esborso effettuato e anche per evitare di dover lasciare una quota di legittima a mia sorella in quanto i fatti avvenuti tra loro sono stati abbastanza gravi (mia sorella già in passato ha comunque rifiutato di vendere o acquistare quote o tutta la proprietà)
Le mie richieste sono le seguenti:
1) mia madre può vendermi le sue quote ?
2) mia sorella deve essere obbligatoriamente informata di questo tipo di operazione ?
3) mia madre ha 97 anni: quale percentuale di valore dovrebbero avere i suoi 4/6 considerando di acquistare solo la nuda proprietà?
4) mia madre ha già fatto testamento lasciando a mia sorella solo la quota di legittima e a me tutto il resto. Di conseguenza, ha senso dal punto di vista economico procedere ad un'operazione di vendita dei suoi 4/6 a me?
5) un domani, qualora mia madre non ci fosse più, che problemi potrei avere e quali provvedimenti potrò mettere in atto, essendo proprietario (in caso di vendita come sopra esposto) di 5/6 dell'appartamento, persistendo il rifiuto di mia sorella sia all'acquisto sia alla vendita?

Faccio presente che il valore complessivo dell'appartamento, alle quotazioni attuali, potrebbe essere all'incirca di €85.000 circa.

Grazie.”
Consulenza legale i 04/07/2024
La difficoltà maggiore che si presenta per il figlio nel caso in esame è quella di far sì che gli venga riconosciuto il credito discendente dalle somme spese in favore della madre, per le quali risulta indispensabile disporre di documenti atti a comprovarne la sussistenza (quali bonifici bancari o qualunque altro strumento di pagamento tracciabile).
La sussistenza di tale condizione pone a tutti gli effetti il figlio nella posizione di creditore della madre, posizione che si ritiene possa essere meglio tutelata, onde evitare inconvenienti futuri con gli altri eredi, facendo ricorso all’istituto giuridico del riconoscimento di debito.
Costituisce opinione pacifica in giurisprudenza quella secondo cui anche in un testamento olografo può essere contenuto un riconoscimento di debito da parte del testatore; in tal caso la relativa disposizione va interpretata autonomamente dalle altre disposizioni testamentarie e colui che risulta creditore ha possibilità di azionarla autonomamente, perfino prima del decesso di colui che si è riconosciuto debitore (possibilità questa di cui il figlio non sembra avere, comunque, intenzione di avvalersi)

Una siffatta manifestazione di volontà si configura quale dichiarazione di scienza a contenuto patrimoniale e soggiace alle ordinarie regole in tema di riconoscimento del debito ex art. 1988 c.c.
In particolare quest’ultima norma attribuisce a tale dichiarazione rilevanza sul piano processuale, in quanto, mentre di regola il creditore, se intende agire in giudizio contro il debitore per ottenere l’adempimento del proprio credito, ha l’onere di provarne i fatti costitutivi (cfr. art. 2697 del c.c.), colui che può vantare a proprio favore un riconoscimento di debito (così come una promessa di pagamento) è dispensato dall’onere di provare il rapporto fondamentale, ossia di provare il fatto che sta a fondamento del credito vantato (così Cas. 12.10.2018 n. 2554; Cass. 20.042018 n. 9880).

Per dare più forza a tale riconoscimento di debito è anche possibile che nella relativa dichiarazione la madre enunci il fatto costitutivo del debito oggetto di asseverazione (es. “somma dovuta in restituzione di spese per cure affrontate in mio favore”), poiché in questo modo la ricognizione di debito risulta accompagnata dalla confessione del fatto costitutivo del debito stesso, con l’ulteriore conseguenza che, secondo quanto previsto dall’art. 2732 del c.c., la sua efficacia probatoria potrà essere vinta solo dimostrando l’errore di fatto o la violenza che ha determinato la dichiarazione.
Infine, non deve trascurarsi che, sotto il profilo sostanziale, si viene a determinare un’ interruzione della prescrizione del credito ex art. 2944 del c.c..

Ovviamente il riconoscimento del debito da parte della madre non sarà fine a se stesso, in quanto consentirà al figlio che ha affrontato le relative spese di tenerne conto in sede successoria.
Si dice nel quesito che la madre ha redatto testamento olografo con il quale ha manifestato la volontà di lasciare alla figlia la sola quota di legittima in favore della sorella ed al figlio tutto il resto (ovvero quota di riserva e disponibile).
Ebbene, dando per ammesso che il patrimonio relitto dalla madre sia costituito soltanto dai 4/6 in nuda proprietà dell’appartamento in cui vive (in quanto il diritto di usufrutto si andrà ad estinguere con la sua morte), si deve innanzitutto procedere a determinare il valore di tali 4/6.
Utilizzando i diversi calcolatori che si possono trovare online ed inserendo quali parametri per il calcolo l’età della madre (97 anni) ed il valore della piena proprietà pari ad euro 85.000, si determina il valore dell’usufrutto in euro 8.500,00 ed il valore della nuda proprietà dell’intero in euro 76.500,00.
Considerato che la madre ha solo 4/6 di nuda proprietà, il valore di tale quota risulta pari ad euro 51.000,00, ed è su questo valore che vanno determinate le quote di riserva spettanti ai figli.

In particolare, secondo quanto disposto dal secondo comma dell’art. 537 c.c., se il genitore lascia più figli, è loro riservata la quota di 2/3 da dividersi in parti eguali.
Ciò significa che dei 51.000,00 ciascun figlio avrà diritto ad una quota pari 1/3 indiviso.
Trasformando le quote originarie in diciottesimi, alla morte della madre si formeranno le seguenti quote:
figlia 1= 3/18 iure proprio + 4/18 quota di riserva in morte della madre
figlio 2= 3/18 iure proprio + 8/18 in morte della madre (di cui 4/18 quota di riserva + 4/18 quota disponibile).

A questo punto il figlio 2 può reclamare il diritto di credito vantato nei confronti della madre in forza del riconoscimento di debito, con la conseguenza che per la determinazione della quota di riserva tale debito dovrà essere detratto al relictum, secondo quanto disposto dall’art. 556 del c.c..
Il relictum, però, non può essere pari al valore della nuda proprietà, poiché l’usufrutto viene meno con la morte del suo titolare e, dunque, ciò che si trasmette è il diritto di piena proprietà.
Pertanto, i 12/18 a cui la madre aveva diritto sull’immobile risultano avere un valore pari ad euro 56667, mentre i 3/18 di ciascuno dei figli risultano adesso avere un valore in piena proprietà pari ad euro 14.167 ciascuno.

Se ai 56.667 si detrae il credito vantato dal figlio 2 di euro 17000, la quota di riserva della figlia 1 si riduce ad un valore di euro 8815, che, sommati ai 14.167 dei 3/18 spettantele iure proprio, le danno diritto su quell’immobile ad un valore complessivo di euro 22.982, mentre il restante valore di euro 62.018 spetterà al figlio 2.
Tale situazione pone il figlio 2, titolare di una quota di indiscusso maggior valore, nella condizione di chiedere in sede di divisione l’attribuzione dell’intero immobile, anche contro la volontà dell’altra comproprietaria, alla quale dovrà corrispondere un conguaglio in denaro pari al valore della sua quota, ossia di euro 22.982.
In questo modo si potrà evitare di ricorrere alla vendita dalla madre al figlio, la quale peraltro rischierebbe di presentare profili di invalidità in considerazione dell’età avanzata della venditrice.

Alla luce delle considerazioni fin qui svolte si può adesso dare risposta alle singole domande:
  1. la madre può vendere le quote al figlio, ma si sconsiglia la vendita in considerazione dell’età avanzata della venditrice;
  2. la sorella non ha alcun diritto ad essere informata di una eventuale vendita, in quanto questa viene effettuata in favore di uno dei comproprietari e non di un estraneo;
  3. i 4/6 della nuda proprietà della madre hanno un valore di euro 51.000,00;
  4. la vendita può risultare vantaggiosa per acquisire una quota di maggiore consistenza e chiedere l’assegnazione del bene in via esclusiva, con conguaglio in denaro in favore della sorella, nell’ipotesi di eventuale divisione giudiziale;
  5. per la domanda n. 5 vale quanto detto in risposta alla domanda n. 4



Pamela C. chiede
domenica 11/04/2021 - Umbria
“Buonasera avrei bisogno di un chiarimento sul fronte ereditario.
Siamo 2 sorelle e premetto che mio padre ad oggi è ancora in vita. Mi spiego meglio: a suo tempo (2001) diede dei soldi a mia sorella per completare i lavori di casa (intestata a suo marito) quando si è sposata (separazione dei beni) e successivamente altri soldi per acquistare la sua attività. Ho delle scritture private tra mio padre mia sorella e suo marito e gli estratti conti bancari attestanti il trasferimento del denaro. Nelle scritture mia sorella e marito si sarebbero impegnati a restituire le somme ma ad oggi ciò non è avvenuto per problemi economici. Nel 2010 mio padre ha effettuato dei lavori di ristrutturazione sul suo appartamento poiché da lì a breve sarei andata a convivere e io avrei preferito restare accanto ai miei genitori e i soldi per comprare diversamente non li avrebbe dati (al primo piano vivo io mentre lui vive al piano terra) e su accordo puramente verbale me l'ha concesso a titolo gratuito tant'è che sull'appartamento dove abito ci paga l'Imu come seconda casa non essendo registrato. Nel 2011 sono andata a convivere e nel 2016 mi sono sposata e vivo li con la mia famiglia. Volevo capire ai fini dell'eredità come calcolare i soldi dati a mia sorella e se i lavori di ristrutturazione devono essere scalati dalla mia parte di eredità (perché mio cognato sostiene questo). Non essendoci purtroppo buoni rapporti con lui e non avendo papa fatto donazioni o testamento ad oggi volevo capire la situazione che si prospetterà soprattutto per non entrare in conflitto con mia sorella. Dimenticavo che le utenze sono uniche e intestate a mio padre acqua luce e gas ma che in tutti questi anni ho restituito sempre la mia metà e pagato la tassa sui rifiuti per l'appartamento dove abito ad eccezione dell'imu non essendo di mia proprietà l immobile. Grazie Saluti.”
Consulenza legale i 15/04/2021
Analizziamo singolarmente i diversi aspetti della questione che vengono sottoposti all’attenzione.
Il primo di essi riguarda le somme di denaro che il padre ha messo a disposizione della sorella e del genero per le diverse finalità indicate nel quesito.
Sembra evidente che non si tratti di somme donate, ossia elargite per mero spirito di liberalità, bensì di somme date in prestito e che i beneficiari si sono impegnati a restituire.
Per la loro restituzione, tuttavia, si ritiene sussistano delle difficoltà, dovute al fatto che, a prescindere dalla circostanza che non sembra essere stato previsto un termine di riconsegna, dal 2001 ad oggi si suppone non sia stato posto in essere alcun atto formale di diffida, necessario per interrompere la prescrizione e far sì che da quell’atto possa decorrere un ulteriore termine decennale.

Peraltro, qualora le scritture a cui si fa riferimento non dovessero indicare una data certa e ben determinata entro cui restituire la somma, il credito risulterebbe privo del requisito della esigibilità e non ci si potrebbe avvalere del c.d. procedimento monitorio, per mezzo del quale ottenere un decreto ingiuntivo, in forza del quale eventualmente e successivamente aggredire il patrimonio dei debitori.

Quindi, il primo passo che si consiglia di compiere, considerando che il proprio padre è ancora in vita, è quello di convincerlo a farsi sottoscrivere dalla figlia (magari non dal genero) un atto di riconoscimento di debito, nel corpo del quale richiamare le scritture private già sottoscritte, preoccupandosi questa volta di apporre un termine per la restituzione, anche se magari quel termine non dovesse essere rispettato.
Con tale scrittura privata di “riconoscimento di debito” non soltanto ci si pone nella condizione di non vedersi eccepita la prescrizione ex art. 2946 del c.c., ma soprattutto si rimedia all’eventuale mancanza di una data di restituzione, che rende, come detto prima, immediatamente esigibile il credito alla sua scadenza.

Per quanto concerne, invece, la situazione relativa all’appartamento utilizzato dal 2011 da chi pone il quesito, occorre distinguere l’aspetto attinente ai lavori di ristrutturazione effettuati dal padre da quello relativo al diritto di abitarvi che lo stesso padre ha concesso alla figlia.
In ordine ai lavori di ristrutturazione, è fuor di dubbio che il cognato non è legittimato ad avanzare alcuna pretesa nei confronti di chi di fatto ha abitato e continua ad abitare l’appartamento, in quanto si tratta di lavori eseguiti dal proprietario (il padre) su immobile di sua esclusiva proprietà, dai quali dunque ne può derivare un miglioramento ed una maggiore valorizzazione in termini economici a vantaggio esclusivo di chi ne ha il diritto di proprietà (e non certo di chi semplicemente si limita ad utilizzarlo).

Diverso, invece, è il discorso per quanto concerne la disponibilità di quell’immobile che il padre ha concesso ad una sola delle figlie, per abitarvi con la propria famiglia.
Si tratta di un tema di cui si è per la verità occupata la Corte di cassazione in diverse occasioni, in quanto in casi come questo ci si chiede se la messa a disposizione a titolo gratuito di un bene immobile in favore di uno dei figli (fattispecie senza dubbio riconducibile al contratto di comodato) possa costituire una donazione indiretta, rilevante ai fini della collazione e quindi della divisione dell’eredità nonché della eventuale riduzione delle disposizioni lesive.
Al riguardo, sebbene sia consolidato l’orientamento secondo cui l’arricchimento procurato dalla donazione non possa essere identificato con il vantaggio che il comodatario trae dall’uso personale e gratuito della cosa comodata (in tal senso Cass. Civ., 16 novembre 2017, n. 27259; Cass. Civ., 9 agosto 2016, n. 16803; Cass. Civ., 23 novembre 2006, n. 24866.), esiste tuttavia una decisione di merito (App. Milano, 17 dicembre 2004), supportata anche da parte della dottrina, che ha ravvisato nel comodato una liberalità indiretta, criticando la visione che collega l’impoverimento del patrimonio del comodante al solo dare e non anche al fare, e facendosi rilevare che anche il fare può essere ricondotto alla donazione (un esempio sarebbe proprio il comodato).

In particolare, è stato precisato che il comodato configurerebbe un’ipotesi di liberalità non donativa, il cui oggetto va identificato con la somma di denaro, riferita al momento dell’apertura della successione, corrispondente all’insieme dei canoni che il comodatario avrebbe percepito, secondo il valore di mercato, ove avesse locato il bene.
E’ sotto quest’ultimo profilo che possono venire in rilievo i lavori di ristrutturazione eseguiti dal padre, in quanto sembra evidente che tali lavori, avendo comportato un miglioramento dell’immobile, ne hanno accresciuto non soltanto il valore di mercato, ma anche il suo valore in termini di canone di locazione ricavabile dallo stesso.

Pertanto, sulla scorta di quanto fin qui detto e visto sotto il profilo successorio, può dirsi che colei che pone il quesito si trova allo stato attuale in una posizione deteriore, in quanto sembra essersi prescritto il diritto del padre di pretendere la restituzione delle somme prestate all’altra sorella ed al di lei marito, mentre questi ultimi, al momento dell’apertura della successione (e solo allora), potrebbero reclamare le somme indirettamente donate alla figlia che ha avuto in comodato l’immobile del padre, quantificabili in misura pari ai canoni di locazione che il comodatario avrebbe percepito da quell’immobile.
Tali somme, però, non possono essere reclamate puramente e semplicemente, ma soltanto ai fini di un’eventuale azione di riduzione, volta a far rientrare fittiziamente nel patrimonio del de cuius le somme di cui questi ha disposto in vita a titolo di donazione diretta o indiretta, per calcolare ex art. 556 del c.c. la quota di cui il defunto poteva liberamente disporre e, conseguentemente, stabilire se vi sia stata o meno lesione di legittima.

Pertanto, ritornando a quanto detto prima, ciò che può consigliarsi, al fine di evitare problemi futuri, è di invitare il proprio padre a redigere prima possibile con la sorella una scrittura privata di riconoscimento di debito, in modo che le somme alla stessa consegnate possano essere in futuro conteggiate come debiti ereditari, da compensare con eventuali somme di cui chi pone il quesito ha potuto beneficiare per aver goduto gratuitamente dell’immobile in cui vive dal 2011.

Per quanto concerne le somme dovute per consumi di acqua, luce e gas, di cui risulta debitore soltanto il padre nella qualità di intestatario delle relative utenze, si consiglia di anticipare eventuali azioni sconsiderate dell’altra sorella (ed in particolare del cognato) provvedendo a redigere con il padre una scrittura privata, in cui lo stesso riconosce di aver regolarmente riscosso dalla figlia la metà di quelle somme dalla data del 2011 a quella di sottoscrizione, mentre per il futuro sarebbe opportuno farsi rilasciare quietanza dal padre dei versamenti che vengono di volta in volta effettuati.
Per l’IMU, invece, non si pone alcun problema, in quanto l’occupante non è in ogni caso soggetto passivo IMU.


DE S. R. chiede
sabato 05/12/2020 - Lombardia
“A seguito di un’asta, nel novembre del 2018, ero stato assegnatario di un immobile facente parte di un Condominio.
Nell’OdG di una assemblea straordinaria, l’amministratore indicava tra altri il punto “Richieste di pagamento di Sogeco SpA per interventi di manutenzione effettuati”.

A richiesta di avere copia dei documenti relativi a tale richiesta, l’amministratore rispondeva di nulla avere al riguardo, sperando che Sogeco presentasse all’assemblea i documenti (per inciso, Sogeco S.p.A. è una inquilina di un condomino, che rappresenta sempre il medesimo in assemblea).

Alla riunione del 25.11.2019, Sogeco ha presentato una nota denominata “Consuntivo interventi eseguiti da Sogeco presso il Condominio – periodo 2009-2019” (allegato 1) con generiche indicazioni di interventi di manutenzione, che avrebbe realizzato sino al 2017, per € 107.080,00, nonché di analoghi interventi di manutenzione, oltre che per interventi di elettrificazione e manutenzione sul cancello carraio, installazione illuminazione esterna, etc.., che avrebbe realizzato negli anni 2018-2019, per € 36.908,50.

Sul punto, nel silenzio dell’amministratore, chiedevo di poter esaminare detta nota e nulla veniva discusso o deliberato e, con successiva pec all’amministratore, facevo presente di avere esaminato il documento, e che, a prescindere dalla genericità dello stesso (non si capiva se e quando gli intervenuti descritti sarebbero stati effettuati), domandavo ad esso amministratore quando mai avesse conferito l’incarico a Sogeco per tali interventi e come mai non fossero stati oggetto di un preventivo e neppure fossero mai stati indicati nei rendiconti annuali (preventivi e consuntivi) delle spese di gestione condominiale.

L’amministratore non mi dava alcuna risposta, né mi forniva documentazione, peraltro, nell’indire l’ultima assemblea ordinaria, ha posto nuovamente all’OdG la richiesta di Sogeco e ha altresì aggiunto altro punto, avente ad oggetto “Esame preventivi di sistemazione del lastrico solare, scarichi di gronda e pluviali. Discussione e delibere conseguenti.”

Ho chiesto all’amministratore di poter accedere presso di lui per prendere visione dei documenti relativi a detti punti, ma mi ha fatto rispondere da un legale che non poteva consentire accessi al suo studio per l’emergenza Covid e che avrebbe fornito i chiarimenti del caso in sede di riunione assembleare.

Ho fatto presente a detto legale che, se anche non poteva consentire l’accesso, quanto meno l’amministratore avrebbe dovuto mandarmi la copia dei documenti relativi a ciò su cui avremmo dovuto discutere, ma nulla mi era stato inviato, di talché ho fatto presente che, se anche avessi partecipato alla riunione, mi sarei opposto alla trattazione di argomenti sui quali non avevo avuto modo d’informarmi.

Infatti non ho partecipato, ciò non di meno, l'assemblea ha, all'unanimità, deliberato, con circa 860 millesimi, di riconoscere a Sogeco S.p.A., per gli esercizi 2018/2020 (quindi su una richiesta aggiornata, rispetto alla precedente che si riferiva al 2018-2019) niente meno che l’importo di € 40.000,00 oltre iva.

Altresì l’assemblea deliberava di assegnare a Sogeco (che, vedi caso, avrebbe presentato il preventivo più basso) i lavori di videoispezione dei pluviali, per € 5.856,00, prodromici alla valutazione degli altri lavori da eseguire sul lastrico, da addebitarsi secondo le nuove tabelle millesimali, deliberate nella stessa riunione.

Le tabelle in questione mi attribuiscono 106,03 millesimi generali, ma, per una separata tabella, relativa al solo lastrico solare, del quale sarei proprietario, mi vengono attribuiti 517,18 millesimi.

Più corretto sarebbe dire che del lastrico avrei l’uso esclusivo, giacché, ancorché il lastrico mi risulti assegnato dal provvedimento del Tribunale, ho esaminato gli atti di provenienza, rilevando che, alla nascita del condominio, ossia quando l’unico proprietario aveva frazionato ed effettuato la prima cessione di una porzione d’immobile, non risultava specificato che il lastrico solare, normalmente da considerarsi parte comune, rimanesse di proprietà dell’originario proprietario, quindi detto lastrico doveva (e dovrebbe) essere considerato parte comune, nel mentre l'attribuzione in uso esclusivo al sottoscritto potrebbe dedursi, implicitamente, dalle tabelle millesimali previgenti, approvate assieme al regolamento condominiale contrattuale, che non prevedeva una tabella separata, ma, nell'unica tabella generale, mi attribuiva esclusivamente al sottoscritto, per il lastrico, dei millesimi sulla base di un coefficiente del 10% sulla superficie dello stesso.

Nella attuale separata tabella, comunque, del lastrico mi vengono attributi 517,58 millesimi: l’amministratore ha posto, quindi, a mio carico, un importo di € 3.972,63 (quindi nientemeno che il 67,84% della spesa), considerando che mi compete 1/3 della spesa, in quanto proprietario del lastrico, oltre a 517,58 millesimi dei restanti due terzi della stessa.

Posti i fatti, voglio considerare che può anche essere che Sogeco avesse effettuato degli interventi di manutenzione su parti condominiali (ma non ho modo di verificare né il numero, né la quantità, né la congruità dei prezzi esposti), ma, se ciò aveva fatto, era evidentemente nel proprio interesse, essendo l’inquilina di uno dei Condomini ed avendo, più di tutti gli altri, utilizzato le parti comuni, ivi comprese la strada interna ed il cancello d’accesso, tanto è vero che quest’ultimo è allacciato alla linea elettrica di Sogeco, perché l’amministratore non ha mai provveduto a fare un allacciamento per le parti condominiali.

Appena il caso di osservare che, in assemblea, 560 millesimi (320 la proprietà di cui è inquilina Sogeco e 240 altra proprietà latistante), sugli 840 millesimi presenti, erano rappresentati dall’amministratore unico di Sogeco, di talché non potevano esservi dubbi sul fatto che questi avesse interesse ad approvare simili deliberazioni, né il mio eventuale voto dissenziente, di soli 103 millesimi, avrebbe potuto ostacolarne l’approvazione.

Però, mi domando:
1) E’ legittimo che io non fossi stato neppure messo in condizione di partecipare in modo informato alla riunione? Oppure tale circostanza rende illegittima la deliberazione, perché mi si è di fatto impedito di verificare il fondamento delle richiesta di Sogeco e quindi, alla luce delle stesse, eventualmente argomentare e, ipoteticamente, convincere i presenti a votare diversamente.

2) L’assemblea poteva legittimamente deliberare l’assunzione di un debito per spese di esercizi precedenti, mai previste dai rendiconti preventivi e consuntivi, sulle quali l’amministratore non aveva dato alcun preavviso e sulle quali, quindi, i condomini non avevano operato alcuna scelta di affidamento, né avevano esaminato ed approvato alcun preventivo di costo?
Non sarebbe il caso di considerare gli interventi in questione come opere che, per quanto eseguite anche nell’interesse degli altri condomini, erano stati spontaneamente effettuati da uno di loro, senza costituire una obbligazione per il condominio?
E, se mai ci si trovasse in presenza di una richiesta di pagamento alla quale il Condominio non è obbligato, poteva la maggioranza considerarla come una obbligazione naturale e costringere la minoranza ad affrontare comunque tale spesa?

3) Peraltro, dato che io ho acquistato la proprietà alla fine del 2018 e che, per il 2018, l’assemblea aveva deliberato di esentare il precedente proprietario dalle spese condominiali, considerato che la nota presentata da Sogeco (allegata) non indica le date delle prestazioni che avrebbe eseguito, come mi si possono imputare, ove fossero dovute, le spese per gli esercizi 2019 e 2020, scorporando quelle del 2018?
Oppure, data l’attualità della deliberazione, sarei comunque tenuto a pagare anche per gli interventi asseritamente effettuati da Sogeco nel 2018?

4) Con riferimento alla deliberazione sulle scelte di affidamento a Sogeco della videoispezione dei pluviali, mi domando, in primo luogo, se sia corretta la ripartizione della spesa in base alla tabella redatta per i millesimi del lastrico, dal momento che detti pluviali hanno sì imbocco dal lastrico solare, ma non su una parte di lastrico suscettibile di uso esclusivo, trattandosi di sedici pluviali, collocati all’interno di sedici colonne di cemento armato (che costituiscono la struttura portante dell’edificio).
I pluviali in questione, infatti, hanno l’imbocco sotto una inferriata, che percorre tutto il perimetro del lastrico calpestabile, oltre il quale si trova una porzione del lastrico, sporgente di circa un metro oltre le facciate dell’edificio, che costituisce la gronda. Sarà mai lecito, da parte dell’amministratore, considerare i pluviali, che sul lastrico hanno solo l’imbocco, come parti di proprietà esclusiva del proprietario (o, comunque, dell’utilizzatore esclusivo) del lastrico?

5) Nell’ipotesi in cui la ripartizione dell’amministratore fosse corretta, sarà mai possibile che l’assemblea potesse legittimamente deliberare su lavori e spese che non sembrano essere di ordinaria manutenzione (in assenza del sottoscritto che tali spese dovrebbe sostenere addirittura nella misura del 67,84%), con la presenza di soli 482,42 millesimi?

Essendo ancora nei termini per impugnare le deliberazioni, gradirei il Vostro parere su quale potrebbe essere il percorso più opportuno per tutelare la mia posizione.
Ringrazio dell’attenzione.
Cordialmente.
Allegati: consuntivo interventi Sogeco
Roberto De Savino”
Consulenza legale i 11/12/2020
Risposte ai punti 1), 2) e 3)
Si è già avuto modo in precedenza di manifestare forti perplessità sul modo di agire dell’amministratore di condominio, perplessità che non possono che essere ribadite in tale sede.
Come abbiamo già avuto modo di precisare, la riforma del condominio ha introdotto un vero è proprio obbligo per l’amministratore di garantire l’accesso alla documentazione relativa al palazzo, che si sostanzia nel prendere visione ed estrarre copia di ogni documento attinente alla gestione del condominio e alle parti e servizi comuni. In questo senso basta solo analizzare quanto dispone il n.8) dell’art. 1129 del c.c. e l’art. 1130 bis del c.c.
Sicuramente questo obbligo di accesso non può essere limitato dalla attuale emergenza sanitaria, in quanto lo stesso può essere efficacemente garantito e attuato con i comunissimi mezzi informatici largamente in uso in tutti gli uffici (si pensi ad una banalissima mail).
Se questi comportamenti ostruzionistici, contrari a precisi doveri di legge e professionali, dovessero essere mantenuti, potrebbero essere posti a fondamento di una richiesta di rimozione giudiziaria del professionista per grave irregolarità ai sensi dei co. 11 e 12 dell’art. 1129 del c.c. Si consiglia quindi di conservare con cura tutto lo scambio di mail intercorso.

Purtroppo tale comportamento non può essere portato a fondamento di una impugnazione della delibera condominiale di approvazione dei lavori della ditta: è proprio durante la assemblea condominiale che si può avere contezza degli argomenti oggetto dell’ordine del giorno e prendere le determinazioni del caso, che ogni partecipante manifesterà attraverso il comportamento tenuto durante le votazioni.

Entrando poi nel merito, si ritiene che quanto deliberato sia assolutamente legittimo, in quanto rappresenta un riconoscimento del debito ex art. 1988 del c.c. che il condominio vanta nei confronti della ditta. Tale istituto trova larga applicazione anche nel contesto condominiale, soprattutto per quanto riguarda il riconoscimento di compensi all’ex amministratore uscente.
Secondo Cass. Civ., Sez. Lavoro, n.15353 del 30.10.2002, la ricognizione non richiede, in chi la compie, una specifica intenzione ricognitiva, occorrendo solo che esso rechi, anche implicitamente, la manifestazione della consapevolezza dell'esistenza del debito e riveli i caratteri della volontarietà.
In merito al riconoscimento del debito in ambito condominiale è interessante anche quanto chiarito da Cass.Civ. Sez.II, n. 8498 del 28.05.2012 secondo la quale: "la ricognizione di debito richiede un atto di volizione, da parte dell'assemblea su un oggetto specifico posto all'esame dell'organo collegiale"
Anche pronunce più risalenti nel tempo hanno riconosciuto che: "Una deliberazione condominiale può avere rilevanza di atto di natura negoziale e, in particolare, di atto di ricognizione di debito da parte del condominio nei confronti di un terzo" (Cass.Civ.n.5759/1980).

Nel caso di specie non può non concludersi, sulla base di ciò che si è dato in visione, come l’assemblea si sia espressa con larga maggioranza su un chiaro ed analitico consuntivo presentato dalla ditta appaltatrice, nel quale venivano puntualmente elencati ogni lavoro eseguito in un preciso e circostanziato lasso di tempo. Piuttosto, ciò che desta perplessità, è il comportamento autolesionistico dei condomini che hanno riconosciuto debiti già ampiamente prescritti, rimettendo nei fatti in termini la ditta che asserisce di aver eseguito i lavori. Non si può, infatti, ritenere prescritta la pretesa creditoria quando emerge un comportamento del debitore che configuri, anche indirettamente, un riconoscimento della mancata estinzione dell'obbligazione dedotta dal creditore (si veda, tra le tante, Cass.Civ.,Sez.II, n.7277 del 07.04.2005). Il comportamento tenuto dalla stragrande maggioranza dei condomini meriterebbe, forse, qualche indagine ulteriore da parte di chi ci scrive.

Proprio il largo lasso di tempo considerato potrebbe però venire in aiuto alle ragioni dell’autore del quesito. Egli, argomentando ex. co.4° dell’art. 63 disp.att. del c.c., a fronte dell’acquisto della sua unità immobiliare nel novembre del 2018 per asta giudiziaria, sarebbe tenuto a concorrere al pagamento degli oneri condominiali maturati dal 2017 in avanti, e non per quelli maturati in epoca antecedente. In questo senso sarebbe utile spendere una eventuale contestazione giudiziaria, tenendo conto del fatto che non si è partecipato alla riunione condominiale nel cui seno è maturato il riconoscimento del debito, e non si è espresso alcun voto sul punto.
Si tenga conto, infatti, che ai fini del co. 4° dell’art. 63 disp.att. del c.c., non è rilevante quando una singola spesa viene messa a bilancio, ma quando sorge l’obbligo di pagamento per il condominio.

Risposte ai punti 4) e 5)
Il lastrico solare è quella parte piana dell’edificio posta sulla sua sommità, che, in luogo del tetto a falde, funge da copertura di tutto o parte dell’edificio. L’art.1117 del c.c. pone tale parte del palazzo tra le proprietà comuni condominiali, se il titolo non dispone diversamente.
Non è, infatti, insolito che i rogiti di acquisto delle singole unità immobiliari attribuiscano il lastrico solare in uso o in proprietà esclusiva al singolo condomino derogando a quanto dispone l’art.1117del c.c.

Proprio per valorizzare la sua funzione di copertura del palazzo da un lato (quindi una funzione tipicamente a vantaggio dell’intera collettività condominiale), e di parte ad uso esclusivo del singolo, l’art.1126 del c.c. dispone che le spese di riparazione e ricostruzione del lastrico debbano essere sopportate per un terzo dal condominio che ne ha la proprietà o l’uso esclusivo e per i restanti due terzi dai quei condomini che usufruiscono della sua copertura.
È sicuramente tale norma che è stata utilizzata dall’amministratore per ripartire la spesa di video ispezione dei pluviali, ma tale tipo di intervento non rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 1126 del c.c.

Interessante in questo senso è quanto stabilito da Cass.Civ.,Sez.II, n. 27154 del 22.12.14: "Le gronde, i doccioni e i canali di scarico delle acque meteoriche del tetto di uno stabile condominiale costituiscono bene comune, atteso che, svolgendo una funzione necessaria all'uso comune (in quanto "servono all'uso e al godimento comune"), ricadono tra i beni che l'art. 1117 c.c. include tra le parti comuni dell'edificio. Che la copertura del fabbricato sia costituita da tetto a falda o da lastrico di proprietà esclusiva, il quale assolve anche la funzione di copertura di parte del fabbricato, rimane indispensabile l'esistenza delle gronde per raccogliere e smaltire le acque piovane. Le gronde convogliano le acque meteoriche dalla sommità dell'edificio fino a terra o a scarichi fognari e svolgono quindi funzione che prescinde dal regime proprietario del terrazzo di copertura…La proprietà esclusiva del lastrico o terrazzo dal quale provengano le acque che si immettono nei canali non muta questo regime, giacché l'art. 1126 c.c. disciplina soltanto le riparazioni o ricostruzioni del lastrico propriamente inteso e non di altre parti dell'immobile, la cui esistenza è, per esso, indipendente da quella del lastrico, salvo che altrimenti risulti espressamente dal titolo. Né è consentita un'interpretazione che per analogia estenda il regime dei costi di riparazione stabilito in via eccezionale dall'art. 1126 c.c."

In conclusione, quindi, la spesa di video ispezione delle gronde doveva essere ripartita non attraverso l’art. 1126 del c.c., strettamente applicabile solo a quelle spese riguardanti la manutenzione e il rifacimento del lastrico, ma attraverso il 1° co. dell’art. 1123del c.c., applicando la tabella dei millesimi generali.
Anche sotto questo aspetto è, quindi, sicuramente, spendibile una contestazione innanzi alla autorità giudiziaria della delibera che ha approvato il riparto errato, se si è ancora nei termini indicati dall’art. 1137 del c.c.

Alessio C. chiede
domenica 11/08/2019 - Estero
“Gentilissimi Avv.ti,
nel 2015 ho firmato, per obbligazione, una scrittura privata di riconoscimento di debito. In questa scrittura mi impegnavo a restituire una somma di denaro prestata dai genitori della mia ex socia, soldi che solo in parte sono arrivati nei conti della società perché i genitori facevano dei bonifici al conto privato italiano della mia socia mentre l'attività aveva due conti spagnoli (stato nel quale risiedo tutt'ora).
Questa scrittura è stata fatta dopo la chiusura della società, il giorno prima del ritorno della famiglia della mia socia in Italia. Uno dei genitori quel giorno, si è presentato nel mio attuale posto di lavoro, urlando e minacciandomi che avrei dovuto firmare il documento sopra citato, cosa che ho dovuto fare per evitare problemi con il mio lavoro.
Chiedo se è possibile annullare tale scrittura, sia per dolo (con testimone il mio collega di lavoro) sia per il contenuto e la veridicità del prestito concessoci.”
Consulenza legale i 20/08/2019
Il codice civile disciplina in una sola norma, l’art. 1988 c.c., la promessa di pagamento e la ricognizione di debito, ai quali fa conseguire il medesimo effetto, ossia: dispensare colui o coloro a favore dei quali vengono fatte dall’onere di provare il rapporto fondamentale, la cui esistenza si presume fino a prova contraria.
Pertanto, riconosciuto, come nel caso di specie, un debito X in favore di terzi, questi ultimi (nel nostro caso i genitori della ex socia) si trovano nella posizione indubbiamente favorevole di decidere, in qualunque momento, di agire in giudizio per ottenere il pagamento, anche se il loro credito non esiste, mentre incomberà sul debitore, che non vuole pagare, l’onere di cercare di dimostrare che il debito non esiste.
Questa, in termini semplici, la situazione in cui al momento ci si trova.

Sia la promessa di pagamento che la ricognizione di debito, inoltre, possono essere pure o titolate; in particolare, si ha ricognizione pura nel caso in cui un soggetto riconosce un debito senza nulla aggiungere, mentre si ha ricognizione titolata nel caso in cui il soggetto si riconosce debitore facendo riferimento al rapporto da cui il debito è sorto.
Nel nostro caso si ritiene possa affermarsi che ci si trova innanzi ad un’ipotesi di riconoscimento di debito titolato, in quanto si presume che dal contesto della scrittura privata risulti che quelle somme erano state date in prestito per far fronte a debiti di una società, nella quale si rivestiva la posizione di socio.

Per cercare adesso di capire come muoversi per invalidare, rendendola priva di effetti, quella scrittura privata di riconoscimento di debito, si rende preliminarmente necessario analizzare la natura giuridica di tale dichiarazione unilaterale.
Parte della giurisprudenza (cfr. Cass. 13506/2014; 63/2012) ritiene che entrambi gli istituti siano dei meri atti giuridici (dichiarazioni di scienza), i quali producono i loro effetti in virtù della legge ed indipendentemente dalla volontà di chi li ha posti in essere, ovvero indipendentemente dalla consapevolezza che il soggetto aveva di tali effetti e dalla volontà di creare una modificazione alla propria situazione giuridica. In quanto tali, si ritiene che essi non possano valere quali fonti di obbligazioni, con la conseguenza che se si scopre o, meglio, si riesce a dimostrare che non esisteva nessun debito (cioè che non esiste nessuna fonte del rapporto), colui che ha promesso o che ha riconosciuto il debito non sarà tenuto a pagare nulla.
In particolare, è stato affermato che nella ricognizione di debito, in quanto mero atto, gli effetti sono quelli propri della confessione (art. 2730 del c.c.), poiché non si realizza alcuna modificazione nella sfera giuridica di chi pone in essere l'atto, ma semplicemente ci si limita a confessare un fatto a se sfavorevole.

Secondo un’altra tesi, invece, sia la promessa di pagamento che la ricognizione di debito possono essere considerati come vere e proprie dichiarazione di volontà, a cui l’ordinamento giuridico ricollega effetti giuridici conformi al voluto, secondo la tradizionale definizione che viene data di negozio giuridico.
Nella stessa Relazione al codice civile si legge che tali figure vanno considerate non solo come prove, ma come veri e propri negozi giuridici, e precisamente come gli unici casi di promessa unilaterale non titolata, la cui astrazione non è sostanziale, ma processuale (agisce, infatti, sul piano probatorio).
In particolare, è stata avanzata la tesi secondo cui avrebbero natura di negozi unilaterali di accertamento, poiché volti proprio ad accertare l’esistenza di un rapporto su cui non vi è certezza.

Ebbene, l’analisi appena svolta della struttura e natura giuridica del riconoscimento di debito non è certamente fine a se stessa, ma risulta indispensabile per cercare di stabilire di quale strumento giuridico avvalersi al preciso scopo di invalidarne gli effetti.
Infatti, qualora si aderisca alla tesi secondo cui il riconoscimento di debito ha natura di mero atto giuridico, con effetti processuali ed assimilabile ad una confessione, sarà possibile la sua revoca avvalendosi del disposto di cui all’art. 2732 del c.c..
Tale norma dispone che la confessione di regola non può essere revocata, a meno che non si riesca a dimostrare che essa sia stata determinata da errore di fatto o da violenza.
Si potrebbe dunque cercare di dimostrare, qualora convenuti in giudizio per il pagamento del debito riconosciuto, che quel riconoscimento è stato frutto di violenza, avvalendosi a tal fine della prova testimoniale del collega di lavoro presente al momento della sottoscrizione della scrittura.

Per violenza, infatti, si intende proprio quella morale che abbia indotto la parte a dichiarare un fatto non vero, la quale deve presentare gli stessi caratteri richiesti dall’art. 1435 del c.c. ai fini dell’annullamento del contratto, dovendo apparire tale da far impressione sopra una persona sensata e da farle temere di esporre sé o i suoi beni a un male ingiusto e notevole; in giurisprudenza si è ritenuto sufficiente ai fini della revoca della confessione la sola prova della violenza, non essendo neppure necessaria in tal caso la dimostrazione della falsità del fatto dichiarato (così Cass. n. 547/1999; Cass. n. 2993/1984).
Si aggiunge poi che allorquando la confessione di fatti sfavorevoli al dichiarante sia contestuale al riconoscimento di un debito o ad una promessa di pagamento che trovino nei fatti stessi la loro causa giustificatrice, la revoca della dichiarazione ottenuta a norma dell'art. 2732 c.c. determina l'automatico annullamento della ricognizione o della promessa per difetto di causa, senza che sia necessario applicare, al fine del loro annullamento, la disciplina relativa all'errore in tema di contratti (così Cass. n. 136/1985; Cass. n. 259/1997).

Questo il rimedio esperibile per il caso in cui si aderisca alla tesi che esclude la natura negoziale del riconoscimento di debito, tesi peraltro recentemente affermata dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 9097/2018.

Nel caso in cui, invece, la controparte contesti la natura di mero atto giuridico del riconoscimento di debito, affermandone la sua natura negoziale, conformemente peraltro all’opinione che sembra più diffusa sia in dottrina che in giurisprudenza (C. 15575/2000; C. 130/1998; C. 10253/1994; A. Cagliari 13.3.2002; T. Ivrea 11.3.2011; T. Verona 11.2.2004), sarà all’art. 1324 del c.c. che occorrerà volgere l’attenzione.
Tale norma, infatti, estende agli atti giuridici unilaterali (tale sarebbe strutturalmente il riconoscimento di debito) le norme che regolano i contratti, tra le quali non possono che richiamarsi, per quanto qui ci interessano, l'art. 1434 del c.c. e l'art. 1435 del c.c..
In forza di queste ultime norme, infatti, potrà sempre invocarsi l’annullamento di quella dichiarazione di volontà contenente il riconoscimento di debito perché estorta con violenza.
Anche qui ci si potrà avvalere quale fonte di prova della testimonianza del collega di lavoro, mentre per cercare di dimostrare l’inesistenza parziale di quel debito che si è stati costretti a riconoscere ci si può avvalere delle movimentazioni bancarie, le quali saranno sicuramente in grado di dare piena prova di quanto effettivamente confluito nella casse di quella società in favore della quale le somme sarebbero state date in prestito.

Sotto quest’ultimo profilo si ritiene possa essere estremamente utile segnalare una sentenza della Corte di Cassazione, la n. 6473 del 2012, nella quale la S.C. afferma che, con riferimento ad un ente collettivo (tale è la società) il riconoscimento di debito, per essere valido ed efficace, deve provenire da una persona che sia munita dei relativi poteri rappresentativi (quindi, si suggerisce di approfondire anche quest’eventuale aspetto per tentare di invalidare l’atto di riconoscimento).

E’ chiaro che quelle sopra suggerite sono tutte soluzioni le quali presuppongono che il presunto creditore si decida ad agire in giudizio per recuperare il suo credito; fino a quel momento sarebbe opportuno non prendere alcuna iniziativa, confidando in una possibile inerzia del titolare del credito, a cui si potrebbe eventualmente anche opporre la prescrizione del relativo diritto.


Giorgio P. chiede
lunedì 01/07/2019 - Lombardia
“Buongiorno.
A seguito della consulenza precedente Q201923477 appurato che la divisione spese sarebbe stata impugnabile entro trenta giorni dal verbale assemblea straordinaria e quindi non corretta anche in ragione della perizia che non ha riconosciuto la tinteggiatura totale della scala ma solo della parte danneggiata.

Desidero precisare che precedentemente,durante la riunione condominiale del 27/11/2018 il condomino che serve della scala per accedere al proprio appartamento dichiarava.

" che in caso di parziale rimborso da parte dell'assicurazione la tinteggiatura delle pareti della scala sarebbe stata eseguita a sue cure e sue spese "

La cosa dichiarate davanti a tutti i condomini presenti è stata riportata nel verbale assemblea.

Ok sono passati trenta giorni e oltre dall'assemblea straordinaria ma il fatto che la cosa sia stata chiarita durante l'assemblea e poi riportata nel verbale credo abbia valore.

Non credo proprio che un verbale non abbia alcun valore probante.
Chiedo quindi se in base a questo si possa contrastare la divisione spese successiva che distribuiva la cifra mancante a tutti i condomini.

Distinti saluti.


Consulenza legale i 02/07/2019
Pur rimanendo assolutamente ferma, inoppugnabile e vincolante per tutti i proprietari ai sensi del 1°co. dell’art.1137 del c.c. la ripartizione elaborata dall’amministratore di condominio e fatta propria da una delibera assembleare, il fatto che uno dei proprietari abbia reso quel tipo di dichiarazione potrebbe avere un qualche peso giuridico.

Il verbale della riunione condominiale non contiene solo le decisioni prese dai singoli proprietari sui punti all’ordine del giorno, ma vi sono accertamenti di situazioni di fatto (es. il luogo e la data in cui si è tenuta la riunione, i condomini che erano presenti personalmente o per delega ecc. ecc.), il calcolo delle singole maggioranze e le dichiarazioni rese che i singoli condomini desiderano essere riportate per iscritto.
Secondo la giurisprudenza costante: "il verbale di un' assemblea condominiale ha natura di scrittura privata, sicché il valore di prova legale del verbale di assemblea condominiale, munito di sottoscrizione del presidente e del segretario, è limitato alla provenienza delle dichiarazioni dai sottoscrittori e non si estende al contenuto della scrittura, e, per impugnare la veridicità di quanto risulta dal verbale, non occorre che sia proposta querela di falso, potendosi, invece, far ricorso ad ogni mezzo di prova ( si veda in tal senso Cass. Civ, Sez. II, n. 11375 del 9 maggio 2017).
Dalla natura di scrittura privata, ne deriva che il verbale della riunione condominiale fa prova di quanto in esso contenuto, ma rimane comunque ferma la possibilità per ciascun condomino di provare, con ogni mezzo, che quanto in esso riportato non corrisponde al vero.
Nel caso specifico, durante lo svolgimento dei lavori dell'assemblea, uno dei partecipanti rende una dichiarazione ridotta per iscritto nel verbale, in cui si assume l’obbligo di eseguire a sue cure e spese la tinteggiatura delle pareti della scala, qualora la compagnia assicurativa del condominio non copra tale parte di danno.
A parere di chi scrive tale tipo di dichiarazione potrebbe considerarsi (ma è un pò azzardato) una promessa di pagamento ai sensi dell’art.1988 del c.c.
La promessa di pagamento non ha tanto la funzione di far sorgere una nuova obbligazione in capo al dichiarante, ma offre in sede processuale un importante vantaggio in merito all’onere probatorio che ciascuna parte è chiamata a sostenere in giudizio.

Come regola generale, infatti, un soggetto che in mancanza del pagamento di un determinato credito, cita in giudizio il proprio debitore ha come onere probatorio primario e principale quello di dimostrare il rapporto giuridico che giustifica la debenza di una determinata somma: in altre parole deve dimostrare che il credito esiste.
Nel caso in cui vi sia una promessa di pagamento ex art.1988 del c.c., tale onere probatorio è assolto semplicemente producendo in giudizio tale dichiarazione: sarà poi compito del dichiarante convenuto provare il contrario ovvero che tale credito non esiste, oppure che il soggetto non ha reso tale dichiarazione.
Tale prova contraria, per quanto potrà essere assolta utilizzando ogni mezzo probatorio, stante la giurisprudenza che si è sopra citata, pare comunque di difficile assolvimento in quanto il soggetto onerato dovrà nei fatti dimostrare, ad esempio attraverso il ricorso alla prova testimoniale, di non aver reso o comunque non aver materialmente partecipato alla riunione in cui ha reso la dichiarazione compromettente.

Quindi, per concludere, fermo restando che l’autore del quesito rimane obbligato nei confronti del condominio a pagare la suddivisione delle spese sulla base di un verbale di approvazione divenuto assolutamente vincolante ai sensi del co.1° dell’art.1137 del c.c., egli potrebbe pretendere, sulla scorta della dichiarazione resa nella riunione del 27.11.2018, di essere manlevato di quanto speso dall’autore della dichiarazione verbalizzata, eventualmente anche convenendolo in giudizio, qualora il soggetto che si è “ auto obbligato” non adempia di sua volontà a quanto promesso.

Enrico Z. chiede
martedì 11/12/2018 - Emilia-Romagna
“Gentilissimi, scrivo in merito ad una spinosa questione familiare che sta angustiando il sottoscritto e mia sorella.
Mio padre, vedovo e divorziato dalla seconda moglie, cui paga un assegno di mantenimento, è ora in procinto di risposarsi con una donna che conosce da appena 1 anno, ucraina, professione badante, 23 anni più giovane di lui (55 anni contro i suoi 78).
Verrò subito al punto: mio padre non ha intenzione di fare alcuna donazione a noi, né di spogliarsi in alcun modo di parte del suo patrimonio, consistente nell’appartamento in cui vive e in un deposito titoli e di c.c. che dovrebbe ammontare a circa 200.000.
Gli è stata prospettata la possibilità di redigere e far sottoscrivere alla signora una Ammissione o Ricognizione di debito quale unico mezzo alternativo valido in Italia per salvaguardare la ns. quota di legittima e gli eventuali possibili futuri assegni di mantenimento.
Malgrado lo scarso interesse da lui dimostrato in questa soluzione, si recherà comunque dall’avvocato con la signora per farle illustrare questo documento.
Ora chiedo: è questo un atto che potrà evitare concretamente che la sua quota di legittima (ed eventualmente della disponibile), così come anche l’ammontare di assegni di mantenimento possano finire in mano alla donna?
Abbiamo letto che va in prescrizione dopo 10 anni: c’è una clausola, un cavillo, un pro-forma, una modalità di stipula di questo atto che riesca a bypassare questo scoglio della scadenza?
Pongo queste domande in quanto l’avvocato in questione non è specializzato nel diritto successorio e non vorremmo che redigesse un atto viziato o quanto meno non efficace.
Richiedo inoltre suggerimenti in ordine a eventuali altre soluzioni adottabili a integrazione o in sostituzione di quanto sopra descritto, al fine di tutelare i nostri interessi.
Ringrazio anticipatamente

Consulenza legale i 16/12/2018
La soluzione a cui si è pensato di fare ricorso si ritiene che sia una buona scelta, anche se sarebbe opportuno strutturarla in maniera diversa al fine di riuscire ad ottenere qualche garanzia in più sul risultato che si vuole conseguire.
Punto fermo della vicenda, da cui sembra che non ci si possa in alcun modo discostare, è che il proprio genitore non ha la benché minima intenzione in vita di disporre di alcuna parte del suo patrimonio, sia mobiliare (denaro compreso) che immobiliare.

Il riconoscimento o ricognizione di debito, istituto giuridico previsto dall’art. 1988 c.c., può in effetti consentire di soddisfare la volontà di entrambe le parti, in quanto permetterebbe ai figli di recuperare quanto a loro spettante in sede successoria ed al padre di fare ciò che vuole del suo patrimonio, ma con i limiti che vedremo.

Altro presupposto di cui tenere conto, e che sembra essere stato in certa misura sottovalutato nel quesito, è che la necessità di dover porre un freno agli eventuali atti dispostivi del padre, in favore di estranei al ristretto gruppo familiare, potrebbe porsi non soltanto per il periodo post mortem, ma anche durante vita.
Considerato, dunque, che sarebbe opportuno avere sin da subito degli strumenti per bloccare ogni iniziativa che riguardi il patrimonio del genitore (in considerazione soprattutto dell’enorme divario di età esistente tra il padre e la donna di recente conosciuta), ciò che si consiglia è di far sottoscrivere proprio al padre (anziché alla futura moglie) un atto di riconoscimento di debito, rassicurandolo del fatto che un atto di tale tipo non potrà privarlo anticipatamente di alcun bene del suo patrimonio, ma che potrà essere soltanto atto a garantire la posizione dei figli in favore dei quali il debito verrà riconosciuto (forma di tutela minima che ciascun genitore dovrebbe, di norma, assicurare ai propri figli).

Peraltro, si tenga conto del fatto che il riconoscimento di un debito del padre nei confronti dei figli può anche sembrare più attendibile agli occhi di un giudice chiamato a decidere un’eventuale controversia insorta con un terzo estraneo, il quale pretende di avere diritti sul patrimonio del padre (per terzo estraneo qui si intende la donna che vorrebbe sposare).
Infatti, risulterebbe senza dubbio più difficile superare l’ostacolo dell'assenza di ogni traccia di flusso finanziario nei rapporti con il terzo (e che possa giustificare la reale esistenza del debito riconosciuto), mentre si potrà assumere che il debito del padre nei confronti dei figli nasce da frazionate elargizioni di denaro in suo favore, avvenute nel corso di tanti anni, per bisogni di vario tipo e di natura contingente (il rapporto padre-figli è sicuramente più longevo).

Fatte queste precisazioni di carattere generale e avendo visto come impostare l’atto di riconoscimento di debito (sarà il padre a riconoscere un debito nei confronti dei propri figli), passiamo adesso ad esaminare sotto un profilo più tecnico il modo in cui tale riconoscimento dovrebbe operare ed i risvolti positivi che potrà avere.
Corretta e opportuna, intanto, sarà la soluzione di farsi assistere da un legale nella redazione dell’atto di riconoscimento di debito, essendo indubbiamente necessario che esso venga trasfuso in un documento scritto, e ciò soprattutto sulla base di considerazioni di ordine pratico, ossia la constatazione che la ricognizione, per essere efficace ed invertire l’onere della prova, deve essere esibita nel processo e quindi essere disponibile da parte del creditore (non potendosi ovviamente disporre di un riconoscimento effettuato oralmente).
Ancor meglio sarebbe trovare un modo per dare certezza di data a quell’atto, e per tale scopo si rinvia a questo link:
https://www.brocardi.it/notizie-giuridiche/cosa-come-ottiene-data-certa-documento/1807.html

L’inconveniente di un atto di questo tipo, però, come giustamente è stato osservato nel quesito, è che va incontro a prescrizione trascorsi dieci anni dalla data in cui è stato posto in essere (non da quella in cui è sorto il debito, potendo questo essere antecedente alla dichiarazione di riconoscimento).
In tal senso può argomentarsi dal combinato disposto dell' art. 2944 del c.c. e dell' art. 2946 del c.c., il primo dei quali fissa in dieci anni il termine di prescrizione ordinaria, mentre dalla lettura del secondo se ne deduce che dalla data del riconoscimento comincia a decorrere un nuovo termine di prescrizione.
Ciò significa che colui il quale viene riconosciuto come creditore avrà un tempo di dieci anni per agire nei confronti del suo parente o amico e chiedergli la restituzione della somma data in prestito.
Purtroppo non è neppure consentito rinunciare preventivamente a far valere la prescrizione, ciò che si desume abbastanza chiaramente dal disposto dell’art. 2937 del c.c., ai sensi del quale è possibile rinunciare alla prescrizione solo quando questa è compiuta.

Tale sistema, comunque, non deve scoraggiare, in quanto vi sono dei correttivi che consentono di porvi rimedio.
Intanto, come si è prima accennato, la prescrizione decennale comporta che il creditore, trascorsi dieci anni, non potrà più agire in giudizio per far valere il suo credito.
Ciò viene sottolineato per dire che, se prima dello scadere dei dieci anni il proprio genitore dovesse opporsi a rinnovare il riconoscimento di debito con un atto dello stesso tipo del precedente, si avrebbe pur sempre il pieno diritto, entro quel termine, di pretendere forzatamente la restituzione delle somme, eventualmente “aggredendo” esecutivamente (sempre per una sottostante ragione di tutela del proprio patrimonio familiare) i suoi beni, facendoli così rientrare nella sfera giuridica di chi agisce.

Ma c’è anche un altro strumento che si vuole suggerire di utilizzare: convincere il proprio genitore a redigere contestualmente un testamento olografo contenente il riconoscimento di quel medesimo debito e l’attribuzione quantomeno dell’appartamento allo scopo di estinguere tutto o parte di quel debito.
Si tratta di una soluzione a cui il genitore, almeno in linea teorica, non potrebbe avere motivo di opporsi, in quanto non lo priverebbe durante la sua vita di alcuno
dei suoi beni.

Un testamento con un tale contenuto produrrebbe notevoli vantaggi per colui o coloro che vengono riconosciuti creditori, in quanto:
  1. l’attribuzione dell’appartamento assumerebbe la natura giuridica di institutio ex re certa (cioè si tradurrebbe in una assegnazione diretta post mortem di quel bene);
  2. il riconoscimento del debito in sede testamentaria darebbe diritto al creditore o ai creditori di avvalersi dell’istituto giuridico della separazione dei benidel defunto da quelli dell’erede, disciplinato dall' art. 512 del c.c. e ss., con diritto a soddisfarsi ex art. 512 ultimo comma c.c. anche sui beni propri dell’erede-terzo (la donna). Si tenga conto che, ex art. 516 del c.c., il diritto alla separazione deve essere esercitato entro il termine di tre mesi dall’apertura della successione.
  3. quel testamento, almeno per la disposizione di carattere non patrimoniale atipica che contiene (tale è il riconoscimento di debito), manterrebbe la sua validità ed efficacia anche in caso di testamento successivo che lo revochi espressamente.
Infatti, la revoca totale del testamento, contenente anche il riconoscimento di debito, non impedisce a quest’ultima disposizione di mantenere la sua efficacia come dichiarazione di scienza, analogamente a quanto previsto per il riconoscimento di figlio naturale dall'art. 256 del c.c., ma sempre e soltanto a partire dalla morte del suo autore.

Peraltro, a dare forza e concretezza ad una disposizione di tale tipo soccorre nel nostro ordinamento l’art. 659 del c.c., norma che prevede proprio la fattispecie del c.d. legato di debito, con cui si realizza concretamente una datio in solutum.

La soluzione che si propone, invece, dovrebbe essere strutturata, come accennato prima, secondo la forma dell’institutio ex re certa, ossia come attribuzione di quota ereditaria sottoposta all’implicita condizione della estinzione totale o parziale del pregresso rapporto obbligatorio, di modo che l’erede-delato, accettando l’eredità, aderirebbe al programma del testatore, e, pertanto, presterebbe il suo consenso all’implicita estinzione di quel rapporto.

Al di là di questi escamotage, purtroppo, non si riescono ad intravedere altri strumenti per garantire la propria posizione di eredi e di figli, restando pur sempre salvo, ovviamente, il diritto di far valere la propria posizione di legittimari in caso di lesione della c.d. quota di riserva, avvenuta anche con atti di donazione in vita del de cuius.

Franco V. chiede
mercoledì 25/07/2018 - Toscana
“Nel 2001 avevo la residenza nelle Marche ed ho ricevuto in prestito da un privato 20.000.000 di lire,all'interesse dell '8 %, che non no mai avuto la possibilità di restituire, rilasciando 4 cambiali, con doppia indicazione sia in lire che in euro, da 5.000.000 di lire con tassa di bollo di 60.000 . Da quella data non ho avuto nessuna richiesta scritta per la dovuta restituzione. Nel 2017 ho ricevuto una ingiunzione di pignoramento per la copertura del debito, avendo il creditore presentato in tribunale copia di n. 3 cambiali da 5.000,00 euro firmate da me e mia moglie, Marta Mariani, avendo contraffatto le cambiali da lire, in euro, e sullo spazio in lettere relativo all'importo, che era rimasto in bianco, ha scritto l'importo di cinquemila euro, con un altro tipo di penna, e cancellando l'ultimo "0" dei 5.000.000 con un #(cancelletto).
Il pignoramento è stato sospeso,ma l'avvocato che ci difende, a suo tempo aveva detto che le cambiali erano evidentemente contraffatte, prima ha richiesto di chiudere la pratica con 4 o 5 mila euro, poi che non servivano più, in quanto bastava la testimonianza dei miei figli, dichiarando che l'importo ricevuto nel 2001, che era in lire . Successivamente mi comunica che il Giudice difficilmente richiederà una testimonianza, e che la pratica si può chiudere con 10.000,00 euro più interessi. In sostanza tutto il dovuto. Il nostro avvocato, dice che le firme sono autentiche, e di conseguenza anche la contraffazione non è presa in considerazione dal giudice. I bolli cambiari sono relativi ad un importo pari a 5 milioni di lire o ad un valore corrispondente in euro 30,99-che non corrispondono al valore di € 5.000,00, ma il giudice, sempre secondo l'avvocato mi riferisce che è solamente evasione di bollo cambiario e non di veridicità dell'importo di 5.000,00 euro.
All'inizio il nostro avvocato ha detto che la veridicità del titolo la deve dimostrare chi presenta i titoli, ora non più in quanto la contraffazione la debbo certificare io con una perizia calligrafica. che verrebbe a costarmi più dell'importo dovuto.Mi sento preso in giro, e penso che il nostro avvocato è contro di noi a favore del creditore non prendendo in considerazione una querela per contraffazione falsificazione di titoli in atto pubblico. Inoltre non è stata presa in considerazione la prescrizione dei titoli, in quanto non c'è la data di emissione.Il giudice, a ragione, dice che un prestito va sempre restituito. Sono d'accordo ma non ho e non ho mai avuto la possibilità della restituzione”
Consulenza legale i 07/08/2018
Va premesso che, per articolare una risposta il più possibile esauriente e aderente alle caratteristiche del caso concreto, sarebbe stata opportuna una conoscenza più dettagliata degli atti processuali, purtroppo solo in minima parte a disposizione del cliente. Pertanto il parere verrà formulato sulla base della documentazione fornita e delle informazioni comunque assunte.
Partendo proprio dall’unico atto processuale prodotto, ossia l’ordinanza di sospensione dell’efficacia esecutiva del decreto ingiuntivo opposto, in essa si precisa che la sospensione stessa viene disposta sulla base del disconoscimento dell’autografia sia del contenuto che della sottoscrizione delle cambiali. Sembra dunque che nell’atto di opposizione a decreto ingiuntivo sia stata contestata anche l’autenticità delle firme apposte sulle cambiali: ciò contrasta con la versione riportata nel quesito, ove non si afferma la falsità delle sottoscrizioni, ma si lamenta semmai tanto una contraffazione del contenuto originario delle cambiali (quanto all'indicazione dell'importo in cifre) quanto un abusivo riempimento di talune parti lasciate in bianco.
Anche per questo sarebbe stato necessario un esame quanto meno dell’atto di opposizione a decreto ingiuntivo nonché dei successivi atti processuali, in modo da comprendere la linea difensiva seguita.
In linea generale, è possibile contestare l’autenticità di un documento, a seconda dei diversi casi che possono presentarsi, o mediante il giudizio di verificazione della scrittura privata (artt. 214 ss. c.p.c.), che deve essere proposta dalla parte che intende avvalersi del documento a fronte del disconoscimento effettuato da controparte, o per mezzo della querela di falso (artt. 221 ss. c.p.c.), da proporsi invece a cura di chi vuol far valere la falsità.
In entrambi i casi, sarà necessario l’espletamento di una consulenza tecnica d’ufficio ad opera di un perito nominato dal giudice. Certamente la C.T.U. ha un costo notevole, che a seconda dell’esito del giudizio potrà essere posto dal giudice a carico dell’una o dell’altra parte ovvero suddiviso tra le stesse. Difficilmente però potrà avere un costo superiore all’importo in questo caso dovuto.
Quanto alla circostanza per cui le cambiali in esame risultano prive sia della data di emissione che della data di scadenza, occorre ricordare che il titolo cambiario invalido, o comunque privo dell’efficacia sua propria, può essere fatto valere come chirografo contenente una promessa unilaterale di pagamento (così Cass. Civ., Se. VI, ord. n. 17850/2017). Infatti in questo caso le cambiali non sono state azionate direttamente, non potendo valere come titoli di credito, ma sono state utilizzate quale “prova scritta” ex art. 633 del c.p.c. ai fini dell’emissione di decreto ingiuntivo.
Riguardo, infine, alla questione della prescrizione, sempre secondo la giurisprudenza appena citata, l'utilizzo della cambiale quale promessa di pagamento grava il debitore dell'onere di provare l'inesistenza del rapporto sottostante, ovvero l'estinzione delle obbligazioni da esso nascenti (ad esempio per prescrizione). Infatti ai sensi dell’art. 1988 del c.c. la promessa di pagamento esonera colui a favore del quale è fatta dall'onere di provare il rapporto fondamentale; l’esistenza di questo si presume fino a prova contraria.
Quindi in questo caso incombe sul debitore l’onere di provare l’estinzione del credito per avvenuta prescrizione.


S. L. chiede
martedì 01/03/2022 - Abruzzo
“Buonasera,

Negli ultimi 2 anni ho preso per conto di mio fratello il pagamento a suo nome di debiti per una somma di circa €50000 .
In particolare ho accettato di pagargli le spese legali per un processo a suo carico. In cambio, lui si e ripromesso di restituirmeli appena la situazione giuridica si fosse risolta a suo favore. In alternativa, mi ha detto che avrei potuto far rivalere il mio credito nei confronti della proprietà ( la casa paterna) che entrambi, insieme alla mamma abbiamo ereditato dopo la morte di nostro padre.
Arrivo al punto, oggi mi è giunta una raccomandata di “ Avviso di pignoramento di beni indivisi” da parte di un altra creditrice di mio fratello.
Come mi devo comportare? Come posso far rivalere il mio credito?
Grazie
Nell’attesa di un loro riscontro le auguro un a buona serata”
Consulenza legale i 07/03/2022
La volontà manifestata dal fratello Tizio (debitore) di rimborsare all’altro fratello Caio (creditore) quanto da quest’ultimo anticipato per estinguere un suo debito personale avrebbe potuto trovare piena attuazione a mezzo dell’istituto giuridico della c.d. datio in solutum.
Principio generale, espresso in materia di adempimento delle obbligazioni dall’art. 1197 c.c., è quello secondo cui deve sussistere una necessaria identità tra la prestazione eseguita dal debitore e quella dovuta in base al titolo da cui deriva il rapporto obbligatorio.
In forza di tale principio il debitore non può liberarsi dal vincolo se non esegue esattamente la prestazione oggetto dell’obbligazione, a meno che il creditore non acconsenta a ricevere una prestazione diversa, ritenendola egualmente idonea a soddisfare il proprio interesse.
E’ proprio in quest’ultima ipotesi che viene in rilievo la datio in solutum o prestazione in luogo dell’adempimento, disciplinata sempre dal sopra citato art. 1197 c.c., il quale al suo secondo comma prevede proprio l’ipotesi in cui il debitore intenda liberarsi dalla sua obbligazione mediante trasferimento della proprietà o di altro diritto reale.

Per quanto concerne la natura giuridica di tale istituto, si ritiene preferibile la tesi che qualifica la prestazione in luogo dell’adempimento come contratto a titolo oneroso con funzione solutorio-satisfattiva ed effetti reali ovvero obbligatori, a seconda del tipo di prestazione sostitutiva in esso dedotta.
In particolare, nel caso di datio in solutum avente ad oggetto il trasferimento di un diritto reale o la cessione di un diritto di credito, sebbene l’effetto traslativo si verifichi immediatamente con il semplice consenso delle parti, l’effetto estintivo dell’obbligazione si produrrà, invece, successivamente, con la consegna del bene ovvero con l’esecuzione della nuova prestazione da parte del debitore ceduto.

Premessi questi brevi cenni meramente teorici, necessari per meglio inquadrare dal punto di vista giuridico ciò che le parti intendono realizzare, occorre a questo punto precisare che, nel caso di specie, in mancanza di un titolo giuridico da cui poter fare risultare il rapporto obbligatorio sussistente tra le parti, risulta indispensabile che il debito di Tizio nei confronti di Caio venga formalizzato attraverso un atto che si definisce di riconoscimento o ricognizione di debito.
Norma di riferimento in questo caso è l’art. 1988 del c.c., sebbene la stessa si limiti a disciplinarne soltanto gli effetti, consistenti nel dispensare colui in cui favore viene fatta dall’onere di provare l’esistenza del debito.

Per quanto concerne la forma che tale atto deve assumere, si contrappongono generalmente la tesi della libertà delle forme e quella della necessaria forma scritta.
In realtà, da un punto di vista meramente pratico può dirsi che, al di là delle diverse teorie sviluppatesi al riguardo, va senza alcun dubbio preferita la forma scritta, in quanto se finalità di tale atto è quella di mettere a disposizione del creditore la prova del debito che altri ha nei suoi confronti, invertendosi l’onere della prova, risulta difficile poter disporre di una promessa effettuata oralmente.

Pertanto, ritornando al caso di specie, sarebbe innanzitutto necessario formalizzare l’esistenza del debito del fratello Tizio nei confronti del fratello Caio mediante dichiarazione scritta contenente il riconoscimento del debito.
In forza di tale titolo, poi, entrambi i fratelli dovranno recarsi dal notaio per stipulare il contratto di datio in solutum, trattandosi di un atto che, come detto prima, produce in questa specifica ipotesi effetti reali, consistenti nel trasferimento del diritto di proprietà pro quota sul bene caduto in successione.
L’intervento del notaio è richiesto ex artt. 1350 n. 1 e 2643 n. 1 c.c., ovvero al fine di procedere alla sua trascrizione nei pubblici registri immobiliari e rendere così opponibile il trasferimento nei confronti dei terzi.

Occorre a questo punto precisare che, purtroppo, un eventuale trasferimento realizzato in questo momento sarebbe inopponibile nei confronti del creditore che ha già trascritto l’atto di pignoramento immobiliare, e ciò in forza del principio della continuità delle trascrizioni di cui all’art. 2650 del c.c..
Pertanto, a meno che non risulti conveniente soddisfare il debito per il quale è stato eseguito il pignoramento (potendosi così ottenere la cancellazione dello stesso), qualunque atto posto in essere in questo momento non riuscirebbe a soddisfare l’interesse che si mira a perseguire (cioè il recupero del proprio credito).

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