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Articolo 179 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 26/11/2024]

Beni personali

Dispositivo dell'art. 179 Codice Civile

Non costituiscono oggetto della comunione e sono beni personali del coniuge [185, 217]:

  1. a) i beni di cui, prima del matrimonio, il coniuge era proprietario o rispetto ai quali era titolare di un diritto reale di godimento(1);
  2. b) i beni acquisiti successivamente al matrimonio per effetto di donazione [769] o successione [456], quando nell'atto di liberalità o nel testamento [587] non è specificato che essi sono attribuiti alla comunione(2);
  3. c) i beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge ed i loro accessori(3);
  4. d) i beni che servono all'esercizio della professione [2084, 2222]del coniuge, tranne quelli destinati alla conduzione di una azienda facente parte della comunione(4);
  5. e) i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno(5) nonché la pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa(6);
  6. f) i beni acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopraelencati o col loro scambio, purché ciò sia espressamente dichiarato all'atto dell'acquisto(7) [2647 comma 1].

L'acquisto di beni immobili, o di beni mobili elencati nell'articolo 2683, effettuato dopo il matrimonio, è escluso dalla comunione, ai sensi delle lettere c), d) ed f) del precedente comma, quando tale esclusione risulti dall'atto di acquisto se di esso sia stato parte anche l'altro coniuge(8).

Note

(1) Pur essendo l'elencazione tassativa, la lettera a) configura una esclusione estensibile in ragione della ratio temporale: tutto ciò che il coniuge già possedeva o abbia acquistato senza richiedere il sacrificio comune, poiché in epoca antecedente al matrimonio, non sarà oggetto di comunione.
(2) La donazione comprende qualsiasi tipo di liberalità, quindi anche le donazioni indirette.
(3) In base all'utilizzo effettivo del bene, destinato ad uno solo dei coniugi (l'orologio maschile, la collana, i prodotti di bellezza, etc.) si potrà desumerne il carattere di bene strettamente personale.
(4) Non possono essere ricompresi i beni destinati, ex artt. 177 e 178 alla conduzione di una azienda facente parte della comunione. Per il resto, vige sempre il criterio della destinazione concreta, per cui andrà verificata la funzionalità rispetto alla professione (ad es. i libri nella biblioteca di casa, di una materia giuridica piuttosto che medica delineeranno l'appartenenza al coniuge giurista piuttosto che medico o psicologo).
(5) Archetipo ne è l'indennità assicurativa erogata in seguito ad un sinistro stradale, che ha funzione riparatoria dei danni (fisici, ma anche morali-esistenziali) subiti personalmente dal coniuge leso nell'illecito (e di cui ai fondamentali artt. 1223, 2043 ss. c.c.).
(6) Si allude, con formulazione onnicomprensiva, ad ogni tipo di rendita erogabile da persone o enti, che siano pubblici o privati (assicurazioni, istituti previdenziali, etc.) a seguito della perdita della capacità lavorativa.
(7) Questi beni (esclusivamente mobili) derivano da un trasferimento dei beni succitati, e ne sono appunto l'investimento attuato con la vendita o lo scambio di beni già esclusi dalla comunione; per analogia, lo stesso denaro ricavato ma non reinvestito permarrà nei beni esclusi perché personali.
(8) Nel secondo comma dell'art. 179 si delinea la possibilità di escludere dalla comunione determinati beni immobili, o mobili registrati, mediante l'apposizione in sede di atto di acquisto della dichiarazione di esclusione; atto di acquisto cui dovrà necessariamente partecipare l'altro coniuge. L'effetto risultante sarà l'opponibilità ai terzi, ai sensi dell'art. 2647 del c.c..

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

Massime relative all'art. 179 Codice Civile

Cass. civ. n. 35086/2022

Per soddisfare i requisiti di legge, la dichiarazione formulata dal coniuge nell'atto di acquisto di un bene, al fine di sottrarlo alla comunione legale, deve indicare effettivamente quale sia la natura personale della provenienza del denaro utilizzato. Pertanto, il contratto di acquisto del bene deve contenere il puntuale riferimento al fatto costitutivo del preteso diritto esclusivo sul denaro utilizzato per il pagamento: e cioè un riferimento ad una delle tipologie di beni personali descritte nelle lett. a, b, c, d, e) ed f) testualmente richiamate nella fattispecie di cui all'art. 179, dalla cui vendita (o dal cui scambio) abbia tratto origine la provvista utilizzata per l'acquisto esclusivo. Definire come semplicemente personale il denaro con cui si è adempiuta l'obbligazione del prezzo esprime una qualificazione giuridica e come tale, insuscettibile di confessione, oltre che non vincolante per l'interprete, potendo anche discendere da un errore di diritto del dichiarante.

Nel caso di acquisto di un immobile effettuato dopo il matrimonio da uno dei coniugi in regime di comunione legale, la partecipazione all'atto di acquisto dell'altro coniuge non acquirente, prevista dall'art. 179, comma 2, c.c., non può assumere portata confessoria qualora la dichiarazione del coniuge acquirente, ai sensi dell'art. 179, comma 1, lett. f) c.c., che i beni sono stati acquistati con il prezzo del trasferimento di beni personali, non contenga l'esatta indicazione della provenienza del bene da una delle diverse fattispecie di cui alle lettere a), b), c), d), e), del medesimo art. 179 c.c. In mancanza di tale indicazione, l'eventuale inesistenza dei presupposti che escludono dal regime della comunione legale il bene acquistato può essere fatta valere con una successiva azione di accertamento della comunione, senza che la dichiarazione adesiva del coniuge non acquirente, ex art. 179, comma 2, c.c., abbia alcun valore confessorio.

Cass. civ. n. 40423/2021

Nel caso di acquisto di un immobile effettuato dopo il matrimonio da uno dei coniugi in regime di comunione legale, la partecipazione all'atto dell'altro coniuge non acquirente, prevista dall'art. 179, comma 2, c.c., si pone come condizione necessaria, ma non sufficiente, per l'esclusione del bene dalla comunione, occorrendo a tal fine non solo il concorde riconoscimento, da parte dei coniugi, della natura personale del bene medesimo, richiesto esclusivamente in funzione della necessaria documentazione di tale natura, ma anche l'effettiva sussistenza di una delle cause di esclusione dalla comunione, tassativamente indicate dall'art. 179, comma 1, lett. c), d) ed f), c.c.

Cass. civ. n. 20336/2021

In presenza di una ipotesi di acquisto rientrante nell'ambito dell'art. 179, co. 1, lett. b), c.c., non rileva la dichiarazione di cd. "rifiuto al coacquisto" eseguita dal coniuge non intestatario in atto, non essendo la predetta ipotesi di cui alla lett. b) del primo comma, richiamata dal successivo ultimo comma del medesimo art. 179 c.c. Di conseguenza, in presenza di un accertamento di fatto che confermi la provenienza donativa non di tutto, ma soltanto di parte del denaro utilizzato per l'acquisto di un bene, quest'ultimo dovrà ritenersi di proprietà esclusiva del donatario soltanto per la parte del suo valore effettivamente corrispondente all'entità della donazione ricevuta, e non invece per l'intero, restando la residua parte del valore del cespite, non acquistata con denaro personale dell'intestatario, soggetta al regime della comunione legale tra i coniugi.

In caso di provenienza donativa solo parziale del denaro utilizzato per l'acquisto di un bene, quest'ultimo dovrà ritenersi di proprietà esclusiva del donatario soltanto per la parte del suo valore effettivamente corrispondente all'entità della donazione ricevuta, e non invece per l'intero, restando la residua parte del valore del cespite, non acquistata con denaro personale soggetta al regime della comunione legale tra i coniugi.

La donazione indiretta è assimilabile alla donazione cui si riferisce l'art. 179, 1° comma, lett. b), con la conseguenza che non rileva la partecipazione dell'altro coniuge all'atto né la sua dichiarazione di adesione all'acquisto personale del coniuge acquirente.

Cass. civ. n. 3313/2020

n tema di testimoni di giustizia, le "misure di assistenza" di cui all'art. 16 ter, comma 1, lett. b), d.l. n. 8 del 1991, conv. con modif. dalla l. n. 82 del 1991, e la "capitalizzazione" prevista in alternativa al costo dell'assistenza ai sensi del comma 1, lett. c), del medesimo articolo, hanno natura indennitaria e non risarcitoria poiché sono erogate discrezionalmente dall'autorità competente e non presuppongono la commissione di un illecito, ma solo la sottoposizione dell'interessato ad un programma di protezione; ne consegue che il relativo credito non è sottratto alla cd. comunione "de residuo" in base al disposto dell'art. 179, comma 1, lett. e), c.c. (Rigetta, CORTE D'APPELLO ROMA, 18/07/2017).

Cass. civ. n. 7027/2019

Nel caso di acquisto di un immobile effettuato dopo il matrimonio da uno dei coniugi in regime di comunione legale, la partecipazione all'atto dell'altro coniuge non acquirente, prevista dall'art. 179, comma 2, c.c., si pone come condizione necessaria, ma non sufficiente, per l'esclusione del bene dalla comunione, occorrendo a tal fine non solo il concorde riconoscimento, da parte dei coniugi, della natura personale del bene medesimo, richiesto esclusivamente in funzione della necessaria documentazione di tale natura, ma anche l'effettiva sussistenza di una delle cause di esclusione dalla comunione, tassativamente indicate dall'art. 179, comma 1, lett. c), d) ed f), c.c. Ne consegue che l'eventuale inesistenza di tali presupposti può essere fatta valere con una successiva azione di accertamento negativo, non risultando preclusa tale domanda dal fatto che il coniuge non acquirente sia intervenuto nel contratto per aderirvi. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva rigettato la domanda di cancellazione della trascrizione della sentenza di fallimento su alcuni immobili acquistati dal coniuge del soggetto fallito, il quale era intervenuto nell'atto di compravendita, riconoscendo la natura personale di detti beni). (Rigetta, CORTE D'APPELLO NAPOLI, 15/10/2014).

Cass. civ. n. 23565/2016

In tema di rapporti patrimoniali tra coniugi in regime di comunione legale, la dichiarazione resa dal coniuge non acquirente in ordine alla natura personale di un immobile acquistato ha portata confessoria sulla provenienza del denaro a tal fine utilizzato, sicché l'azione di accertamento negativo della natura personale di quel bene postula la revoca della menzionata confessione stragiudiziale nei limiti in cui la stessa è ammessa dall'art. 2732 c.c., cioè per vizio del consenso derivante da errore di fatto o violenza.

Cass. civ. n. 19204/2015

In tema di comunione legale, l'art. 168 c.c. disciplina la particolare condizione dei beni acquistati dal coniuge per essere destinati all'impresa da lui gestita e costituita dopo il matrimonio, i quali sono soggetti al regime della comunione legale "de residuo", ossia ristretta ai soli beni sussistenti al momento dello scioglimento della comunione, sicché non opera per tali acquisti il meccanismo previsto dall'art. 179, comma 2, c.c., rimanendo essi esclusi automaticamente, seppur temporaneamente, dal patrimonio coniugale, senza necessità di specifica indicazione o di partecipazione di entrambi i coniugi all'atto di acquisto, atteso che, mentre la prima norma prende in considerazione beni qualificati da un'oggettiva destinazione all'attività imprenditoriale del singolo coniuge, la seconda si occupa di beni soggettivamente qualificati dall'essere strumento di formazione ed espressione della personalità dell'individuo.(Rigetta, App. Salerno, 24/02/2012).

Cass. civ. n. 14197/2013

In tema di comunione legale dei coniugi, la donazione indiretta rientra nell'esclusione di cui all'art. 179, primo comma, lett. b), c.c. senza che sia necessaria l'espressa dichiarazione da parte del coniuge acquirente prevista dall'art. 179, primo comma, lett. f), c.c., nè la partecipazione del coniuge non acquirente all'atto di acquisto e la sua adesione alla dichiarazione dell'atro coniuge acquirente ai sensi dell'art. 179, secondo comma, c.c., trattandosi di disposizione non richiamate.

Cass. civ. n. 19513/2012

La dichiarazione di assenso ex art. 179, secondo comma, c.c. del coniuge formalmente non acquirente, ma partecipante alla stipula dell'atto di acquisto, relativa all'intestazione personale del bene immobile o mobile registrato all'altro coniuge, può assumere natura ricognitiva e portata confessoria - quale fatto sfavorevole al dichiarante e favorevole all'altra parte - sebbene esclusivamente di presupposti di fatto già esistenti, laddove sia controversa, tra i coniugi stessi, l'inclusione del medesimo bene nella comunione legale. Analoga efficacia in favore del coniuge formalmente acquirente non può, invece, attribuirsi ad una tale dichiarazione nel diverso giudizio fra i coeredi di colui che l'aveva resa, terzi rispetto al suddetto atto, in cui si discuta della configurabilità del menzionato acquisto come una donazione indiretta di quello stesso bene in favore del coniuge da ultimo indicato, nonché della sussistenza dei presupposti per il suo conferimento nella massa ereditaria del "de cuius". (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che aveva qualificato come donazione indiretta, conseguentemente assoggettandola a collazione, l'acquisito di un immobile successivamente al matrimonio da parte di uno dei coniugi, in relazione al quale era stato provato il diretto versamento del prezzo all'alienante ad opera dell'altro, negando rilievo alla contraria dichiarazione di quest'ultimo contenuta nell'atto di acquisto).

Cass. civ. n. 10855/2010

In tema di regime della comunione legale fra i coniugi, la dichiarazione di cui è onerato il coniuge acquirente, ai sensi dell'art. 179, primo comma, lett. f), c.c., al fine di conseguire l'esclusione, dalla comunione, dei beni acquistati con il trasferimento di beni strettamente personali o con il loro scambio, è necessaria solo quando possano sorgere dubbi circa la natura personale del bene impiegato per l'acquisto (ivi compreso il denaro); ne consegue che, in caso di acquisto di un bene mediante l'impiego di altro bene di cui sia certa l'appartenenza esclusiva al coniuge acquirente prima del matrimonio, l'acquisto dovrà ritenersi escluso dalla comunione legale senza che sia necessario rendere la menzionata dichiarazione.

Cass. civ. n. 22755/2009

Nel caso di acquisto di un immobile effettuato dopo il matrimonio da uno dei coniugi in regime di comunione legale, la dichiarazione resa nell'atto dall'altro coniuge non acquirente, ai sensi dell'art. 179, secondo comma, c.c., in ordine alla natura personale del bene, si atteggia diversamente a seconda che tale natura dipenda dall'acquisto dello stesso con il prezzo del trasferimento di beni personali del coniuge acquirente o dalla destinazione del bene all'uso personale o all'esercizio della professione di quest'ultimo, assumendo nel primo caso natura ricognitiva e portata confessoria di presupposti di fatto già esistenti, ed esprimendo nel secondo la mera condivisione dell'intento del coniuge acquirente. Ne consegue che l'azione di accertamento negativo della natura personale del bene acquistato postula nel primo caso la revoca della confessione stragiudiziale, nei limiti in cui la stessa è ammessa dall'art. 2732 c.c., e nel secondo la verifica dell'effettiva destinazione del bene, indipendentemente da ogni indagine sulla sincerità dell'intento manifestato.

Nel caso di acquisto di un immobile effettuato dopo il matrimonio da uno dei coniugi in regime di comunione legale, la partecipazione all'atto dell'altro coniuge non acquirente, prevista dall'art. 179, secondo comma, c.c., si pone come condizione necessaria ma non sufficiente per l'esclusione del bene dalla comunione, occorrendo a tal fine non solo il concorde riconoscimento da parte dei coniugi della natura personale del bene, richiesto esclusivamente in funzione della necessaria documentazione di tale natura, ma anche l'effettiva sussistenza di una delle cause di esclusione dalla comunione tassativamente indicate dall'art. 179, primo comma, lett. c), d) ed f), c.c., con la conseguenza che l'eventuale inesistenza di tali presupposti può essere fatta valere con una successiva azione di accertamento negativo, non risultando precluso tale accertamento dal fatto che il coniuge non acquirente sia intervenuto nel contratto per aderirvi.

Cass. civ. n. 24061/2008

In tema di regime della comunione legale fra i coniugi, la dichiarazione di cui è onerato il coniuge acquirente, prevista nella lett. f) del primo comma dell'art. 179 c.c., al fine di conseguire l'esclusione, dalla comunione, dei beni acquistati con il trasferimento di beni strettamente personali o con il loro scambio, non è meramente facoltativa; tuttavia, pur non avendo natura dispositiva, ma ricognitiva della sussistenza dei presupposti per l'acquisto personale, è necessaria solo quando la natura dell'acquisto sia obbiettivamente incerta, per non essere accertato che la provvista necessaria costituisca reinvestimento del prezzo di beni personali. (Nella fattispecie, relativa al deposito di titoli in custodia e amministrazione, che uno dei coniugi riteneva di sua proprietà esclusiva perché acquistati con denaro ricavato dalla vendita di beni personali, pur in mancanza della dichiarazione di cui all'art. 179, primo comma, lett. f), c.c., la S.C. ha ritenuto che la contestazione dei titoli anche all'altro coniuge e la sua partecipazione all'atto di contestazione costituissero indici inequivoci della volontà di mettere in comune l'acquisto, con conseguente appartenenza dei titoli alla comunione).

Cass. civ. n. 1197/2006

In tema di comunione legale tra coniugi, il denaro ottenuto a titolo di prezzo per l'alienazione di un bene personale rimane nella esclusiva disponibilità del coniuge alienante anche quando esso venga dal medesimo accantonato sotto forma di deposito bancario sul proprio conto corrente, giacché il diritto di credito relativo al capitale non può considerarsi modificazione del capitale stesso, né è d'altro canto configurabile come un acquisto nel senso indicato dall'art. 177, primo comma, lettera a), c.c., cioè come un'operazione finalizzata a determinare un mutamento effettivo nell'assetto patrimoniale del depositante. Pertanto, il coniuge può utilizzare le somme accantonate sul di lui conto corrente, provenienti dall'alienazione di un bene personale, ai fini della surrogazione reale di cui all'art. 179, primo comma, lettera f), c.c.

Cass. civ. n. 8758/2005

L'indennità di accompagnamento, istituita dalla legge n. 18 del 1980, non è indirizzata al sostentamento dei soggetti minorati nelle loro capacità di lavoro, ma è configurabile come misura di integrazione e sostegno del nucleo familiare, incoraggiato a farsi carico di tali soggetti, evitando così il ricovero in istituti di cura e assistenza, con conseguente diminuzione della relativa spesa sociale. Ne consegue che la somma corrisposta a titolo di indennità di accompagnamento (nella specie arretrati corrisposti in unica soluzione ) rientra nella comunione legale tra coniugi, non essendo equiparabile alla pensione attinente alla perdita totale o parziale della capacità lavorativa, prevista dalla lett. e ) dell'art 179 c.c. Né è possibile l'interpretazione analogica di tale disposizione, che contempla ipotesi tassative di eccezione al principio generale di inclusione dei beni nella comunione legale.

Cass. civ. n. 2954/2003

In regime di comunione legale, la partecipazione alla stipula, del coniuge formalmente non acquirente e l'eventuale dichiarazione di assenso, da parte sua, all'intestazione personale del bene, immobile o mobile registrato, all'altro coniuge, non hanno efficacia negoziale o dispositiva, sotto forma di rinuncia, del diritto alla comunione incidentale sul bene acquisendo, né sono elementi di per sé sufficienti ad escludere l'acquisto dalla comunione, ma hanno carattere ricognitivo degli effetti della dichiarazione, resa dall'altro coniuge, circa la natura personale del bene, se ed in quanto questa oggettivamente sussista, atteso che il secondo comma dell'art. 179 c.c. è norma limitativa dei casi di esclusione della comunione risultanti dalle lett. c), d) ed f) del primo comma dello stesso articolo, nel senso che essa, al fine di escludere la comunione legale, richiede, in caso di acquisto di un bene immobile o di un bene mobile registrato, oltre ai requisiti oggettivi previsti dalle citate lett. c), d) ed f), che detta esclusione risulti espressamente dall'atto di acquisto, allorché l'altro coniuge partecipi al contratto. Da ciò consegue che di tal che, ove tale natura personale del bene manchi (e tale mancanza si ha allorché il bene, senza essere di uso strettamente personale o destinato all'esercizio della professione del coniuge, venga acquistato con danaro del coniuge stesso, ma non proveniente dalla vendita di beni personali), la caduta in comunione legale non è preclusa dalle dette partecipazione e dichiarazione, tanto più che, nella pendenza di tale regime, il coniuge non può rinunciare alla comproprietà di singoli beni acquistati durante il matrimonio (e non appartenenti alle categorie elencate nel primo comma dell'art. 179 c.c.), salvo che sia previamente o contestualmente mutato, nelle debite forme di legge e nel suo complesso, il regime patrimoniale della famiglia.

Cass. civ. n. 15778/2000

Nella ipotesi in cui un soggetto abbia erogato il danaro per l'acquisto di un immobile in capo al proprio figlio, si deve distinguere il caso della donazione diretta del danaro, in cui oggetto della liberalità rimane quest'ultimo, da quello in cui il danaro sia fornito quale mezzo per l'acquisto dell'immobile, che costituisce il fine della donazione. In tale secondo caso, il collegamento tra l'elargizione del danaro paterno e l'acquisto del bene immobile da parte del figlio porta a concludere che si è in presenza di una donazione indiretta dell'immobile stesso, e non già del danaro impiegato per il suo acquisto. Ne consegue che, in tale ipotesi, il bene acquisito successivamente al matrimonio da uno dei coniugi in regime di comunione legale, è ricompreso tra quelli esclusi da detto regime, ai sensi dell'art. 179, lett. b), c.c., senza che sia necessario che il comportamento del donante si articoli in attività tipiche, essendo, invece, sufficiente la dimostrazione del collegamento tra il negozio-mezzo con l'arricchimento di uno dei coniugi per spirito di liberalità. (Nella specie, in applicazione di tale principio, la S.C. ha escluso che fosse ricompreso nel regime di comunione legale l'immobile acquisito successivamente al matrimonio il diretto versamento di somme alla cooperativa, da parte del genitore di questo, all'atto dell'assegnazione dell'immobile stesso, senza che potesse assumere rilievo la circostanza, risultante dall'atto pubblico di assegnazione, e ritenuta, invece, dai giudici di merito ostativa alla configurabilità di una donazione indiretta, che il restante maggior prezzo dovesse essere versato dall'intestatario del bene mediante accollo della quota di mutuo di pertinenza dell'immobile, avuto riguardo al comprovato versamento, da parte del genitore, delle relative rate).

Cass. civ. n. 1917/2000

In caso di acquisto di bene immobile, o mobile registrato, effettuato da uno dei coniugi dopo il matrimonio, il secondo comma dell'art. 179 c.c., al fine di escludere la comunione legale, richiede, oltre alla sussistenza di uno dei requisiti oggettivi previsti dalle lettere c), d), e f), del primo comma dello stesso articolo, anche che detta esclusione risulti espressamente dall'atto di acquisto, purché a detto atto partecipi l'altro coniuge. La mancata contestazione, da parte di quest'ultimo, in detta sede — ovvero la esplicita conferma, attraverso una propria dichiarazione, di quella dell'acquirente in ordine alla natura personale del bene di cui si tratta — ha carattere ricognitivo, e non negoziale, e, tuttavia, costituisce pur sempre un atto giuridico volontario e consapevole, cui il legislatore attribuisce la valenza di testimonianza privilegiata, ricollegandovi l'effetto di una presunzione iuris et de iure di esclusione della contitolarità dell'acquisto. Il vincolo derivante da detta presunzione, peraltro, non è assoluto, potendo essere rimosso per errore di fatto o per violenza, nei limiti in cui ciò è consentito per la confessione, cui può equipararsi il riconoscimento di una situazione giuridica.

Cass. civ. n. 1292/1998

Anche se per la vendita di un veicolo non è necessario il consenso dell'altro coniuge in regime di comunione legale dei beni (art. 159 c.c.) essendo sufficiente la dichiarazione autenticata del trasferimento verbale del venditore per l'iscrizione o la trascrizione nel P.R.A. (artt. 13 e 16 R.D. 29 luglio 1927, n. 1814), tale bene tuttavia entra automaticamente nel patrimonio di entrambi i coniugi (art. 177 lett. a, c.c.), pur essendo consumabile e oneroso, salvo che il giudice del merito ne accerti la natura personale (art. 179 lett. c) e d), c.c.).

Cass. civ. n. 11327/1997

ll tenore letterale dell'art. 179 lett. b), c.c. che parla di «liberalità» e non di «donazione» non consente di limitarne la portata alle sole liberalità previste dall'art. 769 c.c. Consegue che la peculiare struttura della donazione indiretta non è assolutamente incompatibile con l'applicazione dell'art. 179 lett. b) c.c.

Cass. civ. n. 7470/1997

Nel regime della comunione legale fra i coniugi, l'acquisto di un bene personale effettuato da uno dei coniugi per donazione fattagli da un terzo, si sottrae al regime della comunione a norma dell'art. 179, comma primo, lett. b), c.c. ancorché la donazione sia dissimulata da una vendita, potendo l'acquirente opporre all'altro coniuge il carattere simulato di quest'ultima.

Cass. civ. n. 7437/1994

Con riguardo all'art. 179, lettera f), c.c. - in base al quale non costituiscono oggetto della comunione legale e sono beni personali del coniuge i beni acquisiti con il «prezzo» del trasferimento dei beni personali sopraelencati o con loro scambio, purché ciò sia espressamente dichiarato all'atto di acquisto - al prezzo, che è costituito da denaro, deve equipararsi, per analogia iuris, ai sensi dell'art. 12, comma 2 delle preleggi, ricorrendo identità di ratio, il danaro che, anziché ricavato dalla vendita di un bene donato o ereditato (art. 179, lettera b, c.c.) sia stato direttamente acquisito a titolo gratuito da uno dei coniugi e poi investito nell'acquisto di beni. La dichiarazione espressa all'atto di acquisto, prevista dall'art. 179, lettera f), è necessaria, nei confronti dell'altro coniuge (diversa essendo la posizione dei terzi), unicamente quando il suo consorte sia venuto a trovarsi nella disponibilità non solo del denaro (o dei beni) acquisiti per donazione o successione, ma anche di denaro o beni pervenutigli aliunde (per esempio frutto del proprio lavoro), e non anche quando l'inesistenza di tale duplicità di mezzi sia ragionevolmente conoscibile dall'altro coniuge (come nel caso di reimpiego di grossi capitali dei quali i coniugi non avrebbero potuto disporre in base alla loro situazione personale).

Cass. civ. n. 1556/1993

A norma dell'art. 179 lett. f) c.c., non fanno parte della comunione tra coniugi i beni acquistati con la permuta di altri beni personali rientranti nelle categorie indicate dalla detta norma, essendo del tutto irrilevante che, in mancanza dell'altro coniuge, nell'atto sia stata omessa la dichiarazione bilaterale di esclusione che, prevista dall'ultimo comma del citato art. 179, è necessaria solo quando il coniuge partecipi alla stipulazione, e manchi l'attestazione della provenienza personale del corrispettivo prevista dall'art. 179 lett. f), richiesta solo quando è obiettivamente incerto se l'acquisto realizzi o meno il reinvestimento di denaro o di beni personali.

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P. P. chiede
venerdì 06/12/2024
“Salve! Alla morte di mia madre, vedova, è caduto in successione un solo appartamento venendo così a creare una comunione ereditaria tra me e i miei 2 nipoti ex sorore. Essendo tutti interessati a sciogliere la comunione ereditaria, io sono disposto ad acquisire 2 le quote dei nipoti pari al 50% dell'immobile. Poichè io sono in comunione legale col coniuge, dette quote rientreranno nella comunmione legale o rimarranno bene mio personale assieme alla quota del 50% già ereditata? Ed il mio coniuge dovrà comunque intervenire all'atto dello scioglimento della comunione ereditaria?”
Consulenza legale i 12/12/2024
La risposta ai dubbi avanzati nel quesito si trova sia nelle norme dettate in tema di regime patrimoniale della famiglia che in quella sulla comunione in generale.
Per quanto concerne la prima domanda, la lettera b) dell’art. 179 c.c. dispone espressamente che non costituiscono oggetto di comunione e sono, pertanto, personali, tutti quei beni che sono stati acquistati successivamente al matrimonio per effetto di donazione o successione.
Tale norma consente di poter dire che la quota pari al 50% dell’appartamento di proprietà della defunta madre, acquistato per successione a quest’ultima, costituisce senza alcun dubbio bene personale, come tale escluso dalla comunione legale dei beni.

Diverso, invece, è il discorso per la rimanente quota del 50% pervenuta ai discendenti dell’altra figlia, in rappresentazione di quest’ultima, quota che si intende acquistare.
Per tale acquisto, infatti, troverà applicazione la lettera a) dell’art. 177 del c.c., secondo cui costituiscono oggetto di comunione “gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relativi a beni personali”.
Non ricadono in tale previsione normativa gli acquisti compiuti ex art. 179 lett. f) c.c., ovvero quei beni che uno dei coniugi acquista con il prezzo del trasferimento di beni personali o con il loro scambio, a condizione che tale circostanza sia espressamente dichiarata nell’atto di acquisto e che, se si tratta di immobili o mobili registrati, allo stesso intervenga l’altro coniuge.
Poiché nel quesito non viene fatto riferimento a tale circostanza, se ne deve dedurre che l’acquisto verrà effettuato con denaro della comunione e, pertanto, non potrà che ricadere nel regime della comunione legale dei beni.

L’altra domanda concerne quali sono i soggetti che devono intervenire all’atto di scioglimento della comunione ereditaria e la risposta, come si è prima accennato, non può che ritrovarsi sia nelle norme dettate in tema di comunione in generale che in quelle dettate in tema di comunione ereditaria.
In particolare, l’art. 1111 del c.c., rubricato appunto “Scioglimento della comunione”, dispone che “Ciascuno dei partecipanti può sempre domandare lo scioglimento della comunione…”, mentre l’art. 713 del c.c.., in tema di comunione ereditaria, dispone che “I coeredi possono sempre domandare la divisione…”.
Sembra palese, dunque, che l’atto di divisione ereditaria non possano che essere stipulato soltanto da coloro che partecipano alla comunione, con esclusione del coniuge di uno dei comproprietari, trattandosi di diritto non ricadente nel regime della comunione legale dei beni.

Se, invece, ci si dovesse decidere ad acquistare il 50% di proprietà delle nipoti, l’acquisto di tale quota, come si è detto prima, ricadrebbe in comunione legale, con la conseguenza che, allorchè dovesse poi verificarsi una causa di scioglimento della comunione legale, entrambi i coniugi sarebbero comproprietari, anche se per quote diseguali, dell’appartamento e, pertanto, sarebbero gli stessi coniugi gli unici soggetti legittimati ad intervenire ad un successivo atto di divisione.


M. G. chiede
mercoledì 29/05/2024
“mia moglie ha una casa in comunione con suo fratello. Il fratello vende la sua parte. Ora io acquisto questa parte, siccome che i soldi che utilizzo provengono da un fondo pensione che ho accumulato durante il periodo lavorativo, mia moglie vuole che la parte acquistata sia totalmente a mio nome anche se noi siamo in comunione di beni. gradirei avere una risposta veloce per velocizzare la vendita. grazie”
Consulenza legale i 04/06/2024
L’operazione negoziale che si ha intenzione di porre in essere è sicuramente ammissibile e trova il suo fondamento giuridico nel testo dell’art. 179 c.c., rubricato “Beni personali”.
In particolare, dispone la lettera f) di tale norma che rientrano tra i beni personali quelli che vengono acquistati con il prezzo del trasferimento di altri beni personali o con il loro scambio, purchè ciò sia espressamente dichiarato all’atto dell’acquisto (si parla in tal caso di beni personali “per surrogazione”).

Precisa l’ultimo comma della medesima norma che anche l’acquisto di un bene immobile o di un bene mobile registrato può essere escluso dalla comunione se a tale esclusione presti il proprio consenso l’altro coniuge partecipando all’atto di acquisto e confermando che ricorre una delle ipotesi di cui alle lettere c), d) ed f) del primo comma della norma (c.d. rifiuto del coacquisto).

Pertanto, considerato che il denaro che verrà utilizzato per l’acquisto costituisce bene personale (trattandosi di proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi, destinati a confluire nella c.d. comunione de residuo, ex art. 177 lett. c) c.c.), è ben possibile fare in modo che la quota della casa che si intende acquistare confluisca nel patrimonio personale di uno solo dei coniugi, seppure tra gli stessi sia vigente il regime delle comunione legale dei beni.
Sarà sufficiente che il coniuge non acquirente partecipi all’atto di acquisto per rendere la dichiarazione di cui al secondo comma dell’art. 179 c.c.

Si tratta di una fattispecie negoziale a cui molto spesso si ricorre negli studi notarili, in relazione alla quale la giurisprudenza ha soltanto tenuto a precisare la necessità che i presupposti della qualità personale del bene, ai sensi degli artt. 179 comma 1, lettere c), d) ed f) esistano obiettivamente (cfr. Cass. 12.03.2019 n. 7027).
Si è voluto, in sostanza, evidenziare che il fatto che il coniuge dell’acquirente abbia preso parte all’atto attestando che si tratti di acquisto compiuto con denaro dell’altro coniuge non può valere ad escludere il bene dalla comunione; lo stesso discorso vale per il caso in cui l’altro coniuge abbia falsamente attestato la ricorrenza di una delle cause di esclusione dalla comunione tassativamente previste dalla legge.
In tali casi sarà possibile, per chiunque ne abbia interesse, compreso il coniuge escluso dal coacquisto, agire in giudizio per far accertare l’appartenenza del bene alla comunione, e ciò perché le regole sulla comunione legale non possono formare oggetto di disposizione da parte dei privati (così Cass. SS.UU. n. 22755/2009).


G. C. chiede
sabato 04/03/2023 - Lombardia
“Buongiorno
Ho un dubbio per quel che riguarda una questione di eredità.
Sono proprietario al 50% di una casa con mio fratello di cui sono in procinto di acquistare la sua quota relativa del 50% e diventarne a tutti gli effetti unico proprietario.
In caso di acquisto prima di un eventuale futuro matrimonio e comunque con regime di separazione dei beni, qualora venisse a mancare “ la moglie “, sua figlia ( non mia risultante figliastra ) che non vive assieme alla madre, vanterebbe qualche diritto sulla casa in termini di eredità o decisionali in caso di vendita? E alle stesse condizioni sopracitate cambierebbe qualcosa se invece il matrimonio fosse col regime di comunione dei beni?
Al contrario qualora venissi a mancare io come potrei lasciare la mia totale eredità a loro escludendo terzi avendo deciso con un matrimonio in regime di separazione dei beni? C’è una qualche procedura da sottoscrivere in anticipo con atto notarile o è sufficiente una comunione dei beni?”
Grazie.”
Consulenza legale i 09/03/2023
La prima domanda a cui si chiede di rispondere è quella se i figli di uno dei due coniugi possano vantare o meno ragioni ereditarie sui beni entrati a far parte del patrimonio dell’altro coniuge prima del matrimonio.
La risposta è senza alcun dubbio negativa, trattandosi di beni personali ex art. 179 lett. a) c.c. (norma che qualifica come tali i beni di cui, prima del matrimonio, il coniuge era proprietario o rispetto ai quali era titolare di un diritto reale di godimento) e non intercorrendo tra il de cuius ed i figli del solo coniuge superstite alcun rapporto di parentela.
Quanto appena detto vale sia per il caso di matrimonio contratto in regime di comunione legale dei beni sia qualora, all’atto del matrimonio, i coniugi avessero deciso di optare per il regime di separazione dei beni.
Ovviamente, è indispensabile che l’acquisto venga concluso soltanto da colui che pone il quesito, in quanto se entrambi i coniugi dovessero partecipare all’atto di acquisto, sul bene così acquistato si verrebbe ad instaurare un regime di comunione ordinaria, con la naturale conseguenza che anche la figliastra avrebbe diritti successori sulla sola quota entrata a far parte del patrimonio della madre.
Inoltre, la risposta negativa trova fondamento anche nelle norme dettate in materia di rappresentazione (artt. 467 e ss. c.c.), tenuto conto che l’istituto giuridico della rappresentazione ereditaria non opera tra coniugi, ma soltanto in favore dei discendenti dei figli e dei fratelli e delle sorelle del de cuius.

Con il secondo quesito si chiede di conoscere quali sono gli strumenti di cui ci si può avvalere per fare in modo che tutti i beni di cui si è titolari confluiscano nel patrimonio del coniuge superstite e della di lei figlia.
In casi come questi la soluzione è molto semplice e consiste nel disporre di tali beni per testamento in loro favore, rivestendo peraltro uno dei due (ovvero il coniuge superstite) la posizione di legittimario ex art. 536 del c.c..
La figliastra, invece, pur non essendo legittimaria del de cuius (in quanto, come si è detto prima, non sussiste tra i due alcun rapporto di parentela), conseguirebbe quanto voluto dal testatore a condizione che quest’ultimo non abbia lasciato altri eredi legittimari, quali potrebbero essere, ad esempio, i figli nati da un precedente matrimonio.

Non è sicuramente una buona soluzione, invece, quella di sposarsi in regime di comunione legale dei beni e di acquistare il bene in costanza di matrimonio, in quanto in tal caso, nell’ipotesi di premorienza della moglie, ci si troverebbe a dover affrontare il problema a cui si è fatto cenno nella prima delle domande poste, ovvero quello derivante dal fatto che la figliastra entrerebbe a far parte della comunione ereditaria, potendo di conseguenza vantare diritti decisionali in una eventuale futura vendita.

S. P. chiede
lunedì 24/01/2022 - Sardegna
“Gentmi, in comunione dei beni ho acquistato un immobile nel 1998 con risorse finanziarie ricevute in seguito ad un risarcimento di un danno subito per licenziamento. Ora sono divorziata e altro coniuge chiede il 50% dell'immobile.
Come mi devo comportare? inoltre vorrei sapere se è caduto in prescrizione eventuali azioni che potrei esperire.
Spero di aver illustrato correttamente.
ringrazio”
Consulenza legale i 28/01/2022
Per rispondere al quesito occorre fare riferimento a quanto stabilito dall’art. 179 c.c., lettere e) e f).
Ai sensi della lettera e), non costituiscono oggetto della comunione e sono beni personali del coniuge “i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno nonché la pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa”.
Secondo l’interpretazione prevalente, i due casi previsti dalla norma (risarcimento del danno e perdita della capacità lavorativa) andrebbero considerati disgiuntamente: in altre parole, la norma prenderebbe in considerazione i beni ottenuti a titolo di risarcimento di qualsivoglia danno, non solo quello consistente nella perdita, totale o parziale, della capacità lavorativa.
Nel nostro caso, la lettura del verbale di conciliazione inviato in visione ha evidenziato che, a seguito dell’accordo transattivo con il datore di lavoro, fu corrisposta una somma a titolo di risarcimento del danno: occorre stabilire se l’immobile di cui si parla possa considerarsi acquistato con il relativo denaro.
Infatti la lettera f) dell’art. 179 c.c. esclude dalla comunione i beni acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopraelencati o col loro scambio, a condizione, però, che ciò sia espressamente dichiarato all'atto dell'acquisto. Tale espressa dichiarazione manca nel nostro caso; pertanto l’art. 179, lett. e) e f) c.c. non potrà essere invocato al fine di escludere l’immobile dalla comunione.

B. chiede
lunedì 18/10/2021 - Emilia-Romagna
“Tizia e Caio sono due coniugi in regime di comunione dei beni. Tizia apre un’attività commerciale durante il matrimonio, senza l’aiuto del marito Caio e la gestisce esclusivamente Tizia. Dopo alcuni anni, Tizia entra in una società in accomandita semplice, conferendo la propria attività commerciale nella società, al fine di acquisire una quota all’interno di questa società, divenendo socia accomandataria. Al momento del conferimento dell’azienda di Tizia nella s.a.s., per ottenere la propria quota sociale, Tizia non riporta la dichiarazione necessaria ai sensi dell’art. 179, lettera f del c.c., per escludere tale quota sociale dalla comunione dei beni con Caio, e questo perché varie sentenze della Suprema Corte hanno indicato che non è necessario formulare tale dichiarazione, quando si ha la certezza che siano stati utilizzati dei beni strettamente personali per l’acquisto di un bene, che non si vuole far rientrare nella comunione (cfr. Cassazione Civile 24061/2008 e 108559/2010). Ora, l’azienda conferita da Tizia non rientrava nella comunione dei beni col marito, se non de residuo (ex art. 178 c.c.), in quanto il marito Caio non vi lavorava e non si procedette mai allo scioglimento della comunione, pertanto tale azienda rimaneva di esclusiva e personale proprietà di Tizia, che era libera di trasferirla e gestirla come meglio credeva. Per questo, non sembrava necessario che Tizia riportasse nell’atto d’acquisto la dichiarazione di voler escludere la quota della società dalla comunione dei beni col marito, come invece richiede l’art. 179, lettera f, del c.c., essendo certa la natura personale dell’azienda conferita, poiché al momento del conferimento, Caio era in vita e si era ancora in comunione legale dei beni, e pertanto l’azienda rimaneva di proprietà personale di Tizia, a tal punto che Tizia la conferì senza il permesso di Caio e senza che questo protestasse.
Caio muore e i figli richiedono che la metà della quota della madre di questa s.a.s. cada nell’eredità, di modo tale che la metà del valore di questa quota venga corrisposta a tutti gli eredi (figli e madre compresa). I figli reputano che questa quota sia caduta, subito dopo l’acquisto, nella comunione dei beni, ai sensi dell’art. 177, lettera a, del c.c., poiché la madre Tizia ha acquisito la citata quota senza alcuna dichiarazione di esclusione di tale quota dalla comunione, come invece richiedeva l’art. 179, lettera f, del c.c. per tenere tale quota fuori dalla comunione. Diversa è la tesi di Tizia che afferma che non era necessaria la dichiarazione domandata dall’art. 179 lettera f, c.c., in quanto Tizia aveva acquisito tale quota grazie al conferimento della propria e personale azienda e secondo l’orientamento consolidato dei Supremi Giudici, non era necessaria una tale dichiarazione di esclusione di un bene dalla comunione, quando si era in grado di provare che l’acquisto era avvenuto grazie al trasferimento di beni personali e l’azienda conferita rientrava tra i beni personali di Tizia, visto che Caio era ancora in vita e in regime di comunione dei beni, durante il conferimento.
La domanda è la seguente: la quota sociale di Tizia, è entrata o non è entrata nella comunione legale dei beni col marito Caio dopo la morte di Caio stesso? Ossia hanno ragione i figlio (che richiedono la caduta della metà della quota nell’asse ereditario) o la madre (che rivendica, al contrario, la proprietà personale dell’intera quota anche dopo la morte di Caio)?”
Consulenza legale i 25/10/2021
La questione che qui va affrontata concerne non soltanto il generale regime degli acquisti di beni personali in costanza di comunione legale, ma la particolare disciplina che attiene agli acquisti relativi a partecipazione sociali compiuti da uno solo dei coniugi.
Principio generale, peraltro abbastanza chiaramente espresso dall’art. 179 comma 1, lett. f) c.c., è in effetti quello reclamato dai figli, secondo cui devono ritenersi appartenenti al patrimonio individuale del coniuge i beni dallo stesso acquistati mediante l'alienazione di beni personali, purché “ciò sia espressamente dichiarato all'atto dell'acquisto”.
Tale norma detta il principio della c.d. “surrogazione reale”, richiedendo che il coniuge acquirente renda soltanto un'apposita dichiarazione di surrogazione.

Occorre precisare che la suddetta formalità riguarda i soli acquisti aventi ad oggetto beni mobili non registrati, in quanto allorché l’acquisto abbia ad oggetto immobili o mobili registrati occorre anche osservare il disposto di cui al secondo comma del medesimo art. 179, il quale richiede che all’atto di acquisto partecipi l’altro coniuge per prestare il proprio consenso (sussiste, in questa particolare ipotesi, l'esigenza di assicurare al coniuge controinteressato il controllo sui beni di maggior valore, che non confluiscono nel patrimonio della comunione legale).

Ora, come si è accennato all’inizio, occorre tenere presente che nel caso di specie viene in considerazione una disciplina ancora più specifica, ossia quella che concerne l’acquisto di partecipazioni sociali.
A tale riguardo è ormai prevalente l’orientamento secondo cui l'inclusione nell'oggetto della comunione legale di tali partecipazioni non è incompatibile con il sistema, discutendosi soltanto se l'acquisto della partecipazione, compiuto in regime di comunione legale, debba farsi rientri nella comunione immediata o, piuttosto, nella comunione de residuo.
Prevale la tesi della comunione immediata quando dalla partecipazione in società ne discende una responsabilità limitata (è questo il caso della s.p.a., della s.r.l. o della quota del socio accomandante), e della comunione de residuo quando si determina una responsabilità illimitata (ciò che accade in caso di società semplice, società in nome collettivo o quota del socio accomandatario).
Secondo altra tesi, invece, rimasta tuttavia isolata, le partecipazioni sociali non entrerebbero mai in comunione immediata, indipendentemente dalla struttura sociale, per rientrare, invece, nella comunione de residuo.

Da quanto fin qui detto, dunque, se ne deve intanto dedurre che in caso di acquisto di partecipazioni in società a responsabilità illimitata (da parte di uno solo dei coniugi in regime di comunione legale), l’acquisto sarà destinato ad entrare soltanto nella comunione de residuo.
Peraltro, in conformità a quanto sostenuto dalla Corte di Cassazione, Sez. I civ. con sentenza n. 13760 del 03.07.2015 (in senso conforme anche Tribunale di Grosseto n. 835 del 28.10.2016), ciò che cade in comunione è soltanto un diritto di credito, quantificabile in misura pari alla metà del plusvalore che per effetto della partecipazione sociale è stato realizzato al momento del verificarsi della causa di scioglimento.

Precisato ciò, occorre adesso cercare di capire, ancora più specificatamente, che cosa succede nel caso in cui, pur vigendo il regime della comunione legale dei beni, venga acquistata una partecipazione sociale (ed in particolare in una società di persone con responsabilità illimitata) mediante impiego di bene personale.
Ebbene, come è stato detto all’inizio di questa consulenza, la lett. f) dell’art. 179 c.c. sembra essere molto chiara al riguardo, richiedendo una esplicita dichiarazione del coniuge acquirente, dalla quale possa desumersi che si tratta di acquisto effettuato mediante alienazione di beni personali (trattasi di dichiarazione per la quale vale il principio della libertà della forma e che deve in ogni caso essere resa o al momento dell'acquisto o anteriormente).

L’essenzialità di tale dichiarazione, tuttavia, può avere un senso soltanto nel caso in cui non sussista una contestualità tra alienazione del bene personale e acquisto di altro bene, ovvero nel caso in cui l’acquisto del bene che si vuole escludere dalla comunione legale sia frutto dell’impiego di denaro che si asserisce personale.
Diverso, invece, non può che essere un caso come quello che qui viene in esame, in cui sostanzialmente si configura una sorta di permuta di beni (l’azienda di cui il coniuge era titolare individualmente in cambio della partecipazione sociale), per la quale il carattere personale del corrispettivo prestato risulta obiettivamente certo e non occorre alcuna dichiarazione per accertarne la provenienza (non vi può essere miglior prova dell’atto pubblico di conferimento dell’azienda).

In tal senso sembra orientata non soltanto la giurisprudenza citata nel quesito (e precisamente Cass. civ. n. 24061/2008 e n. 10855/2010), ma anche una sentenza ancora più risalente, e precisamente Cass. civ., Sez. II, 08/02/1993, n. 1556 (segno che si tratta di un orientamento che può definirsi costante), nella quale ultima si legge quanto segue:
Qualora in regime di comunione legale dei beni, uno dei coniugi permuti un proprio bene personale con altri (nella specie: terreno edificabile avuto in donazione dalla madre con due appartamenti da realizzare sullo stesso) senza che all'atto partecipi l'altro coniuge che pertanto non renda la dichiarazione di cui all'art. 179, comma ultimo c.c. - dichiarazione avente non natura dispositiva, ma tutt'al più ricognitiva - i beni per tal via acquistati dal coniuge agente sono suoi personali essendo obiettivamente certo il carattere personale del corrispettivo prestato (non risultando impiegato, infatti, non se ne doveva accertare la provenienza)”.

In conclusione, dunque, si ritiene che ciò che cade in comunione de residuo (in ragione di un mezzo indiviso) non è la partecipazione sociale, bensì il diritto di credito, determinabile in misura pari alla plusvalenza (se sussistente) che tale partecipazione ha prodotto al momento del verificarsi della causa di scioglimento della comunione legale (ossia al momento della morte del coniuge non titolare).

Anonimo chiede
sabato 09/10/2021 - Marche
“Buongiorno,
siamo 3 eredi (2 figli e la moglie) di un conto corrente appartenente a nostro padre, unitamente a titoli azionari di società quotate (ma non vi sono obbligazioni o titoli di stato). Nostro padre era in comunione legale dei beni con nostra madre. Stiamo preparando la dichiarazione di successione ed è sorta la necessità di procedere a determinare quali sono le proprietà che i due coniugi verrebbero a detenere con lo scioglimento della comunione, il cui scioglimento è sopraggiunto a seguito del decesso di nostro padre (ex art. 191 c.c.).
Entrando nei particolari sulla provenienza delle somme presenti in questo conto corrente e sulle provviste di denaro con cui nostro padre ha acquistato i titoli azionari, noi sappiamo che tutte queste somme e titoli detenuti da nostro padre, derivano da un eredità ricevuta a sua volta da nostro padre da un parente, 10 anni fa, che lo fece unico erede universale e testamentario. Nostro padre seppe sfruttare queste somme ereditate arrivando quasi a generare il doppio dell’importo ereditato.
Ora, noi sappiamo dall’art. 179 lettera b) del c.c., che le somme ereditate da nostro padre non entrano nella comunione legale dei beni con nostra madre. Tuttavia si pongono due problemi legati a due articoli del codice civile:
1) L’art. 179 lettera f) del c.c. indica che: i beni acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali ereditati o col loro scambio, purché ciò sia espressamente dichiarato all'atto dell'acquisto, non rientrano nella comunione.
Sulla base di quest’articolo, si desume che tutti i soldi e tutte le azioni detenuti da nostro padre (comprese le plusvalenze e i dividendi) non sono mai entrati nella comunione, sebbene conseguiti durante il matrimonio. Ora, nostro padre comprava i titoli azionari quotati coi soldi ereditati ad un prezzo basso e li rivendeva quando si alzava il loro valore di mercato, ottenendo delle plusvalenze che a sua volta investiva, comprando altre azioni. Comprava nuove azioni anche all'ottenimento dei dividendi. Queste nuove azioni sono beni acquistati o col prezzo della vendita dei beni personali ereditati da nostro padre o comunque grazie agli introiti (dividendi) derivanti sempre da queste azioni. Questi beni finanziari erano tenuti in un conto corrente intestato solo a nostro padre, il quale era l’unico a potervi accedere (nostra madre non aveva alcun potere di firma per gli assegni o per prelevare somme di denaro, né venivano utilizzati per la sopravvivenza della famiglia, ma erano esclusivamente gestiti da lui e li utilizzava esclusivamente per lui e per i suoi acquisti personali).
2) Ma l’art. 177 lettera a) del c.c., sancisce che i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati allo scioglimento della comunione, rientrano nella comunione. Ora, nostro padre riceveva periodicamente dei dividendi da questi titoli azionari (come già detto sopra), per di più, noi stessi non sappiamo indicare, se le plusvalenze derivanti dalle vendite dei titoli azionari, siano considerati i frutti dei beni propri di nostro padre e quindi rientranti nella comunione dei beni con nostra madre, sulla base del citato articolo.

Tutto sta nel capire se i dividendi, le plusvalenze e i titoli comprati da nostro padre con questi due tipi di proventi (ossia grazie ai dividendi e alle plusvalenze), rientrino o meno nelle proprietà personali di nostro padre, mentre sappiamo già che le somme ereditate da nostro padre 10 anni fa, sono interamente da spartire tra gli eredi (ex art. 179 lettera b, del c.c.).

Ovviamente, se i dividendi, le plusvalenze e i titoli comprati da nostro padre con questi due tipi di proventi, sono i frutti dei beni personali di nostro padre e che ai sensi dell’art. 177 lettera a) rientrano nella comunione legale dei beni con nostra madre, nostra madre già possiede la metà del loro valore e rientrerà nell'asse ereditario solo l’altra metà, che peraltro sarà da spartire anche con nostra madre.
Se invece i dividendi, le plusvalenze e i titoli comprati da nostro padre con questi due tipi di proventi, rientrano tra beni acquisiti con il prezzo di vendita dei beni personali ereditati da nostro padre e rimangono in capo a lui come beni personali (ex art. 179, lettera f), allora nostra madre non è detentrice della metà del loro valore e tutti questi frutti finanziari andranno divisi interamente con tutti gli altri eredi.

Come si può facilmente desumere, la domanda è questa: i dividendi, le plusvalenze e i titoli comprati da nostro padre con questi due tipi di proventi, sono i frutti dei beni personali di nostro padre ma che ai sensi dell’art. 177, lettera a) del c.c., entrano nella comunione legale dei beni con nostra madre, oppure sono rimasti beni personali di nostro padre (ex art. 179 lettera f)?
RingraziandoVi, porgo cordiali saluti.

Vorrei che questa consulenza rimanesse riservata.”
Consulenza legale i 14/10/2021
I riferimenti normativi contenuti nel quesito sono tutti corretti, soltanto che occorre chiarire bene come le norme citate vanno interpretate e applicate.
La prima norma a cui ci si riferisce è l’art. 179 lett. f) c.c., norma che enuncia il c.d. principio della surrogazione reale e dalla quale se ne vorrebbe dedurre l’appartenenza esclusiva al patrimonio del defunto padre delle somme dal medesimo ereditate e fatte confluire in parte in un conto corrente a lui intestato in via esclusiva e per altra parte utilizzate per l’acquisto di titoli azionari ed obbligazionari.
In realtà, se la norma richiamata viene letta nella sua interezza, ci si può rendere conto del fatto che il principio in essa sancito della surrogazione reale opera soltanto al ricorrere di una condizione essenziale e ben precisa, ossia che la volontà surrogatoria sia stata espressamente dichiarata all’atto dell’acquisto (c.d. dichiarazione di surrogazione).
Si tenga presente, infatti, che non impedisce la caduta in comunione il fatto che il denaro impiegato nell’acquisto, anziché comune, abbia natura personale, poiché il bene acquistato potrà a sua volta avere natura personale soltanto se saranno rispettate le formalità dettate dal predetto art. 179 lett. f) comma 1 e comma secondo.

Nel caso di specie sembra difettare una specifica manifestazione di volontà in tal senso, né si può pensare che la stessa possa desumersi implicitamente dalla circostanza che sia le somme di denaro che i titoli acquistati siano stati fatti confluire in conti intestati solo al de cuius.
In regime di comunione legale vale il principio secondo cui anche le somme giacenti sul conto corrente intestato a uno solo dei due coniugi rientrano nella comunione, ed in particolare in quella che si definisce comunione de residuo ed a cui fanno riferimento le lettere b) e c) dell’art. 177 c.c.

Nella comunione legale, infatti, il patrimonio dei coniugi può dirsi costituito da tre categorie di beni, e precisamente:
  1. beni in comunione immediata o attuale (sono tali quelli di cui al primo comma lett. a e d dell’art. 177 c.c.);
  2. beni in comunione de residuo o differita, ossia i beni destinati ad entrare nel patrimonio comune allo scioglimento del regime legale, se e nella misura in cui non siano stati consumati (artt. 177 lett. b e c ed art. 178 c.c.);
  3. beni personali: sono tali quelli a cui fa riferimento l’art. 179 c.c.

Per quanto concerne in particolare gli acquisti che hanno ad oggetto titoli di credito (non possono che definirsi tali quelli a cui si fa riferimento nel quesito), secondo parte della dottrina per stabilire se cadono in comunione ai sensi del primo comma lett. a) dell’art. 177 c.c. è necessario distinguere tra l'ipotesi in cui il titolo di credito ha carattere strumentale (è questo il caso di una cambiale o di un assegno, i quali si ritiene che possano cadere in comunione a seconda della natura personale o comune del credito incorporato), dall’ipotesi in cui ha natura di investimento.

E’ quest’ultimo il caso dei titoli obbligazioni o di debito pubblico, dei quali si riconosce tendenzialmente la natura comune, salvo a discutere se entrino in comunione immediatamente ex art. 177 comma 1 lett. a) ovvero soltanto nel momento in cui si verifica una causa di scioglimento della stessa ex art. 177 comma 1 lett. c).
Della specifica questione dell’acquisto di obbligazioni societarie mediante l’impiego di proventi dell’attività separata di uno dei coniugi (ai quali possono senza alcun dubbio essere assimilate le somme di provenienza ereditaria) si è occupata la Corte di Cassazione con sentenza n. 21098/2007, giungendo alla conclusione che tale forma di acquisto trasforma il provento in un bene diverso, costituente forma di investimento e che come tale entra a far parte della comunione legale, ex art. 177, 1° co., lett. a.
Questo ciò che si legge nella sentenza appena citata:
Le obbligazioni societarie sono titoli, al portatore o nominativi, offerti ai risparmiatori a fronte di un'operazione di finanziamento, di durata più o meno lunga, destinati alla circolazione, i quali fruttano un interesse che può essere fisso o indicizzato a determinati parametri prestabiliti. Appartengono alla categoria dei titoli di massa ed hanno, nel corso della loro durata, un valore che può essere molto diverso da quello di emissione e di rimborso, collegato alle fluttuazioni del mercato in relazione all'andamento generale dei tassi d'interesse, nonché all'affidabilità dell'emittente che può a sua volta mutare nel tempo in relazione alle sue fortune economiche alla cui solidità finanziaria è legata la rischiosità (nonché, di solito, la stessa rimunerazione dell'investimento), non essendo, di regola, garantita la certa e integrale restituzione del capitale ed il pagamento degli interessi. Esse costituiscono, pertanto, una forma d'investimento del denaro non assimilabile in alcun modo al deposito bancario in conto corrente, il cui saldo non rientra nella comunione dei beni ex art. 177, comma 1, lett. a, c.c., proprio perché non rappresenta una forma d'investimento dello stesso, rientrando invece solo nella comunione de residuo ai sensi dell'art. 177, comma 1, lett. c, c.c. Ne consegue che l'acquisto di obbligazioni societarie, comportando l'impiego del denaro, provento dell'attività personale e separata di uno dei coniugi, in un bene giuridico diverso costituente una forma d'investimento, trasforma il "provento" dell'attività separata in un quid alii che, secondo la regola generale posta dall'art. 177, comma 1, lett. a, c.c., per tutti gli acquisti compiuti da ciascun coniuge in regime di comunione legale con i proventi della propria attività, entra a far parte della comunione legale immediata e non della comunione de residuo ai sensi dell'art. 177, comma 1, lett. c, c.c.”.

Sulla scorta di quanto fin qui detto, dunque, la risposta che si ritiene di dover dare non può essere che la seguente: sia il denaro di provenienza ereditaria depositato sul conto corrente intestato in via esclusiva al de cuius che i titoli acquistati con tale denaro e con i proventi ricavati dai medesimi titoli entrano nella c.d. comunione de residuo ex art. 179 lett. f) c.c., con la conseguenza che andranno in successione solo in ragione del 50%, mentre per il restando 50% saranno da considerare di proprietà esclusiva del coniuge superstite.


Anonima chiede
martedì 25/05/2021 - Emilia-Romagna
“Dopo 36 anni di matrimonio mi sono separata non legalmente da mio marito sono scappata senza separrmi a causa delle continue violenze subite da mio marito nell'arco dei 36 anni.
Mio marito classe 1932 ha 18 ani più di me che sono del 1950, mio figlio vuole vendere la casa colonica di suo padre prima che io ne entri in possesso come erede legittima, ha trovato un acquirente a un prezzo svenduto che sono 3 mesi che aspettano il mutuo della banca che non è ancora arrivato.
Io voglio impedire la vendita della mia casa tanto amata. La voglio comprare. Io posso avere diritto di comprarla anche se gli acquirenti hanno dato una caparra di 10 mila euro e sono tre mesi che aspettano il mutuo che non è ancora arrivato? Posso fare valere i miei diritti di moglie picchiata per 36 anni da un marito violento e che si vuole riappropiare della casa del marito come avente diritto a comprare la casa coniugale?”
Consulenza legale i 01/06/2021
Purtroppo non vi sono possibilità di impedire la vendita di quella che fu la casa coniugale, né, tantomeno, di ottenere l’usufrutto, l’abitazione o qualche altra forma di godimento della stessa.
Dai chiarimenti forniti in un secondo momento è emerso, infatti, che l’immobile sarebbe di proprietà esclusiva del marito, anche se acquistato nel periodo in cui tra i coniugi vigeva il regime della comunione legale, in forza di espressa rinuncia sottoscritta dalla moglie.
Stando a quanto riferito, in particolare, l’acquisto da parte del marito sarebbe avvenuto ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 179 c.c., il quale così prevede: “l'acquisto di beni immobili [...], effettuato dopo il matrimonio, è escluso dalla comunione, ai sensi delle lettere c), d) ed f) del precedente comma, quando tale esclusione risulti dall'atto di acquisto se di esso sia stato parte anche l'altro coniuge”.
Chiaramente, siamo in grado di formulare solo ipotesi, in quanto non è stato possibile esaminare alcun documento.
Inoltre, dal quesito è emerso anche come tra i coniugi sia in atto, da circa dieci anni, una separazione di fatto, mai formalizzata in tribunale.
Proprio il giudizio di separazione sarebbe stato l’unica sede in cui poter richiedere l’assegnazione della casa coniugale; tuttavia, l’assegnazione della casa coniugale è strettamente collegata alla convivenza con figli minori o maggiorenni non autosufficienti, e il figlio della coppia non si trovava probabilmente in questa condizione al momento del volontario (per quanto giustificato) allontanamento della madre da casa.
Comprendiamo di essere di fronte ad una vicenda dolorosa, che, peraltro, con la dovuta assistenza, avrebbe potuto essere denunciata nelle opportune sedi; tuttavia, allo stato, non vi sono strumenti giuridici per impedire la vendita o per ottenere di abitare in quella che - peraltro ormai da molti anni - non è più l’abitazione familiare.

PASQUALE . . F. chiede
mercoledì 23/09/2020 - Puglia
“Ho acquistato nel 2012 un appartamento unitamente a mia moglie con la quale sono sposato dal 2001 n regime di comunione di beni. L'appartamento è cointestato al 50% per ciascuno. Contestualmente all’acquisto i genitori di mia moglie hanno, a suo dire, regalato (non donato) la somma di € 70000,00 che sono stati utilizzati volontariamente da mia moglie in parte per la ristrutturazione dello stesso e in parte per l’acquisto di nuovi mobili; ho citato poc'anzi la frase “a suo dire” perché in realtà mia moglie sin da poco tempo dopo il nostro matrimonio presta assistenza quotidiana dal lunedì alla domenica (togliendo così tempo per la nostra famiglia) ai suoi genitori anziani (ovvero fa le pulizie domestiche, la spesa, accompagna i suoi agli studi medici e specialistici, ecc…) e di contro i suoi genitori, in virtù di ciò non potendo contrattualizzarla da un punto di vista lavorativo perché all’epoca non era possibile stipulare un contratto di lavoro tra genitori e figlia, anziché retribuirla economicamente le hanno messo da parte col tempo la somma sopra menzionata; per cui a mio avviso quei soldi sono della nostra famiglia come quelli che io porto in casa con il mio lavoro. Per acquistare l’appartamento sono stati utilizzati in parte i proventi della vendita di un altro appartamento anch’esso acquistato dopo il matrimonio e cointestato al 50% per ciascuno e una parte di mutuo (cointestato ad entrambi) le cui rate sono pagate esclusivamente con il mio stipendio che costituisce l’unica e sola entrata in accredito sul conto corrente bancario. Dopo quasi un anno dall’acquisto del nuovo appartamento, mia moglie mi ha obbligato (contro la mia volontà), ripetendomi in continuazione e per molto tempo la frase “se mi ami veramente mi devi sottoscrivere questa richiesta”, a sottoscrivere una scrittura privata della quale non ho copia (non registrata da nessuna parte né tanto meno in presenza di alcun testimone) nella quale io dichiaro che se nel caso ci dovessimo separare, in futuro, io dovrò riconoscerle tra le altre spettanze previste per legge anche la somma di € 70.000,00 in quanto soldi regalati dai suoi genitori.
Le mie domande, alle quali vorrei riscontro, sono le seguenti:
1) dovrò restituire tale somma a mia moglie in caso di separazione? Oppure ci sono i presupposti per oppormi a tale richiesta? In considerazione anche del fatto che se mia moglie avesse sin da subito, ovvero contestualmente all’acquisto dell’appartamento, espresso la sua volontà di riavere la somma dei € 70.000,00 in caso di separazione futura, io avrei potuto anche desistere dall’acquisto di quell’appartamento in favore di un altro meno costoso e quindi di conseguenza non utilizzare più la somma di € 70000,00 messa volontariamente da lei a disposizione. Invece lei dopo quasi un anno dall’acquisto ha preteso la mia sottoscrizione della scrittura privata di cui sopra.
2) premesso che la scrittura privata è stata fatta con riferimento preciso all’acquisto del nuovo appartamento, se quest’ultimo venisse venduto (su libera e comune decisione di entrambi) e successivamente con la somma della vendita ne venisse comprato un altro, quella scrittura privata avrebbe ancora validità legale oppure no?
Ringrazio anticipatamente per la consulenza.”
Consulenza legale i 06/10/2020
Per rispondere al presente quesito occorre, innanzitutto, esaminare la “sorte” della somma di euro 70.000,00 donata alla moglie dai genitori di lei: risulta infatti difficile ipotizzare che si tratti di qualcosa di diverso da una donazione, effettuata magari per naturale spirito di liberalità nei confronti della figlia, oltre che per “ricompensare” in qualche modo l’assistenza che quest’ultima avrebbe prodigato nei loro confronti. In altre parole, non appare possibile sostenere in maniera convincente che si tratti di una vera e propria retribuzione per l’assistenza prestata, assistenza che peraltro può benissimo farsi rientrare nelle normali attività di accudimento prestate da un figlio verso i genitori divenuti anziani.
Ora, la sorte delle donazioni effettuate, in costanza di matrimonio, in favore di uno dei coniugi è stabilita dall’art. 179 del c.c., lett. b), secondo cui non cadono in comunionei beni acquisiti successivamente al matrimonio per effetto di donazione o successione, quando nell'atto di liberalità o nel testamento non è specificato che essi sono attribuiti alla comunione”.
Ora, è vero che l’art. 782 del c.c. prescrive per le donazioni la forma dell’atto pubblico sotto pena di nullità; tuttavia, la seconda parte dell’art. 179, lett. b) c.c. fa riferimento alla definizione più ampia di “atto di liberalità”.
Tra l’altro, stando a quanto riferito nel quesito non si tratterebbe neppure di donazione indiretta da parte dei genitori, che si configurerebbe nel caso in cui questi avessero fornito denaro per l’acquisto dell’immobile, in quanto risulta che nel nostro caso l’utilizzo della somma ricevuta per ristrutturare e arredare l’immobile sia dipeso da una libera scelta della figlia. In ogni caso, secondo la Cassazione, anche la donazione indiretta comporta l’esclusione dalla comunione (si veda Cass. Civ., Sez. II, n. 31978/2018: “nell'ipotesi in cui un soggetto abbia erogato il danaro per l'acquisto di un immobile in capo al proprio figlio, si deve distinguere il caso della donazione diretta del danaro, in cui oggetto della liberalità rimane quest'ultimo, da quello in cui il danaro sia fornito quale mezzo per l'acquisto dell'immobile, che costituisce il fine della donazione. In tale secondo caso, il collegamento tra l'elargizione del danaro paterno e l'acquisto dell'immobile da parte del figlio porta a concludere che si è in presenza di una donazione indiretta dell'immobile stesso, e non già del danaro impiegato per il suo acquisto. Ne consegue che, in tale ipotesi, il bene acquisito successivamente al matrimonio da uno dei coniugi in regime di comunione legale è ricompreso tra quelli esclusi da detto regime, ai sensi dell'art. 179 c.c., lett. b), senza che sia necessario che il comportamento del donante si articoli in attività tipiche, essendo invece sufficiente la dimostrazione del collegamento tra il negozio-mezzo con l'arricchimento di uno dei coniugi per spirito di liberalità”).
Deve, dunque, concludersi che la somma donata dai genitori alla figlia sia esclusa dalla comunione, ex art. 179 lett. b) del c.c.
Tuttavia, la medesima somma è stata utilizzata dalla figlia per ristrutturare e arredare l’immobile acquistato in comproprietà col marito.
Ora, la questione delle spese sostenute da uno dei coniugi per acquistare, o per migliorare, l’immobile di proprietà comune è stata ampiamente dibattuta. Recentemente la Cassazione (si veda Sez. III, n. 24160/2018) ha ammesso in tali ipotesi la figura della donazione indiretta, purché ciò avvenga durante il matrimonio, prima della separazione: “l'attività con la quale il marito fornisce il denaro affinché la moglie divenga con lui comproprietaria di un immobile è riconducibile nell'ambito della donazione indiretta, così come sono ad essa riconducibili, finché dura il matrimonio, i conferimenti patrimoniali eseguiti spontaneamente dal donante, volti a finanziare lavori nell'immobile, giacché tali conferimenti hanno la stessa causa della donazione indiretta. Tuttavia, dopo la separazione personale dei coniugi, analoga finalità non può automaticamente attribuirsi ai pagamenti fatti dal marito o alle spese sostenute per l'immobile in comproprietà, poiché in tale ultimo caso non può ritenersi più sussistente la finalità di liberalità e tali spese dovranno considerarsi sostenute da uno dei comproprietari in regime di comunione, con l'applicazione delle regole ordinarie ad essa relative”.
Dal carattere di donazione indiretta deriva, pertanto, l’irripetibilità, cioè l’impossibilità di chiedere il rimborso, delle spese fatte per l’immobile comune in costanza di matrimonio (prima della separazione).
Nel nostro caso, tuttavia, la questione è ulteriormente complicata dalla presenza della scrittura privata menzionata nel quesito. Purtroppo, sul punto occorre chiarire che non è possibile fornire una risposta certa, senza conoscere in maniera precisa il testo della stessa. Sembra, peraltro, che in essa si faccia espresso riferimento all’acquisto dell’appartamento; tuttavia, senza una conoscenza precisa del contenuto non sarebbe neppure serio effettuare valutazioni circa l’efficacia e la validità di tale dichiarazione. Qualora chi pone il quesito sia in grado di riportare con esattezza il contenuto dell'atto firmato (sempre che la memoria non tradisca), la Redazione rimane a disposizione per fornire ulteriori chiarimenti.

Eliana D. N. chiede
mercoledì 06/11/2019 - Campania
“Sono sposata da 13 anni in seconde nozze per entrambi e siamo in comunione di beni.
Io non ho figli mentre mio marito ne ha avuti due, ormai maggiorenni, dal precedente matrimonio.Sono in procinto di acquistare un immobile a mie uniche spese e mio marito è consenziente ad accettare che tale acquisto rientri nella categoria dei miei beni personali.Vorrei gentilmente sapere se mio marito può attuare tale rinuncia all'atto di acquisto e soprattutto se tale rinuncia eviti che un domani i figli di mio marito possano avanzare delle pretese su tale immobile e qualora ciò fosse possibile cosa posso fare per evitare che i figli di mio marito diventino anch'essi proprietari di questo immobile acquistato unicamente da me medesima.
Vi ringrazio tanto
Eliana”
Consulenza legale i 12/11/2019
La disciplina dei beni personali dei coniugi, cioè di quelli che non costituiscono oggetto della comunione dei beni, è contenuta nell’art. 179 del c.c.
Il primo comma della norma stabilisce che sono tali:
a) i beni di cui, prima del matrimonio, il coniuge era proprietario o rispetto ai quali era titolare di un diritto reale di godimento;
b) i beni acquisiti successivamente al matrimonio per effetto di donazione o successione, quando nell'atto di liberalità o nel testamento non è specificato che essi sono attribuiti alla comunione;
c) i beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge ed i loro accessori;
d) i beni che servono all'esercizio della professione del coniuge, tranne quelli destinati alla conduzione di una azienda facente parte della comunione;
e) i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno nonché la pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa;
f) i beni acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopraelencati o col loro scambio purché ciò sia espressamente dichiarato all'atto dell'acquisto.

Ma è il secondo comma dell’articolo in commento ad interessare particolarmente nel nostro caso: esso prevede, infatti, che l'acquisto di beni immobili (o di beni mobili iscritti in pubblici registri), “effettuato dopo il matrimonio, è escluso dalla comunione, ai sensi delle lettere c), d) ed f) del precedente comma, quando tale esclusione risulti dall'atto di acquisto se di esso sia stato parte anche l'altro coniuge”.
Nel tempo, la giurisprudenza ha precisato la portata, non chiarissima, di tale ultima disposizione.
In particolare, secondo Cass. Civ., Sez. II, ord., n. 29342/2018, “la dichiarazione resa nell'atto dal coniuge non acquirente, ai sensi dell'art. 179, comma 2°, c.c., in ordine alla natura personale del bene, si pone come condizione necessaria ma non sufficiente per l'esclusione del bene dalla comunione, occorrendo a tal fine non solo il concorde riconoscimento da parte dei coniugi della natura personale del bene, richiesto esclusivamente in funzione della necessaria documentazione di tale natura, ma anche l'effettiva sussistenza di una delle cause di esclusione dalla comunione tassativamente indicate dall'art. 179, comma 1°, lett. c), d) ed f), c.c.”.
Ed ancora, secondo Cass. Civ., Sez. II, ord. n. 24719/2017, “nei rapporti patrimoniali tra coniugi in regime di comunione legale, la dichiarazione resa dal coniuge non acquirente in ordine alla natura personale di un immobile acquistato non ha portata dispositiva, bensì può rilevare come prova dell'esistenza dei presupposti di fatto a cui la legge relaziona l'esclusione dalla comunione".

Tali principi, del resto, erano già stati espressi dalle Sezioni Unite, con la sentenza n. 22755/2009: “l'intervento adesivo del coniuge [...] non rileva come atto negoziale di rinuncia alla comunione e, qualora la natura personale del bene che viene acquistato sia dichiarata solo in ragione di una sua futura destinazione, sarà l'effettività di tale destinazione a determinarne l'esclusione dalla comunione, non certo la pur condivisa dichiarazione di intenti dei coniugi sulla sua futura destinazione” (nel caso di specie, la S.C. aveva ritenuto rientrante nella comunione legale l'immobile che, benché acquistato dal coniuge come bene personale, era stato in realtà destinato a casa coniugale).
Dunque, per poter escludere dalla comunione un immobile acquistato durante il matrimonio, non è sufficiente che tale esclusione risulti dall’atto di acquisto (alla cui stipula sia intervenuto l’altro coniuge), ma occorre, altresì, che il bene rientri effettivamente in una delle tre categorie indicate dal secondo comma dell’art. 179 c.c. (quindi beni di uso strettamente personale, o beni destinati all'esercizio della professione del coniuge acquirente, oppure beni acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali).

Nel nostro caso, l’immobile da acquistare potrebbe farsi rientrare nella categoria di cui alla lettera c), cioè quella dei beni di uso strettamente personale.
Sempre la Cassazione (Sez. III, sent. n. 14575/2000), ha chiarito che per “uso personale” del bene deve intendersi “la disponibilità esclusiva della sua utilizzazione da parte del coniuge, anche se tramite altro soggetto. Detta disponibilità esclusiva non viene meno se il coniuge, che ne è titolare, permetta che l'altro coniuge possa utilizzare il bene in specifiche circostanze e condizioni, come un terzo. In questo caso, infatti l'altro coniuge, come un qualsiasi terzo, utilizza il bene non per diritto suo proprio, quale comproprietario, ma per effetto del consenso dell'unico titolare del diritto di disporne”.

Lucio S. chiede
giovedì 16/05/2019 - Sardegna
“Sono in fase di separazione giudiziale. il contendere riguarda un conto cointestato, a firma congiunta, attivato nel primo anno di matrimonio. mia moglie non ha mai effettuato alcuna operazione su quel conto, anche perché' ne aveva uno alle poste del quale era l'unica intestataria, ad eccezione di un prelevamento relativo ad una somma residua che avevo lasciato in deposito per pagare il mutuo del fotovoltaico, quando ho trasferito tutto su altro conto, rendendomi conto che la mia consorte voleva prosciugarlo per prima. sul conto corrente congiunto, dal quale provvedevo a tutte le spese del menage familiare, transitavano soltanto i miei emolumenti, il mio tfr, l'eredita' di una mia zia e la meta' del ricavato di una casa dei miei genitori. mia moglie pretende il 50% delle somme ivi depositate. esistono specifiche sentenze in merito? ringrazio.”
Consulenza legale i 31/05/2019
La cointestazione di un conto, a prescindere dal regime patrimoniale scelto dai coniugi (comunione o separazione dei beni) fa presumere la comproprietà del saldo nella misura della metà ciascuno.
Pertanto, in caso di separazione coniugale, ognuno dei coniuge avrà diritto alla metà dell’importo disponibile sul conto.
Questa presunzione si desume principalmente dalla combinazione dell’art. 1298 c.c. “nei rapporti interni l’obbligazione si divide tra i diversi creditori.” e dell’art. 1101 c.c. “le quote dei partecipanti alla comunione si presumono uguali”.
Tale presunzione di contitolarità, in caso sia stato scelto il regime di separazione dei beni, può essere superata laddove un coniuge, in sede di separazione personale, dimostri al giudice che l’effettiva percentuale di denaro che rientra nella sua titolarità è superiore alla metà (“La cointestazione di un conto corrente dà luogo a una presunzione di contitolarità dell’oggetto del contratto che può essere superata in presenza di risultanze di segno opposto”- Corte di Cassazione n.19115/2012).
Sul punto, anche la recente sentenza della Cassazione n.77/2018 ha sottolineato che: “ nel conto corrente bancario intestato a più persone, i rapporti interni tra correntisti, anche aventi facoltà di compiere operazioni disgiuntamente, sono regolati non dall'art. 1854 c.c., riguardante i rapporti con la banca, bensì dal secondo comma dell'art. 1298 c.c., in virtù del quale debito e credito solidale si dividono in quote uguali solo se non risulti diversamente; ne consegue che, ove il saldo attivo risulti discendere dal versamento di somme di pertinenza di uno solo dei correntisti, si deve escludere che l'altro possa, nel rapporto interno, avanzare diritti sul saldo medesimo. Peraltro, pur ove si dica insuperata la presunzione di parità delle parti, ciascun cointestatario, anche se avente facoltà di compiere operazioni disgiuntamente, nei rapporti interni non può disporre in proprio favore, senza il consenso espresso o tacito dell'altro, della somma depositata in misura eccedente la quota parte di sua spettanza, e ciò in relazione sia al saldo finale del conto, sia all'intero svolgimento del rapporto.”

Nella presente vicenda, non è stato specificato se era stato scelto il regime di separazione o comunione legale.

Ad ogni modo, leggiamo nel quesito che gli importi contenuti nel conto corrente sono relativi esclusivamente al Suo tfr, ad una Sua eredità e alla metà del ricavato della casa dei Suoi genitori. Quindi, anche ipotizzando vi sia un regime di comunione legale dei beni, si tratterebbe comunque di beni personali ai sensi dell’art. 179 c.c.
A tal proposito, la Cassazione ha sottolineato che il denaro personale “rimane nella esclusiva disponibilità del coniuge alienante anche quando esso venga, come nella specie, dal medesimo coniuge depositato sul proprio conto corrente. Questa titolarità non muta in conseguenza della mera circostanza che il denaro sia stato accantonato sotto forma di deposito bancario, giacché il diritto di credito relativo al capitale non può considerarsi modificazione del capitale stesso, né è d'altro canto configurabile come un acquisto nel senso indicato dall'articolo 177, primo comma, lettera a), codice civile, cioè come un'operazione finalizzata a determinare un mutamento effettivo nell'assetto patrimoniale del depositante"(Cass. civ., n. 1197/2006).
Tale principio è applicabile anche nel caso di conto cointestato, con la precisazione che in tal caso va provata la provenienza delle somme.

Alla luce quindi della posizione della giurisprudenza sul tema, possiamo affermare che la richiesta di Sua moglie di ottenere il 50% può essere agevolmente contestata sia in caso di regime di separazione dei beni che di comunione legale.

Alessandro C. chiede
venerdì 10/05/2019 - Lombardia
“Buongiorno,
L'anno prossimo convolerò a nozze con la mia attuale fidanzata, ci sposeremo in chiesa.

Viviamo in una casa di mia proprietà (sita nella provincia di Milano) per cui solo io personalmente ho acceso il mutuo tre anni fa (e di cui mio padre è garante).

Ambedue siamo lavoratori dipendenti a te po' indeterminato, lei commessa, io consulente informatico.

Dal momento che, durante la cerimonia, ci troveremo a scegliere per la separazione o la comunione dei beni (io sono perla separazione, lei per la comunione) come la casa di mia proprietà verrebbe destinata qualora ci fosse una causa di separazione successiva al matrimonio in questi casi:

Caso 1. Regime di comunione dei beni, la coppia si separa dopo avere celebrato il matrimonio senza avere concepito bambini.

Caso 2. Regime di comunione dei beni, la coppia si separa dopo avere celebrato il matrimonio dal quale è stato concepito un bambino.

Caso 3. Regime di separazione dei beni, la coppia si separa dopo avere celebrato il matrimonio senza avere concepito bambini.

Caso 4. Regime di separazione dei beni, la coppia si separa dopo avere celebrato il matrimonio dal quale è stato concepito un bambino.



Grazie”
Consulenza legale i 17/05/2019
In primo luogo va chiarito che la casa – essendo bene di cui il marito era titolare in via esclusiva prima del matrimonio – non rientra nella comunione legale dei coniugi (art. 179, 1° comma, lettera a, c.c.).
Pertanto, indipendentemente dal regime patrimoniale adottato dai coniugi, l’abitazione, così come ogni altro bene, di cui uno dei coniugi era titolare prima del matrimonio rimane di quest’ultimo e non rientra nella comunione.

Ciò detto, una cosa è il regime patrimoniale scelto, altra cosa sono gli accordi che si raggiungono (oppure le disposizioni che il Giudice adotta) a seguito di separazione dei coniugi. Nel rispondere alle domande, dunque, non si distinguerà il caso della comunione o della separazione, perché del tutto irrilevante rispetto agli accordi di separazione.

Nel caso più semplice, in cui non ci siano figli, il Giudice non può assegnare la casa coniugale all’uno o all’altro ma è tenuto a rispettare la proprietà: pertanto, la casa viene considerata bene personale del coniuge cui è intestata e rimane nella sua piena disponibilità. Ciò salvo diverso accordo tra le parti, ovviamente, che è sempre possibile.

Nel caso, invece, in cui vi siano uno o più figli, la casa coniugale viene di regola assegnata al coniuge che ottiene l’affidamento esclusivo del figlio oppure presso il quale il figlio viene collocato in via prevalente. Si sta parlando di figlio minorenne, o maggiorenne ma non autosufficiente.
L’obiettivo è quello di tutelare esclusivamente l’interesse dei figli a conservare il loro habitat domestico. Si applica nei procedimenti di separazione dei coniugi, di divorzio, ma anche in quelli relativi ai figli nati da coppie non sposate.

In questi casi il coniuge cosiddetto “collocatario” assume un vero e proprio diritto di godimento sull’immobile. Per le stesse finalità di protezione dei figli è previsto che gli arredi presenti nella casa familiare, necessari al soddisfacimento delle loro esigenze, vi rimangano, indipendentemente dalla proprietà.

Il diritto di godere della casa familiare, evidentemente, determina una “compressione” del diritto di proprietà: il coniuge titolare, quindi, non potrà disporne liberamente ma sarà tenuto al rispetto dei diritti di godimento, utilizzo ed abitazione del coniuge assegnatario.

Giuseppe M. chiede
martedì 01/05/2018 - Calabria
“Buon giorno,
Vorrei sposarmi, sono divorziato ed ho tre figli di cui uno minore.

Vorrei sapere se i beni mobili ed immobili di cui sono unico proprietario saranno nella mia piena disponibilità durante il matrimonio ovvero se potrò donarli o venderli. Inoltre se potrò disporre, nel testamento, che essendo beni acquisiti prima del matrimonio devono essere destinati ai miei figli ? Un accordo pre-matrimoniale in tal senso ha valore ?

N.B. 1) Poco fa ho scritto una richiesta analoga a questa ma il PC è tornato alla pagina iniziale cancellandola. Se vi sono arrivate due richieste analoghe è ovvio che la risposta è una sola.”
Consulenza legale i 23/05/2018
Secondo il codice civile, sono considerati beni personali del coniuge e non costituiscono oggetto della comunione i beni di cui, prima del matrimonio, il coniuge era proprietario o rispetto ai quali era titolare di un diritto reale di godimento (art. 179 del c.c., lett. a).
Per completezza, lo stesso articolo elenca ulteriori categorie di beni considerati personali e dunque esclusi dalla comunione legale anche nell’ipotesi in cui vengano acquistati dopo le nozze. Si tratta dei seguenti:
  • i beni acquisiti successivamente al matrimonio per effetto di donazione o successione, quando nell'atto di liberalità o nel testamento non è specificato che essi sono attribuiti alla comunione (lett. b);
  • i beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge ed i loro accessori (lett. c);
  • i beni che servono all'esercizio della professione del coniuge, tranne quelli destinati alla conduzione di una azienda facente parte della comunione (lett. d);
  • i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno nonché la pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa (lett. e);
  • i beni acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopraelencati o col loro scambio, purché ciò sia espressamente dichiarato all'atto dell'acquisto (lett. f).
Inoltre, sempre per completezza, va ricordato che, ai sensi del secondo comma dell’art. 179 c.c., l'acquisto di beni immobili o di beni mobili registrati, anche qualora sia effettuato dopo il matrimonio, è escluso dalla comunione se si tratta di beni previsti dalle lettere c), d) ed f) del precedente comma e purché tale esclusione risulti dall'atto di acquisto in cui sia intervenuto anche l'altro coniuge.


Ciascun coniuge ha il godimento e l'amministrazione dei beni di cui è titolare esclusivo, come disposto dall’art. 217, comma 1 del c.c. (dettato con riferimento al regime di separazione dei beni, ma certamente applicabile anche ai beni personali in caso di comunione legale).
L’amministrazione dei beni comprende anche gli atti di straordinaria amministrazione, cioè quelli che modificano o alterano la consistenza del patrimonio, come gli atti di disposizione (tra questi, appunto, la vendita).

Quanto alla donazione - che costituisce anch’essa un atto di disposizione - occorre fare un discorso leggermente diverso.
Infatti i beni personali del coniuge (in particolare, per quanto qui interessa, quelli acquistati prima del matrimonio), pur non confluendo nella comunione legale, costituiranno, alla morte del proprietario, oggetto di successione ereditaria, in quanto parte del patrimonio di quest’ultimo.
Pertanto la possibilità per il coniuge di donare in vita i propri beni incontra il limite del rispetto della quota di riserva che la legge (artt. 536 ss. c.c.) garantisce in caso di successione mortis causa ai cosiddetti legittimari, ovvero al coniuge, ai figli e agli ascendenti.
Nel caso di lesione della legittima, l’art. 555 del c.c. prevede che le donazioni il cui valore eccede la quota della quale il defunto poteva disporre sono soggette a riduzione fino alla quota medesima.
Tuttavia si può procedere alla riduzione delle donazioni solo dopo che sia stato esaurito il valore dei beni di cui è stato disposto per testamento.

Analogo discorso va fatto per le disposizioni testamentarie. Il coniuge che sia titolare di beni personali ex art. 179 c.c. potrà disporne, in linea teorica, nel proprio testamento attribuendoli ai propri figli. Dovrà tuttavia avere cura di rispettare la quota di riserva spettante ai legittimari e pertanto anche al coniuge.
Diversamente, il coniuge che lamenti una lesione della propria quota di riserva potrà proporre azione di riduzione, ai sensi dell’art. 554 del c.c.: “le disposizioni testamentarie eccedenti la quota di cui il defunto poteva disporre sono soggette a riduzione nei limiti della quota medesima”.

Quanto all’ultima questione sollevata, ad avviso di chi scrive un “accordo prematrimoniale” tale da stabilire che, al momento della morte del coniuge, i beni personali di quest’ultimo saranno attribuiti ai suoi figli e non al coniuge, non sarebbe ammissibile perché si scontrerebbe con il divieto dei patti successori vigente nel nostro ordinamento.
In particolare, l’art. 458 del c.c. colpisce con la sanzione della nullità ogni convenzione con cui taluno dispone della propria successione, nonché ogni atto col quale taluno dispone dei (o rinunzia ai) diritti che gli possono spettare su una successione non ancora aperta.
L’unica eccezione contemplata dalla norma riguarda gli artt. 768 bis ss. c.c. in materia di patto di famiglia (si tratta del contratto con cui, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie, l'imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l'azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti).

Alberto A. chiede
domenica 20/11/2016 - Toscana
“Volevo sapere se cadono in comunione dei beni delle obbligazioni comprate dal 2006 al 2016 con soldi che provengono dal mio indennizzo ricevuto nel 2006 per invalidità civile e dal 2006 in pensione come invalido civile.A luglio del 2016 abbiamo annullato con atto notarile la comunione dei beni,la domanda che vi chiedo è se mio moglie ha diritto alla metà. Faccio presente che abbiamo sempre avuto conti correnti separati anche in banche diverse.Viviamo sempre insieme ma che succede se ci separiamo?
Distinti saluti”
Consulenza legale i 25/11/2016
La soluzione del caso che si propone si rinviene nelle norme dettate dal codice civile in materia di comunione legale, ed in particolare nel disposto di cui all’art. 179.
Stabilisce tale norma che non costituiscono oggetto della comunione e sono beni personali del coniuge “la pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa” “nonché i beni acquistati con il prezzo del trasferimento dei beni personali elencati nella stessa norma o col loro scambio, purché ciò sia espressamente dichiarato all’atto dell’acquisto”.

Altra norma cui fare riferimento è quella contenuta nell’art. 177 lett.a) c.c., il quale stabilisce invece che costituiscono oggetto della comunione gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali.
Dunque, da una semplice lettura di tali norme sembra potersi desumere che, pur se i redditi da pensione di invalidità civile così come l’indennizzo debbano farsi rientrare tra i beni personali, nel momento in cui tali proventi vengono però utilizzati per l’acquisto di altri beni, quali le obbligazioni del caso di specie, sia che tale acquisto venga effettuato insieme o separatamente dai coniugi, le obbligazioni entreranno a far parte della comunione ex art. 177 lett.a) c.c.

Tuttavia, ad una tale interpretazione si è opposto per lungo tempo un consolidato filone giurisprudenziale, a mente del quale il regime di comunione legale di cui all’art. 177 c.c. coinvolgerebbe i soli acquisti di beni e non potrebbe invece inerire alla instaurazione di rapporti meramente creditizi, quale perfino l’apertura di un conto corrente bancario cointestato nel corso della convivenza coniugale o, appunto, l’acquisto di titoli obbligazionari.

In tal senso si è fatto osservare che il termine “acquisti” di cui all’art. 177 lett. a) c.c. debba correlarsi al termine “beni” utilizzato successivamente dal legislatore, da intendere esclusivamente nel senso di cose che possono formare oggetto di diritti secondo il disposto di cui all’art. 810 c.c., tra i quali non sarebbe possibile includere anche i diritti di credito.

Altra norma che avvalora tale tesi sarebbe quella contenuta nell’art. 1100 c.c., ai sensi del quale è possibile parlare di comunione solo con riferimento al diritto di proprietà ed agli altri diritti reali, mentre per i diritti di credito può parlarsi esclusivamente di “solidarietà attiva”, tradizionalmente intesa come insieme collegato di distinti rapporti giuridici di natura obbligatoria.

Sempre nel senso di una esclusione degli acquisti di titoli obbligazionari dalla comunione legale si è espressa quella tesi argomentativa secondo cui i contratti di deposito bancario producono una obbligazione restitutoria e non comportano alcun acquisto stabile e definitivo, sicché restano fuori dall’ambito di applicazione del meccanismo acquisitivo di cui all’art. 177 lett. a) c.c.; inoltre si fa anche osservare che le somme di denaro che in tali contratti di deposito confluiranno non potranno entrare a far parte del coacervo comune quando sarà riconoscibile la vicenda che ha dato luogo al loro acquisto e, pertanto, l’importo pecuniario rimarrà in proprietà esclusiva se ricevuto a titolo di risarcimento o quale pensione di invalidità.

Da quanto appena detto, dunque, non può che scaturirne che nel caso di specie saranno da ritenere di proprietà esclusiva i titoli obbligazionari acquistati con somme di denaro provenienti da indennizzo e invalidità civile e peraltro prelevate da un conto corrente bancario intestato al solo coniuge che effettua l’acquisto dei titoli.

Tuttavia, non può tacersi che contro tale corrente giurisprudenziale si è posto altro orientamento giurisprudenziale, inaugurato con Cass. Civ. 09/10/2007 n. 2058, secondo cui anche i diritti di credito sono suscettibili di entrare in comunione, facendosi osservare che, seppure i proventi dell’attività separata assumano la natura di beni personali durante la vigenza del regime comunitario, essi saranno destinati a cadere in comunione nel momento in cui verranno reimpiegati per l’acquisto di nuovi beni, tra cui le partecipazioni sociali, le quote in fondi comuni di investimento, ecc.
Sulla scorta di tale orientamento si è anche di recente pronunciato il Tribunale di Monza con sentenza del 26 marzo 2016.

Nel corpo di tale sentenza, però, si legge che, a prescindere dalla posizione che si intenda assumere riguardo al problema se il denaro possa essere considerato a tutti gli effetti un bene mobile, si ritiene sia più che ragionevole quantomeno assimilarlo ad un bene mobile dal punto di vista della sua appartenenza ad un determinato titolare, con la conseguenza che, pur avendo caratteristiche del tutto peculiari, dovrebbe al pari di un qualunque altro bene mobile appartenere ad uno o ad entrambi i coniugi.

Il fatto poi che venga custodito in banca mediante deposito bancario o in qualunque altro luogo, non dovrebbe poter incidere sulla sua titolarità e, proprio con riferimento al denaro depositato in banca, può dirsi che esso assuma natura di mero credito da restituzione e non di un credito relativo all’acquisto di un nuovo bene come invece richiede l’art. 177 co. 1° lett. a) c.c., non avendo ad oggetto un quid novi idoneo ad accrescere la comunione, ma solo la restituzione del tantundem precedentemente corrisposto.

Ciò porta dunque ad escludere che il conto bancario (sia quello intestato ad un solo coniuge che quello cointestato) sia di per sé idoneo a far parte della comunione legale per il solo fatto che mediante esso si sia costituito un diritto di credito dei coniugi in regime di comunione legale.

Inoltre, ciò che non deve perdersi di vista è la circostanza che, anche a voler aderire al secondo e più recente orientamento giurisprudenziale, trattasi di tesi sviluppata con riferimento precipuo al denaro frutto dei proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi, per i quali correttamente si ritiene che facciano parte del patrimonio personale di ciascuno dei coniugi pur se custoditi in un conto di deposito bancario finché però non si verifichi lo scioglimento della comunione o non vengano utilizzati per l’acquisto di nuovi beni.

Infatti, mentre nel caso di scioglimento della comunione troverà applicazione l’art. 177 co. 1° lett. c) del c.c. e tali proventi entreranno a far parte della c.d. comunione de residuo, nel caso di loro utilizzo per l’acquisto di altri beni, questi ultimi entreranno a far parte della comunione ex art. 177 co. 1° lett. a) c.c.
Proprio quest’ultimo è il caso affrontato nella sentenza del Tribunale di Monza sopracitata, postasi sulla scia del più recente orientamento giurisprudenziale in materia di diritti di credito sorti in costanza del regime di comunione legale; il tema affrontato, infatti, è quello degli investimenti compiuti dai coniugi nella vigenza del regime di comunione legale mediante trasferimento di somme dal conto corrente cointestato ad un conto titoli al medesimo collegato ma intestato soltanto a Caio. Orbene, a tal proposito, coerentemente si richiama quella giurisprudenza (tra cui Cass. Civ. 15 giugno 2012, n. 9845) che riconosce la caduta in comunione (immediata) delle quote di fondi comuni di investimento ai sensi dell’art. 177, co.1, lett. a) c.c., quand’anche acquistate mediante i proventi dell’attività separata di uno dei coniugi, sulla base del fatto che anche i crediti, così come i diritti a struttura complessa quali i diritti azionari, in quanto beni, sono suscettibili di entrare in comunione.

Tuttavia, ciò che va sottolineato è che nel caso all’esame di detta sentenza, l’acquisto degli strumenti di investimento viene realizzato utilizzando i proventi dell’attività separata del coniuge-investitore. Il nostro ordinamento, infatti, enucleando all’art. 177 co.1, lett.a) c.c. la regola generale sull’oggetto della comunione legale sancisce il principio della cd. “gratuità” del coacquisto, in forza del quale, per la caduta o meno in comunione di un determinato bene, risulta, di regola, irrilevante cosa sia stato utilizzato per il suo acquisto.
Una eccezione a tale principio si ha però in relazione a quei casi espressamente previsti in cui i beni rimangono personali o, al più, rientrano nella cd. comunione differita. La cd. surrogazione reale, ovvero quel principio in base al quale i beni acquistati devono seguire le “sorti” dei beni che sono stati utilizzati per il loro acquisto rileva come eccezione nelle ipotesi specificamente contemplate dalla legge e alle condizioni ivi previste.

Quanto sopra per dire che nel caso oggetto di questo parere si ritiene più corretto far rientrare la relativa fattispecie nella previsione di cui all’art. 179 lett. f) c.c., risultando i titoli obbligazionari frutto del reimpiego di beni personali ex lett. e) dello stesso articolo, ciò che sarà facilmente dimostrabile perché acquistati con denaro prelevato da un conto personale sul quale sono confluite somme anch’esse di natura personale.

Alfredo C. chiede
mercoledì 16/11/2016 - Lazio
“COME SI PUO' BLINDARE UNA PARTECIPAZIONE IN UNA SOCIETA' DI PERSONE, ANCHE AI FINI MATRIMONIALI?
GRAZIE E CORDIALI SALUTI”
Consulenza legale i 23/11/2016
Sui diritti che il coniuge può vantare sul patrimonio dell’altro coniuge occorre tenere nettamente distinte la situazione dei coniugi entrambi in vita da quella in cui sia deceduto uno di essi.
Per quel che concerne la prima – che poi è quella cui fa riferimento il quesito – affinché uno dei due possa mantenere un proprio patrimonio personale, occorre scegliere, in sede di matrimonio oppure successivamente (mediante apposita convenzione) il regime patrimoniale della separazione dei beni.
Va precisato che rimangono, in ogni caso (ovvero nonostante la scelta della comunione) nella piena disponibilità e proprietà di uno dei coniugi (sono definiti, cioè, “beni personali”): “a) i beni di cui, prima del matrimonio, il coniuge era proprietario o rispetto ai quali era titolare di un diritto reale di godimento; b) i beni acquisiti successivamente al matrimonio per effetto di donazione o successione, quando nell'atto di liberalità o nel testamento non è specificato che essi sono attribuiti alla comunione; c) i beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge ed i loro accessori; d) i beni che servono all'esercizio della professione del coniuge, tranne quelli destinati alla conduzione di un'azienda facente parte della comunione; e) i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno nonché la pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa; f) i beni acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopraelencati o col loro scambio, purché ciò sia espressamente dichiarato all'atto dell'acquisto (…)” (art. 179 cod. civ.)

In merito, dunque, al quesito particolare che ci occupa, se la partecipazione societaria era già nel patrimonio personale di uno dei due coniugi prima del matrimonio, essa rimarrà tale anche dopo quest’ultimo, indipendentemente dal fatto che sia stato scelto il regime della comunione o della separazione.

In comunione, invece, rientrano (art. 177 cod. civ.): “a) gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali; b) i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati allo scioglimento della comunione; c) i proventi dell'attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati; d) le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio. Qualora si tratti di aziende appartenenti ad uno dei coniugi anteriormente al matrimonio ma gestite da entrambi, la comunione concerne solo gli utili e gli incrementi”.

Come si vede, in relazione al caso degli utili e degli incrementi di aziende gestite da entrambi i coniugi ma appartenenti ad uno di solo di essi prima del matrimonio, l’azienda rimane nella titolarità esclusiva di un solo coniuge mentre gli utili e gli incrementi riconducibili alla gestione di entrambi (quindi solo in questo caso) cadono in comunione. I redditi personali dei coniugi, invece, che possono essere sia frutti dei loro beni personali sia proventi dell’attività separata, non ricadono in maniera automatica nella comunione legale. Essi non rientrano neppure tra i beni personali, ma si considerano oggetto della comunione ai soli fini della divisione se non sono stati consumati al momento dello scioglimento della stessa.

In conclusione, non servono operazioni particolari per “blindare” la partecipazione societaria in previsione di un’eventuale separazione e/o divorzio, perché basterà l’adozione del regime legale della separazione dei beni.

Diverso, invece, è il caso in cui uno dei due coniugi muoia: infatti, nel caso di successione legittima (ovvero in assenza di testamento), tutto il patrimonio (compresi i beni del coniuge che mentre era in vita erano personali: compresa dunque anche la partecipazione azionaria) viene suddiviso tra gli eredi, tra i quali rientra necessariamente il coniuge.
Per evitare che la partecipazione azionaria vada al coniuge dopo la propria morte, l’unica possibilità è quella di redigere un testamento, nel quale si disporrà che l’assegnazione della partecipazione stessa avvenga a favore di un determinato soggetto, diverso rispetto al coniuge.

Claudio V. chiede
giovedì 18/08/2016 - Friuli-Venezia
“Il sottoscritto è titolare di un indennizzo per danno da emotrasfusione ai sensi della L.210/92, ed il relativo importo viene periodicamente accreditato sul conto corrente cointestato con mia moglie, con la quale sono in regime di comunione dei beni. Tali importi sono stati, nel tempo, utilizzati anche per l'acquisto di titoli azionari a me intestati, senza che però venisse specificato al momento dell'acquisto la natura della provenienza del denaro e la volontà di considerare l'investimento come bene personale non oggetto di comunione. Essendo intenzionato prossimamente ad acquistare un immobile ad un'asta giudiziaria a titolo personale anziché in comunione dei beni, considerato che la provvista del denaro necessario proverrà dalla vendita preliminare dei suddetti titoli azionari, è corretto e legittimo il rilascio da parte mia e di mia moglie della dichiarazione secondo cui "L'aggiudicatario signor ... dichiara, ed il coniuge pure qui presente signora ... espressamente conferma e riconosce, che i beni di cui sopra sono esclusi dalla comunione e trattasi quindi di acquisto di beni personali del coniuge assegnatario-acquirente signor ... in quanto:
ai sensi dell'art. 179 comma 1°, lettera f) C.C., il relativo prezzo viene pagato con denaro costituente corrispettivo di trasferimento di beni personali di cui al medesimo art. 179 C.C., lettera E" ,
anche se gli importi degli indennizzi avevano cambiato veste essendo investititi in titoli azionari con le modalità sopra esposte?
Vi ringrazio dell'attenzione.”
Consulenza legale i 24/08/2016
Va preliminarmente chiarito se i titoli azionari di cui si parla nel quesito rientrino o meno nella comunione legale a sensi dell’art. 177 cod. civ. o meno. Occorrerebbe, pertanto, conoscere nello specifico cosa si intenda, di preciso, per “titoli azionari”.

In generale, affinché un “titolo” rientri nella comunione legale, occorre che esso rappresenti un “qualcosa in più”, di diverso, rispetto al denaro.

Pertanto assegni, cambiali, titoli obbligazionari, titoli di Stato, fondi di investimento, sono generalmente ritenuti esclusi dalla comunione perché sono forme di ricchezza che, per la loro liquidità, sono equiparabili al denaro e quindi, nell’ambito della comunione legale, sono soggette alla medesima disciplina di quest’ultimo.
Diversamente, i titoli azionari, in quanto non meri titoli di credito, ma di partecipazione, vengono pacificamente fatti rientrare nella comunione.
Si riportano, di seguito, alcune pronunce sul tema:

- “I titoli di partecipazione ad una società cooperativa acquistati, in costanza di matrimonio, da uno dei coniugi ed allo stesso intestati, sono suscettibili di essere compresi nel regime di comunione legale contemplata dall'art. 177, primo comma, lett. a), cod. civ., in tutti i casi in cui il carattere personale della partecipazione non sia recessivo di fronte al dato sostanziale preminente dell'estraneità del socio all'attività che costituisce l'oggetto sociale della cooperativa.” (Cassazione civile, sez. I, 18/09/2014, n. 19689);

- “I titoli di partecipazione azionaria acquistati, in costanza di matrimonio, da uno solo dei coniugi ed allo stesso intestati, sono suscettibili di essere compresi nel regime della comunione legale contemplata dall'art. 177, comma 1, lett. a), c.c.” (Cassazione civile, sez. I, 27/05/1999, n. 5172; conforme Cassazione civile, sez. I, 23/09/1997, n. 9355);

- “Le azioni di società costituiscono incrementi patrimoniali rientranti tra gli acquisti di cui all'art. 177, lett. a, c.c., e quindi nell'oggetto della comunione legale tra coniugi, in quanto, anche se esse non sono meri titoli di credito, ma titoli di partecipazione, l'aspetto patrimoniale è assolutamente prevalente rispetto ai diritti e agli obblighi connessi con lo status di socio in essi incorporato. Il passaggio delle azioni (quanto almeno per la componente patrimoniale data dal loro valore) in comproprietà dell'altro coniuge non è escluso dalla previsione dell'intrasferibilità delle azioni, eventualmente contenuta nello statuto sociale (Cassazione civile, sez. I, 18/08/1994, n. 7437);

- “Rientra nella comunione legale sussistente tra coniugi un dossier di titoli acquistato con denaro personale di uno di essi, ove non sia espressamente dichiarata nell'atto di acquisto la provenienza individuale delle somme. (Corte appello Genova, 22/04/2000);

- “Le azioni e le quote di società rientrano tra gli acquisti di cui all’art. 177, lett. a) c.c. e quindi ricadono in comunione legale tra i coniugi, in quanto, anche se non sono meri titoli di credito, ma titoli di partecipazione, l’aspetto patrimoniale è assolutamente prevalente rispetto ai diritti e agli obblighi connessi con lo “status” di socio ed in essi incorporato.” (Tribunale Salerno, 16/02/2007).

La dichiarazione richiesta dall’art. 179, lett. f, cod. civ., benché a forma libera per l’acquisto di beni mobili, non è valida se effettuata successivamente al contratto; la situazione, pertanto, di cui alla fattispecie in esame non potrebbe essere modificata ora, a posteriori.

Tuttavia, l’opinione attualmente maggioritaria tra gli studiosi ed in giurisprudenza, è che la medesima dichiarazione sia necessaria solo quando possano sorgere dubbi sull'effettiva natura personale del bene impiegato per l'acquisto, ivi compreso il denaro.

Si veda, a tal proposito, Cassazione civile, sez. I, 25/09/2008, n. 24061: “La dichiarazione prevista dall'art. 179, comma 1, lett. f, c.c. al fine di conseguire l'esclusione, dalla comunione legale, dei beni acquistati da un coniuge con il trasferimento di beni strettamente personali o con il loro scambio, pur non essendo facoltativa, ha, tuttavia, natura non dispositiva, ma ricognitiva della sussistenza dei presupposti per l'acquisto personale. La stessa, pertanto, è necessaria solo quando la natura dell'acquisto sia obbiettivamente incerta, per non essere accertato che la provvista necessaria costituisca reinvestimento del prezzo di beni personali”; conforme anche Cassazione civile, sez. II, 05/05/2010, n. 108559, che viene ritenuta la pronuncia di riferimento sul punto.

Ebbene, non pare che vi possano essere dubbi sulla natura personale, nel caso in esame, delle somme precedentemente ottenute dal coniuge a titolo risarcitorio (peraltro, a maggior ragione poiché si tratta di risarcimento per un danno di natura strettamente personale, come quello da emotrasfusione).

Pertanto, ad avviso di chi scrive, è possibile ritenere che le azioni siano state acquistate come bene personale la prima volta benché in difetto di espressa dichiarazione e che, di conseguenza, il prezzo della loro vendita possa essere utilizzato ora per un acquisto personale, stavolta sì previa dichiarazione, anche in forza del fatto che si tratta di acquisto di bene immobile, per cui sarà necessaria la forma scritta anche per la dichiarazione.

Gerardo R. chiede
venerdì 16/10/2015 - Lombardia
“Sono sposato da dicembre 1970 (in Svizzera dove avevo la residenza) in regime di comunione dei beni (entrambi italiani) e registrati in un paese del nord d'Italia
Ritornato in Italia con tutta la famiglia nel 1977 dove siamo rimasti fino al 2009, sono ritornato in Svizzera nel 2010 dove tutt'ora risiedo, mentre la consorte ha preso la residenza nel 2011 (stessa residenza per entrambi). I miei genitori, nel 2001 e 2005, mi hanno lasciato in eredità del denaro che ho investito in titoli in una banca svizzera dove lavoravo. Con i frutti di questi investimenti (dividendi e trading) mi sono comperato un appartamento in Svizzera (come da disposizioni e normative del C.C. svizzero) intestandolo interamente a me stesso e senza dichiarazioni sulla provenienza del denaro, come normalmente avviene in Italia.
Tre anni fa, maggio 2012, la moglie ha chiesto la separazione / divorzio presso un tribunale italiano e nel contempo ha lasciato il domicilio coniugale e si è trasferita, sempre in Svizzera, dalla figlia perdendo, di fatto, la protezione giuridica come recita l'art. 169 c.c. svizzero.
A seguito dell'abbandono del domicilio coniugale ho potuto, senza il consenso della moglie, trasferire la nuda proprietà dell'appartamento al figlio pure lui residente in Svizzera.

Domanda:
L'appartamento in Svizzera fa parte della comunione dei beni? Giuridicamente a quale codice civile devo far riferimento? Esistono convenzioni internazionali tra Italia e Svizzera?”
Consulenza legale i 16/10/2015
Il matrimonio celebrato da cittadini italiani all'estero presenta un elemento di "estraneità", pertanto si deve guardare al diritto internazionale privato, in particolare alla legge 218 del 1995.
L'art. 30 sancisce che, salvo diversa convenzione tra i coniugi, "I rapporti patrimoniali tra coniugi sono regolati dalla legge applicabile ai loro rapporti personali". Tale legge è, ai sensi dell'art. 29, quella nazionale comune.

Di conseguenza, troveranno applicazione nel caso di specie le norme previste dal codice civile italiano in tema di comunione tra i coniugi.
In particolare, si deve fare riferimento all'art. 179 c.c., laddove stabilisce che non costituiscono oggetto della comunione e sono beni personali del coniuge quelli beni acquisiti successivamente al matrimonio per effetto di donazione o successione (quando nell'atto di liberalità o nel testamento non è specificato che essi sono attribuiti alla comunione, lett. b) e i beni acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopraelencati o col loro scambio, purché ciò sia espressamente dichiarato all'atto dell'acquisto (lett. f).

Il denaro ricevuto in eredità dal marito, quindi, costituisce certamente bene personale (salvi testamenti contrari).
Ma che dire dell'atto di acquisto, nel quale non compare la dichiarazione relativa all'esclusione dalla comunione e al quale non sia stato parte anche l'altro coniuge?

In giurisprudenza è stato ritenuto che, anche in difetto della predetta dichiarazione, l'acquisto possa comunque essere considerato come bene personale del coniuge.
Secondo una pronuncia della Suprema Corte, l'esclusività del bene potrebbe affermarsi anche nel caso in cui risultasse certa l'appartenenza esclusiva ad uno solo dei coniugi dei denari impiegati per l'acquisto. Cass. Civ., Sez. II, 10855/10 ha trattato il caso - simile a quello proposto nel quesito - in cui un immobile veniva acquistato con denaro sicuramente personale di un coniuge, in difetto, però, della dichiarazione da parte dell'altro coniuge. Al riguardo, la Cassazione ha deciso che la dichiarazione di cui alla lettera f) dell'art. 179 cod. civ. è necessaria solo quando possano sorgere dubbi sulla natura personale del bene impiegato per l'acquisto.
Si reputa questo orientamento molto condivisibile, in quanto si basa sul principio, largamente condiviso in giurisprudenza, in base al quale la dichiarazione del coniuge non acquirente possiede effetti meramente dichiarativi, dovendosi guardare allo stato di fatto (conta se l'acquisto del bene sia avvenuto o meno con beni personali del singolo coniuge).

In conclusione, applicandosi al caso di specie la legge italiana in base alla normativa sopra richiamata, si ritiene che il bene immobile acquistato in Svizzera possa ritenersi escluso dalla comunione in base al predetto orientamento giurisprudenziale.

Virgilio C. chiede
venerdì 14/08/2015 - Lombardia
“Buonasera sono divorziato dal maggio 2010, ho versato l'assegno alle figlie fino a quando è stato dovuto e mai un assegno alla moglie in quanto produceva reddito. Quando mi separai fu anche il periodo che mi licenziarono e così dovetti mettere a disposizione per la separazione anche il TFR conteggiato per l'atto. Eravamo in comunione dei beni. Ciò nonostante la casa che venne donata dal padre nel 2005 non mi fu riconosciuta nonostante i lavori di ristrutturazione ed i mutui fatti per la ristrutturazione. Mi si disse che le somme per la ristrutturazione non erano da considerare per il valore dell'immobile e che comunque dopo 19 anni erano insignificanti, il mio matrimonio è durato dal 20/9/1986 al 21/6/2006 - il divorzio con sentenza il 4 maggio 2010. La mia domanda è: visto che mi hanno sottratto tutto il TFR della moglie posso richiedere che mi venga riconosciuto per legge? Se sì (mi fu detto così al tempo) e vorrei una conferma quando e come o cosa si deve fare per ottenerlo. Inoltre ci sono anche i presupposti e i tempi per quanto successo di avere la possibilità di applicare il riconoscimento dell'equo indennizzo art 1150 del codice civile visto che l'immobile a cui partecipai mi è stato sottratto senza riconoscermi nulla? Grazie per l'attenzione.”
Consulenza legale i 11/09/2015
Analizzate le sentenze di separazione consensuale e divorzio, emerge che non è stata valorizzata nel procedimento la dazione del TFR dal marito alla moglie (non vi è alcun riferimento al TFR negli atti processuali).
In altre parole, il fatto che le somme percepite dal marito a titolo di TFR - casualmente riscosse nel periodo in cui era in corso la separazione - siano poi state utilizzate per i pagamenti previsti dalle condizioni di separazione (ad esempio per il mantenimento delle figlie o il pagamento dello scooter), avvenuta nel 2006, è assolutamente irrilevante e non giustifica una richiesta di restituzione delle somme.
Le condizioni di separazione sono state presentate al giudice congiuntamente dai coniugi e, dinnanzi agli occhi del Tribunale, è del tutto indifferente il "come" i due sposi siano giunti ad un accordo. Se il marito ha deciso o è stato "costretto" a cedere il TFR alla moglie, ciò risulta ininfluente per il giudice, dinnanzi al quale il marito si è assunto gli obblighi previsti nelle condizioni di separazione. Una volta adempiuti quegli obblighi, il marito non ha più diritto a chiedere la restituzione di quanto versato.

Per quanto concerne l'immobile, donato dal padre della moglie a sua figlia (e quindi non rientrante nella comunione dei beni, art. 179, lett. b), c.c.) e a cui il marito ha contribuito con denaro proprio per la ristrutturazione, non si fa alcun cenno nelle condizioni di separazione. Il marito si è ufficialmente impegnato solo a lasciare la casa coniugale, pacificamente di proprietà della moglie, e i coniugi hanno dato atto di aver regolato ogni rapporto derivante dal matrimonio.
Ogni altra considerazione è avvenuta al di fuori del processo.
Per queste ragioni, sembra che ad oggi il marito non possa più vantare diritti su quelle somme con cui ha partecipato alla ristrutturazione della casa coniugale.

In astratto, nel caso di lavori fatti nell’immobile adibito a casa familiare, di proprietà dei suoceri, il soggetto che ha provveduto a pagare i lavori di ristrutturazione nella casa coniugale, in seguito a separazione, può chiedere la restituzione delle somme. Ciò risulta pacifico nella giurisprudenza, anche se la giustificazione giuridica è stata prima ravvisata in un arricchimento senza causa (art. 2041 del c.c.) e poi come ripetizione dell'indebito ex art. 2033 del c.c. (vedi da ultimo la sentenza della Corte di Cassazione dell'11.4.2014, n. 8594).

Secondo i giudici, sarebbe sempre possibile recuperare i soldi utilizzati per la ristrutturazione di una casa non propria, anche se adibita poi a tetto domestico: difatti, anche se lo scopo è quello avvantaggiare la coppia di sposi con le migliorie all'immobile, quando il matrimonio si scioglie tali migliorie restano ad esclusivo vantaggio del terzo titolare dell’immobile. Nel momento il cui l’appartamento non è più adibito a casa coniugale, il proprietario avrebbe ricevuto un pagamento senza titolo, con conseguente obbligo di restituzione.

Nel caso di specie, però, si rilevano due problemi:
1. la dazione di denaro è avvenuta negli anni ottanta/novanta, quindi ogni azione di ripetizione dell'indebito nei confronti del suocero appare prescritta (il termine è quello ordinario decennale, previsto per i diritti di credito in generale; è vero che la prescrizione rimane sospesa tra coniugi ai sensi dell'art. 2941 del c.c., ma nel caso di specie la restituzione del denaro doveva essere chiesta al suocero e non alla moglie, che è divenuta proprietaria della casa solo nel 2005);
2. al momento della separazione, il marito appare aver rinunciato ad ogni diritto di credito nei confronti della moglie, aderendo alle condizioni di separazione che sono state - almeno all'apparenza - redatte congiuntamente dai coniugi.
Purtroppo, se il marito non ha fatto valere le proprie ragioni al momento giusto, in occasione della separazione (e anche prima, quando ha corrisposto le somme per la ristrutturazione della casa coniugale), non appare legittimo che egli possa ora riportare in luce questioni che sembrano ormai del tutto superate.

E' consigliabile in ogni caso consultare un legale che possa esaminare da vicino tutta la documentazione del caso, per ravvisare l'eventuale esistenza di diritti di credito nei confronti della moglie (nei cui confronti la prescrizione è rimasta sospesa fino alla sentenza di divorzio nel 2010), ma solo per quanto concerne la ristrutturazione dell'immobile, mentre per quanto riguarda il TFR, in base ai dati forniti nel quesito, non si vedono possibilità di recupero.

Domenico B. chiede
domenica 12/07/2015 - Campania
“Sono socio di una cooperativa (con mutuo agevolato GESCAl/IACP) dal 1975, e ho ricevuto l'assegnazione di un appartamento nel 1982. Al momento nonostante gli anni trascorsi, siamo ancora soci (63 soci) poiché non è stato ancora stipulato l'atto di proprietà, per difficoltà varie (abitabilità, soci morosi etc.).
Pago ancora un piccolo mutuo alla cooperativa. Pare che entro quest'anno quest'ultima sarà finalmente sciolta e ci intesteremo le case.
Nel 1978 ho contratto il primo matrimonio (comunione dei beni), e mia moglie è deceduta nel 1985.
Nel 1995 ho contratto il secondo matrimonio (in comunione dei beni), e pensiamo di separarci consensualmente dall’ufficiale dello stato civile (non abbiamo figli in comune).
Leggendo l'articolo 179 c.c. interpreto che l’appartamento non rientra nella della comunione, in quanto avevo già un diritto di godimento precedente di 13 anni (anno 1982 assegnazione-anno 1995 nuovo matrimonio).
Posso stare tranquillo quindi che quando si farà l'atto di proprietà la mia attuale moglie non avrà, comunque, alcun diritto? Devo accelerare la separazione in comune, (ove non è previsto alcun patto patrimoniale), prima della stipula dell’atto di proprietà o non è necessario poiché la casa non ha, mai, fatto parte della comunione dei beni, come sopra spiegato? Oppure diventando proprietario entra nella comunione, nonostante il su citato articolo 179?
Spero essere stato esauriente e restando in attesa di una Vs. risposta, cordialmente saluto”
Consulenza legale i 16/07/2015
L'art. 179 c.c., alla lettera a), parla di beni rispetto ai quali il coniuge, prima del matrimonio, era proprietario o titolare di un diritto reale di godimento. Per "diritto reale" di godimento si intende uno dei diritti previsti dalla legge come "reali", pertanto: il diritto di superficie, l'enfiteusi, l'usufrutto, l'uso o l'abitazione.

Può farsi rientrare nell'ipotesi anche il mero diritto di godimento scaturente dall'assegnazione di un alloggio in qualità di socio di una cooperativa edilizia?
Tale diritto di godimento non può definirsi "reale" fino al momento della stipulazione dell'atto di trasferimento della proprietà. La giurisprudenza di legittimità definisce la situazione dell’assegnatario in godimento come una situazione di "mera aspettativa", priva di "ogni connotazione reale" e analoga a quella conseguente al contratto preliminare suscettibile di tutela in forma specifica, ricorrendo le condizioni del pagamento del prezzo e dell’identificazione dell’alloggio, ma certamente non idonea a qualificarsi come acquisto della res, che possa giustificare la caduta in comunione legale del bene.
Pertanto, può dirsi che l'assegnazione dell'immobile attribuisce un mero diritto personale, non reale, del quale è esclusivo titolare l’assegnatario medesimo.

Nel caso di sopravvenienza della separazione dei coniugi prima del trasferimento in proprietà dell’immobile, deve escludersi che il coniuge non assegnatario possa pretendere una quota del bene, invocando il pregresso regime di comunione legale poiché questo riguarda solo gli acquisti della proprietà od altro diritto reale.
Si possono leggere in tal senso:
- Cass. civ. 1.2.1996,, n. 875: "Non costituisce oggetto della comunione legale l'alloggio di cooperativa edilizia assegnato in godimento, ma non ancora trasferito, ad uno dei coniugi che sia socio della cooperativa [...] in mancanza del trasferimento del diritto dominicale in base al contratto privatistico che richiede l'integrale pagamento del prezzo");
- Cass. civ. 12.5.1998, n. 4757: "In tema di assegnazione di alloggi di cooperative edilizie a contributo statale, il momento determinativo dell'acquisto della titolarità dell'immobile da parte del singolo socio, onde stabilire se il bene ricada o meno nella comunione legale tra coniugi, è quello della stipula del contratto di trasferimento del diritto dominicale, poiché solo con la conclusione di tale negozio il socio acquista, irrevocabilmente, la proprietà dell'alloggio".

Va sottolineato, peraltro, come la Corte di Cassazione ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 177, lett. a), c.c., nella parte in cui non prevede che l’assegnazione in godimento di alloggio di cooperativa in favore di uno dei coniugi prima del passaggio di proprietà ricada in comunione, con riferimento agli articoli 2, 3 e 29 Cost. La Suprema Corte ha ritenuto che, da un lato, l'omessa previsione non incide su diritti fondamentali o sulla libertà e l'uguaglianza dei coniugi mentre, dall'altro, rientra nella discrezionalità del legislatore disciplinare i contenuti della comunione legale tra coniugi in relazione alle ritenute esigenze sociali (Cass. civ., 1.10.1999, n. 10863).

Tornando al caso di specie, quindi, la casa assegnata al socio entrerà nella comunione legale al momento della stipula dell'atto di trasferimento della proprietà: per evitare ciò, si deve ottenere lo scioglimento della comunione - mediante la separazione personale - prima della sottoscrizione di tale atto pubblico notarile.

Marco chiede
giovedì 05/03/2015 - Abruzzo
“In regime di comunione dei beni ho aperto un conto deposito cointestato con l'altro coniuge dove ho versato esclusivamente una somma che ho ricevuto come risarcimento danni da una compagnia assicurativa, inoltre tale conto, che non veniva utilizzato per esigenze familiari, veniva alimentato solo da una rendita Inail da me percepita. Ora la mia ex moglie chiede il 50% di queste somme.
Vi chiedo di farmi sapere se anche in questo caso trova applicazione la tutela dell'art. 179 e che non estende la comunione su tali somme.”
Consulenza legale i 12/03/2015
L'art. 179 del codice civile elenca i beni esclusi dalla comunione, tra i quali rientrano le somme percepite come risarcimento del danno e la pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa (lett. 'e').
Pertanto, gli importi che hanno alimentato il conto deposito cointestato nel caso di specie costituiscono ab origine beni personali del coniuge che li ha percepiti e non vanno a formare la c.d. comunione de residuo, su cui l'altro coniuge può vantare diritti per la quota di 1/2.

I beni personali del marito, nel nostro caso, venivano depositati su un conto deposito cointestato con la moglie.
Il conto deposito è una sorta di investimento a basso rischio, trattandosi del deposito di denaro presso una società emittente, che si impegna a custodire le somme versate e a corrispondere al cliente gli interessi pattuiti e maturati: il cliente, di norma, ha diritto di chiedere in qualsiasi momento la restituzione del denaro depositato. E' altresì normale che al conto deposito sia collegato un conto corrente bancario o postale, da cui il conto deposito attinge.

Come noto, il rapporto di conto corrente, ai sensi degli artt. 1852 e ss. c.c., si caratterizza per lo svolgimento di un servizio "di cassa" da parte della banca, che si obbliga a compiere operazioni di incasso e pagamenti su istruzione e nell’interesse del cliente-correntista. Quanto al conto corrente bancario cointestato (art. 1854 del c.c.), vale la presunzione di cui all'art. 1298 del c.c., secondo comma, in base alla quale le parti spettanti a ciascun cointestatario si presumono uguali: la presunzione, tuttavia, è semplice, e quindi può essere superata fornendo la prova che il denaro apparteneva soltanto a uno dei cointestatari (v. ex multis Cass. civ., sez. I, 5.12.2008, n. 28839).

Il contratto di conto deposito è un contratto a sé, distinto da quello di conto corrente, ma ad esso legato in quanto, come anzidetto, vi deve essere un conto corrente d'appoggio (es. la compagnia assicurativa che ha pagato il risarcimento del danno lo avrà versato su un c/c bancario, non direttamente sul conto deposito).

Pertanto, non si vedono ragioni per non applicare il medesimo ragionamento che si utilizza per stabilire la titolarità delle somme entrate in un conto corrente bancario cointestato: la co-titolarità degli importi è solo presunta, quindi si può dare la prova contraria che essi siano in realtà beni personali di un solo cointestatario (nel nostro caso, del marito) ai sensi dell'art. 179.

In giurisprudenza si è altresì escluso che la semplice cointestazione di un conto deposito con somme di cui sia proprietario un solo coniuge possa qualificarsi come donazione indiretta del denaro: la Corte di cassazione ha stabilito, nel caso sottoposto alla sua attenzione, che l'animus donandi del marito "non poteva essere riconosciuto sulla sola base di detta cointestazione", ma il giudice di secondo grado "avrebbe dovuto invece motivare sullo spirito di liberalità che assisteva ogni versamento" (v. Cass. civ., sez. II, 16.1.2014, n. 809).

Francesco L. chiede
giovedì 16/10/2014 - Puglia
“Vorrei chiarimenti precisi a questo mio dubbio riguardante una casa che ho acquistato, con miei soldi proveniente da una vendita di un altro immobile che a sua volta ho comprato con prestiti da finanziari, che tuttora sto pagando ((IL QUESITO CHE VI PONGO è QUESTO)) L'acquisto di questa abitazione in cui abitiamo tuttora in comunione dei beni, dal notaio l'intestazione della casa è stata intestata a mia moglie, acquistata come bene personale, e con proprio danaro "senza specificarne la provenienza del danaro, né da eredità da parte dei suoi genitori. Dal notaio ero presente e acconsenziente e firmato, di mio pugno. Siccome dallo stesso giorno dell'atto notarile, mia moglie ha cambiato parere riguardo il matrimonio, cioè si rifiuta da adempiere al dovere di moglie nei miei riguardi, senza per questo chiederne la separazione, domanda: posso impugnare o rivedere l'atto d'acquisto ed eventualmente chiederne la revisione a mio favore (dove posso dimostrare la provenienza del denaro della casa venduta e i prestiti fatti da finanziarie per poter completare il pagamento dell'immobile in questione???) grazie”
Consulenza legale i 22/10/2014
Il quesito proposto implica un'indagine circa l'acquisto di bene immobile da parte di un solo coniuge, nel caso in cui il regime patrimoniale scelto sia quello della comunione.
Ai sensi dell'art. 179 del c.c. non costituiscono oggetto della comunione e sono beni personali del coniuge i beni acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopraelencati o col loro scambio, purché ciò sia espressamente dichiarato all'atto dell'acquisto. In particolare, quanto all'acquisto di beni immobili effettuato dopo il matrimonio, essi sono esclusi dalla comunione quando tale esclusione risulti dall'atto di acquisto, se di esso sia stato parte anche l'altro coniuge.
Vi sono quindi due dichiarazioni che devono essere rese:
1. quella dell'acquirente con cui si afferma che i beni vengono acquistati con il prezzo o lo scambio derivanti da altri beni personali ex art. 179 lett. f) c.c.;
2. quella del coniuge con cui costui partecipa all'atto di acquisto di beni immobili o mobili registrati nelle ipotesi previste dalle lettere c), d) e f) dell'art. 179 c.c.

La norma dell'art. 179 è stata oggetto di numerosi pronunciati giurisprudenziali.
Secondo una prima tesi, il carattere personale del bene sarebbe attribuito dalla volontà dei coniugi, e tale effetto sarebbe indipendente dall'esistenza del presupposto sostanziale indicato dalla norma. Quindi, il coniuge non acquirente potrebbe impugnare la propria dichiarazione se il suo consenso era viziato o ci sia stata simulazione.
Un'altra tesi dice invece che la dichiarazione del coniuge non acquirente non ha carattere dispositivo ma meramente ricognitivo della ricorrenza dei presupposti per la personalità dell'acquisto: pertanto, sarebbe revocabile solo per errore di fatto o violenza, essendo equiparabile a una confessione. Seguendo tale impostazione, risulta che il coniuge non acquirente potrebbe "cambiare idea" e impugnare la sua dichiarazione, sostenendo che non esistevano in verità i presupposti per l'acquisto personale, ad esempio perché i soldi utilizzati per la compera erano suoi e non dell'altro coniuge).

Infine, la Corte di cassazione è approdata ad una soluzione con la sentenza delle Sezioni Unite n. 22755/2009, così stabilendo: "Nel caso di acquisto di un immobile effettuato dopo il matrimonio da uno dei coniugi in regime di comunione legale, la partecipazione all'atto dell'altro coniuge non acquirente, prevista dall'art. 179, comma 2, c.c., si pone come condizione necessaria ma non sufficiente per l'esclusione del bene dalla comunione, occorrendo a tal fine non solo il concorde riconoscimento da parte dei coniugi della natura personale del bene, richiesto esclusivamente in funzione della necessaria documentazione di tale natura, ma anche l'effettiva sussistenza di una delle cause di esclusione dalla comunione tassativamente indicate dall'art. 179, comma 1, lett. c, d ed f, c.c., con la conseguenza che l'eventuale inesistenza di tali presupposti può essere fatta valere con una successiva azione di accertamento negativo, non risultando precluso tale accertamento dal fatto che il coniuge non acquirente sia intervenuto nel contratto per aderirvi".
In altre parole, è riconosciuta al coniuge non acquirente la possibilità di far ricadere l'atto in comunione, dimostrando che non esistevano i presupposti di fatto per l'applicazione del secondo comma dell'art. 179. Tuttavia, nella pratica, si pongono ulteriori questioni.

Il tipo di azione da intraprendere è una causa ordinaria avente ad oggetto la domanda di accertamento della comunione legale sull'immobile conteso.
Nell'ambito di tale giudizio, se l'intervento adesivo ex art. 179 comma 2 c.c. del coniuge non acquirente assunse il significato di riconoscimento dei già esistenti presupposti di fatto dell'esclusione del bene dalla comunione (cioè se, come nel nostro caso, il marito ha dichiarato che il denaro usato proveniva da beni personali della moglie), l'azione di accertamento presupporrà la revoca di quella confessione stragiudiziale, nei limiti in cui è ammessa dall'art. 2732 del c.c..
Ciò è ribadito anche nella sentenza della Corte di cassazione, Sezioni Unite, 22 settembre 2014, n. 19888: "[...] si tratta di conclusione in linea con l’orientamento di queste sezioni unite espresso in relazione alla dichiarazione del coniuge non acquirente richiesta dall’articolo 179 c.c., u.c., per escludere l’immobile o il mobile registrato dalla comunione legale. Anche in quell’occasione si e’ infatti statuito (sentenza 28 ottobre 2009, n. 22755) che, quando la dichiarazione in ordine alla natura personale del bene dipende dall’acquisto dello stesso con il prezzo del trasferimento di beni personali del coniuge acquirente, l’intervento adesivo assume natura ricognitiva di presupposti di fatto già esistenti, con la conseguenza che l’azione di accertamento negativo della natura personale del bene acquistato postula la “revoca” della confessione stragiudiziale, nei limiti in cui la stessa è ammessa dall’articolo 2732 cod. civ.".
Il marito dovrebbe quindi provare che ha reso la dichiarazione confessoria in base a errore di fatto o violenza, circostanze che non sembrano purtroppo ricorrere nel caso di specie, non essendo sufficiente la prova della reale provenienza del denaro.

Anche la proposizione di un'azione di simulazione risulta poco praticabile, in quanto, per ottenere successo in giudizio, il marito dovrebbe produrre una controdichiarazione scritta in cui emerga la reale volontà delle parti (cioè in cui si dica che il denaro in realtà non proveniva da beni della sola moglie). La controdichiarazione deve avere la forma scritta se per l’atto simulato è richiesta la forma scritta a pena di nullità, come nel caso di trasferimento di proprietà di bene immobile (Cass. civ., sez. II, 28 maggio 2007, n. 12487).

Si dovrebbe quindi puntare a sostenere la tesi per cui la dichiarazione emessa dal marito nell'atto notarile non abbia natura confessoria, per aggirare l'ostacolo probatorio sopra indicato. Sul punto potrebbe essere utile la sentenza della Corte di cassazione, sez. I, 4.8.2010, n. 18114, che ha negato valore di confessione ad una dichiarazione del coniuge non acquirente (resa in sede di stipulazione dell'atto di compravendita) con la quale egli sosteneva che il pagamento del prezzo sarebbe avvenuto con il ricavato del trasferimento di beni personali della moglie, parte acquirente: la Suprema Corte ha ritenuto che non veniva realmente provata la provenienza del denaro, in quanto l'espressione adottata nell'atto notarile non faceva puntuale riferimento al fatto costitutivo del preteso diritto esclusivo della moglie sul denaro utilizzato per il pagamento ("Nè si può assegnare alla dichiarazione del V., verbalizzata nell'atto pubblico di compravendita e riportata per esteso nel presente ricorso, valore di confessione di un fatto storico (pagamento del prezzo con il ricavato del trasferimento di beni personali della D.): come tale, revocabile successivamente solo per errore di fatto o violenza (art. 2732 cod. civ.), secondo l'insegnamento delle sezioni unite, nella sentenza sopra citata.
L'espressione adottata ("L'acquirente dichiara di effettuare il presente acquisto con suo denaro personale, come conferma il di lei consorte, signor V.F. al presente atto appositamente intervenuto ai sensi dell'art. 179 c.c. ... pertanto gli immobili in oggetto costituiscono beni personali della sola signora D. S., non facendo parte della comunione legale dei beni vigente tra essi coniugi") non fa puntuale riferimento al fatto costitutivo del preteso diritto esclusivo della D. sul denaro utilizzato per il pagamento: e cioè, ad una delle tipologie di beni personali descritte nelle lett. a, b, c, d, e) - testualmente richiamate nella fattispecie di cui all'art. 179 c.c., lett. f), pertinente al caso in esame - dalla cui vendita (o dal cui scambio) abbia tratto origine la provvista utilizzata per l'acquisto esclusivo.
Definire sic et simpliciter personale il denaro con cui si è adempiuta l'obbligazione del prezzo non identifica un fatto, bensì esprime una qualificazione giuridica; come tale, insuscettibile di confessione, oltre che non vincolante per l'interprete, potendo anche discendere da un errore di diritto del dichiarante
").
Questo caso appare simile a quello descritto nel quesito. In tal caso, il marito, avendo certamente prova documentale della vendita del precedente immobile e dei prestiti ottenuti per pagarlo, potrà dimostrare che il denaro utilizzato per l'acquisto dell'immobile da parte della moglie non era bene personale della stessa e potrà chiedere l'accertamento che l'immobile è caduto in comunione.

Maria chiede
giovedì 06/02/2014 - Veneto
“Sono sposata in comunione dei beni in processo di separazione giudiziaria. Mio marito verrà denunciato dal giudice per evasione fiscale alle agenzie delle entrate e alla procura della Repubblica. Siamo proprietari al 50% della casa familiare (prima casa). In quale misura possono pignorare questo immobile. Poi, i soldi depositati in conti bancari a mio nome, sono sequestrabili?
Grazie per l'attenzione”
Consulenza legale i 16/02/2014
Lo scioglimento della comunione dei beni, ai sensi dell'art. 191 del c.c., consegue alla dichiarazione di assenza o di morte presunta di uno dei coniugi, all' annullamento, allo scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, alla separazione personale, alla separazione giudiziale dei beni, al mutamento convenzionale del regime patrimoniale, al fallimento di uno dei coniugi.
Quanto alla separazione personale tra i coniugi, lo scioglimento si verifica in seguito al provvedimento definitivo emesso nel procedimento di separazione. Se il procedimento è stato contenzioso (separazione giudiziale), sarà necessaria una sentenza; nella separazione consensuale, invece, dovrà essere emesso il decreto di omologa.

Se il pignoramento interviene prima dell'emissione di un provvedimento idoneo a sciogliere la comunione, questa è ancora sussistente.

Per quanto riguarda l'immobile, se esso era di proprietà della moglie e del marito al 50% da prima del matrimonio, i creditori del marito potranno rifarsi solo sulla metà a lui spettante. Se esso è stato acquistato durante il matrimonio ed è quindi in comunione, i creditori del marito potranno soddisfarsi su di esso fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato (art. 189 del c.c.): ciò, solo se i creditori non possono soddisfarsi prima sui beni personali di quest'ultimo (ad esempio, un immobile di sua proprietà da prima di sposarsi).
Di fatto, però, in entrambi i casi, il creditore, pignorando la metà dell'immobile, costringerà i coniugi a dividere formalmente lo stesso: o d'accordo tra loro, davanti a un notaio, o in seguito alla sentenza di un giudice.

Recentemente, la Cassazione (sentenza 14 marzo 2013, Sez. III, n. 6575) ha statuito che "La natura di comunione senza quote della comunione legale dei coniugi comporta che l’espropriazione, per crediti personali di uno solo dei coniugi, di un bene (o di più beni) in comunione, abbia ad oggetto il bene nella sua interezza e non per la metà, con scioglimento della comunione legale limitatamente al bene espropriato all’atto della sua vendita od assegnazione e diritto del coniuge non debitore alla metà della somma lorda ricavata dalla vendita del bene stesso o del valore di questo, in caso di assegnazione". Il creditore particolare di un coniuge, quindi, potrà far vendere coattivamente il bene immobile in comune per soddisfare un suo credito personale, estraneo ai bisogni della famiglia: poi, metà della somma ricavata della vendita o del valore in caso di assegnazione dovrà essere attribuita al coniuge non esecutato.

Per quanto riguarda i soldi depositati a nome della moglie, sussistendo ancora la comunione, si dovrà verificare la provenienza del denaro. Solo se esso può essere ricondotto a bene personale ai sensi dell'art. 179 del c.c., si potrà escludere che i creditori del marito possano aggredirlo. In particolare, dovrebbe trattarsi, ad esempio, di denaro acquistato dalla moglie prima del matrimonio; oppure di denaro donato o avuto in successione, quando non è specificato che esso cada in comunione. Negli altri casi, soprattutto in quello più frequente in cui il denaro costituisca il provente dell'attività lavorativa del coniuge, il denaro entra in comunione e quindi torna a valere quanto detto per l'immobile: i creditori di un coniuge potranno aggredirlo fino al valore della quota di quest'ultimo (che si presume metà).

Dopo il provvedimento (sentenza o decreto di omologa nella separazione personale), la comunione è sciolta. Tuttavia, i beni non sono automaticamente divisi. Difatti, in capo a ciascuno dei coniugi sorge il diritto potestativo alla divisione: in altre parole, ciascun coniuge può chiedere che i beni in comune vengano materialmente spartiti oppure, se indivisibili, che siano venduti e sia diviso il prezzo. L'art. 194 del c.c. stabilisce che la divisione dei beni si effettua ripartendo in parti uguali l'attivo e il passivo (solo i debiti attinenti alle esigenze della famiglia).
I soldi depositati nel conto a nome della moglie saranno suddivisi a metà (sempre che la stessa non possa provare che si tratta di beni personali), mentre l'immobile dovrà essere diviso formalmente.

Massimo P. chiede
venerdì 07/06/2013 - Veneto
“Buon giorno,
La casa dei miei genitori (sposati in comunione dei beni ) apparteneva fino al 2004 all’ INPDAP e mio padre era il titolare del contratto di locazione. Successivamente l’ immobile viene cartolarizzato e messo in vendita ai conduttori tramite società SCIP.
Il diritto di prelazione all’acquisto poteva essere esercitato sia da mio padre che da mia madre (convivente).
Mio padre (molto anziano) non vuole saperne di acquistare ed esprime il suo disinteresse per iscritto sul suo diario di suo pugno.
L’ acquisto viene fatto da mia madre tramite mandato collettivo, (per ottenere migliori condizioni). Significa che un condomino raccoglie il denaro (un assegno circolare per ogni immobile) ed acquista in nome di tutti, poi la proprietà viene trasferita dalla SCIP agli aventi diritto (mia madre). Parte del denaro che serve ad acquistare l’ assegno circolare per il pagamento viene dato da uno dei figli alla madre ed è documentabile.
All’ atto non viene mio padre perché è sempre convinto che l’acquisto non si debba fare e costringerlo a presenziare non si può.
Nell’atto non viene fatta menzione che parte del denaro è personale di mia madre (ricevuto da un figlio).
Nell’atto si menzione che mia madre (acquirente) è sposata in comunione dei beni e che è lei ad esercitare il diritto di opzione.
L’atto viene registrato al catasto con proprietà (100/100) a nome di mia madre in comunione dei beni.
Secondo Voi Vi è la possibilità, per vie legali, di dimostrare che l’acquisto non rientri nella comunione?
Grazie”
Consulenza legale i 13/06/2013
Nella vicenda proposta vi è stato l'acquisto di un immobile da parte di un coniuge in regime di comunione dei beni, con denaro sia della comunione che proveniente da uno dei figli della coppia. Il marito non ha voluto partecipare all'atto di acquisto, e in questo non è stato specificato che la moglie ha pagato in parte con beni personali.

Gli elementi di fatto, così come esposti, sembrano obbligare ad una risposta negativa al quesito, in quanto ai sensi dell'179, comma primo, lett. f) del codice civile non costituiscono oggetto della comunione e sono beni personali del coniuge "f) i beni acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopraelencati o col loro scambio, purché ciò sia espressamente dichiarato all'atto dell'acquisto". Il secondo comma precisa altresì: "L'acquisto di beni immobili, o di beni mobili elencati nell'articolo 2683, effettuato dopo il matrimonio, è escluso dalla comunione, ai sensi delle lettere c), d) ed f) del precedente comma, quando tale esclusione risulti dall'atto di acquisto se di esso sia stato parte anche l'altro coniuge".

In altre parole, è possibile escludere dalla comunione gli immobili o i mobili registrati (es. automobili), anche se acquistati dopo il matrimonio, purché ricorrano tali condizioni:
- l'esclusione deve risultare dall’atto di acquisto;
- all’atto di acquisto deve partecipare anche l’altro coniuge;
- devono ricorrere le condizioni di cui alle lettere c), d) ed f) dell'art. 179 c.c.

La norma citata è stata oggetto di numerose pronunce giurisprudenziali, e la Corte Suprema è approdata ad una soluzione condivisibile con la sentenza delle Sezioni Unite del n. 22755/2009. La Corte di Cassazione ha così stabilito: "Nel caso di acquisto di un immobile effettuato dopo il matrimonio da uno dei coniugi in regime di comunione legale, la partecipazione all'atto dell'altro coniuge non acquirente, prevista dall'art. 179, comma 2, c.c., si pone come condizione necessaria ma non sufficiente per l'esclusione del bene dalla comunione, occorrendo a tal fine non solo il concorde riconoscimento da parte dei coniugi della natura personale del bene, richiesto esclusivamente in funzione della necessaria documentazione di tale natura, ma anche l'effettiva sussistenza di una delle cause di esclusione dalla comunione tassativamente indicate dall'art. 179, comma 1, lett. c, d ed f, c.c., con la conseguenza che l'eventuale inesistenza di tali presupposti può essere fatta valere con una successiva azione di accertamento negativo, non risultando precluso tale accertamento dal fatto che il coniuge non acquirente sia intervenuto nel contratto per aderirvi".

Anche Cass. civ., sez. I, 4.8.2010, n. 18114, ha ribadito il principio stabilito dalle Sezioni Unite, negando valore di confessione ad una dichiarazione del coniuge non acquirente (resa in sede di stipulazione dell'atto di compravendita) con la quale egli sosteneva che il pagamento del prezzo sarebbe avvenuto con il ricavato del trasferimento di beni personali della moglie, parte acquirente.
La Suprema Corte ha ritenuto che l'espressione adottata non facesse puntuale riferimento al fatto costitutivo del preteso diritto esclusivo della moglie sul denaro utilizzato per il pagamento, ossia non veniva realmente provata la provenienza del denaro.

Sul punto della necessaria partecipazione dell'altro coniuge all'atto di acquisto, vi sono numerose sentenze, come Cass. civ., sez. II, 5.5.2010, n. 10855, con le quali si è stabilito che, nel caso di acquisto di un bene mediante l'impiego di altro bene, che costituisca con certezza bene personale del coniuge acquirente, "l'acquisto dovrà ritenersi escluso dalla comunione legale e di natura personale al solo coniuge acquirente, senza che sia necessario rendere la dichiarazione di cui all'art. 179 lett. f) c.c. Ciò anche nel caso in cui il bene impiegato per l'acquisto sia del denaro appartenente al solo coniuge acquirente". La dichiarazione sarebbe quindi necessaria solo quando possano sorgere dubbi circa la natura personale del bene impiegato per l'acquisto.

Alla luce della normativa e della giurisprudenza indicate, potrebbe essere ipoteticamente ammissibile per il coniuge acquirente ottenere l'accertamento giudiziale che il bene non è caduto in comunione (non interamente), in quanto parte del denaro utilizzato per l'acquisto era stato dato dal figlio. Tuttavia, potranno esservi delle difficoltà nel dimostrare che il denaro conferito dal figlio costituiva "bene personale" della madre (verosimilmente in quanto donazione alla stessa della somma, ai sensi della lett. b) dell'art. 179 c.c.): manca, infatti, un atto di donazione scritto ove sia esplicitato il destinatario del denaro. Infatti, la dazione di denaro ai fini dell'acquisto di un immobile potrebbe essere configurato come donazione indiretta, che sembrerebbe andare a vantaggio di entrambi i coniugi (atteso che la casa viene poi abitata e goduta da entrambi).
Vi sono quindi diversi profili di difficoltà nel tentativo di far escludere il bene dalla comunione, che dovranno essere valutati con molta attenzione prima di esperire qualsiasi azione giudiziale.

Gennaro chiede
sabato 17/11/2012 - Basilicata
“la Polizza vita/morte rientra nella comunione dei beni.”
Consulenza legale i 18/11/2012

La comunione legale tra coniugi è il regime che regola i rapporti patrimoniali tra coniugi in mancanza di una diversa convenzione. Ove i coniugi non abbiano espresso una diversa volontà con le convenzioni matrimoniali, l'istituto della comunione legale si attua automaticamente e riguarda tutti gli acquisti futuri che i coniugi effettueranno, insieme o separatamente, fin quando non intervenga lo scioglimento del matrimonio e del regime di comunione.

Per ciò che attiene, però, le somme corrisposte nel caso di assicurazione sulla vita, costante giurisprudenza ritiene che tali somme possano essere considerate personali ex art. 179 del c.c. lett. b) in quanto oggetto di donazione indiretta e quindi non rientranti nel regime di comunione legale dei beni.


Domenico chiede
domenica 20/05/2012 - Toscana
“Buon giorno,
sono coniugato sotto il regime di comunione dei beni e sto per acquistare prossimamente un immobile (come seconda casa) per la mia famiglia.
Il pagamento dell'intero immobile verrà interamente effettuato dal mio patrimonio personale (risparmi ereditati causa morte di mio padre e dalla vendita di un altro immobile) senza effettuare alcun mutuo.
Mia moglie non parteciperà ad alcun contributo per l'acquisto.

Vorrei gentilmente sapere se è possibile escludere dalla comunione dei beni l'immobile che sto per acquistare (evitando problemi nella malaugurata ipotesi di separazione) e quale tipo di richiesta debba essere presentata al Notaio prima di chiudere definitivamente l'atto di acquisto.
Grazie, cordiali saluti”
Consulenza legale i 21/05/2012

L'art. 179 del c.c. indica i beni che non costituiscono oggetto di comunione fra coniugi e che sono pertanto beni personali del coniuge. Sono tali:

a)i beni di cui, prima del matrimonio, il coniuge era proprietario o rispetto ai quali era titolare di un diritto reale di godimento;

b) i beni acquistati successivamente al matrimonio per effetto di donazione o successione, quando nell'atto di liberalità o nel testamento non è specificato che essi sono attribuiti alla comunione;

c) i beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge ed i loro accessori;

d) i beni che servono all'esercizio della professione del coniuge, tranne quelli destinati alla conduzione di un'azienda facente parte della comunione;

e) i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno nonché la pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa;

f) i beni acquistati con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopraelencati o col loro scambio, purché ciò sia espressamente dichiarato nell'atto di acquisto.

La norma precisa che l'acquisto dei beni immobili effettuato dopo il matrimonio è escluso dalla comunione ai sensi delle lettere c), d) ed f) di cui sopra, quando tale esclusione risulti dall'atto di acquisto se di esso sia stato parte anche l'altro coniuge.

Pertanto, affinché si verifichi l'esclusione dalla comunione dell'acquisto del bene immobile la legge prevede due condizioni imprescindibili:

1) l'acquisto deve essere realizzato mediante l'impiego del ricavato dell'alienazione di beni personali oppure a mezzo del loro scambio;

2) al negozio di acquisto deve essere accompagnarsi una specifica dichiarazione espressa resa nei confronti dell'altro coniuge, parte necessaria dell'atto di acquisto, con la quale il coniuge che ha operato l'acquisto provveda proprio ad indicare l'origine del corrispettivo usato. In questo modo, il coniuge acquirente otterrà l'effetto di evitare la caduta in comunione del bene acquistato e porrà in essere un "anello di congiunzione" tra il bene che esce dal suo patrimonio e quello che vi entra.

Pertanto, sarà necessario comunicare al notaio l'origine del corrispettivo usato per l'acquisto unitamente alla volontà di escludere l'altro coniuge dall'acquisto stesso. Inoltre, sarà necessario che il coniuge escluso partecipi all'atto di acquisto.


Gianni R. chiede
martedì 13/03/2012 - Lombardia
“chiedo chiarimenti specifici per sapere se in separazione dei beni avvenuta nel matrimonio l'appartamento ricevuto dalla moglie in regalo dal padre entra nei beni comuni. grazie”
Consulenza legale i 21/03/2012

Nel regime di separazione dei beni, il marito dispone del proprio patrimonio e la moglie conserva pari autonomia sopra i propri beni personali. L'art. 219 del c.c. chiarisce che il coniuge può provare con ogni mezzo nei confronti dell'altro la proprietà esclusiva di un bene. Solo i beni di cui nessuno dei coniugi può dimostrare la proprietà esclusiva si considerano di proprietà indivisa per pari quota di entrambi i coniugi. Ogni coniuge ha piena indipendenza, anche amministrativa, sui propri beni personali.

L'appartamento della moglie ricevuto in donazione dal padre, dunque, rimane di proprietà esclusiva della moglie.


FOX chiede
mercoledì 12/05/2010
“NON VENGONO TRATTATI IL TFR E LA PENSIONE.RIENTRANO NEI BENI PERSONALI?”
Consulenza legale i 02/09/2010
Sembra pacifico che se il TFR è percepito in costanza di matrimonio da un coniuge in regime di comunione dei beni, l'indennità cade in comunione de residuo (art. 177, lett. c, c.c.): all'atto dello scioglimento della comunione la quota dell'indennità ancora in essere competerà a ciascun coniuge nella misura della metà (così Trib. Torino, 17 marzo 1999, in Dir. Famiglia, 1999,1226).

M. M. chiede
venerdì 03/02/2023 - Emilia-Romagna
“Una donna prima del matrimonio acquista un appartamento condominiale in diritto di superficie 99ennale e paga interamente con il proprio denaro.
Dopo qualche anno dal summenzionato acquisto si sposa in comunione dei beni.
Dopo pochi anni dal suddetto matrimonio il Comune di residenza vende l'area su cui grava il suddetto diritto (la quota pertinente all'unità immobiliare in questione) e, questa volta, l'acquisto è in comune col marito della donna.
Chiedo: l'unità immobiliare nel suo insieme entra o no nella comunione dei beni e per quale quota atteso che il diritto di superficie è stato interamente pagato con denari della donna prima del matrimonio?”
Consulenza legale i 09/02/2023
L’istituto giuridico che viene in considerazione nel caso in esame è quello del diritto di superficie, alla cui disciplina occorre fare riferimento per dare risposta a quanto viene chiesto.
Sembra evidente che oggetto di acquisto da parte della donna sia stata la c.d. proprietà superficiaria, o meglio la proprietà della costruzione separata da quella del suolo, acquisto pertanto effettuato in deroga a quello che costituisce il generale principio dell’accessione (modo di acquisto della proprietà attraverso il quale la proprietà del suolo attrae quella dei manufatti che vengono costruiti su di esso).
Tenuto conto che detto acquisto è stato effettuato prima del matrimonio ed oltretutto con denaro personale della stessa parte acquirente, il bene che ne ha costituito l’oggetto, ossia l’appartamento in condominio, deve per forza di cose farsi rientrare tra i beni personali, e ciò per espressa previsione del comma 1, lett. a) dell’art. 179 del c.c..
Fin qui la situazione sembra pacifica e non presentare alcun problema.

I dubbi, ovviamente, sorgono nel momento in cui viene posto in essere il successivo atto negoziale, ovvero l’acquisto, questa volta in costanza di matrimonio ed in regime di comunione legale dei beni, del terreno su cui è stata realizzata la costruzione.
Tale acquisto, infatti, va inquadrato tra quelli contemplati al comma 1, lett. a) dell’art. 177 del c.c., costituendo come tale oggetto di comunione immediata tra i coniugi.
Il trasferimento della proprietà del suolo dal Comune (alienante) ai coniugi (acquirenti), tuttavia, non può avere riflessi sul regime proprietario della costruzione (l’appartamento), o meglio, influirà su di esso in modo parziale e nei termini che appresso verranno precisati.

Infatti, non può in alcun modo incidere sulla proprietà superficiaria della costruzione, la quale, essendo stata costituita per un termine di durata pari a 99 anni, sarà destinata ad estinguersi solo alla scadenza di tale termine.
In tal senso si può agevolmente argomentare da quanto espressamente statuito dall’art. 953 c.c., ove viene precisato che, nel caso di costituzione del diritto di superficie a tempo determinato, tale diritto si estingue alla scadenza del termine, con la conseguenza che, riprendendo ad operare il regime generale dell’accessione, il proprietario del suolo diventerà proprietario della costruzione.

Di contro, poiché uno degli acquirenti del suolo, seppure in regime di comunione legale, risulta essere lo stesso soggetto titolare della costruzione separata (proprietà superficiaria), si realizzerà quel fenomeno giuridico, proprio del diritto delle obbligazioni, che si definisce “confusione”, in quanto proprietario del suolo (per una quota ideale pari ad ½ indiviso) e proprietario della costruzione verranno di fatto a coincidere.
In conseguenza di ciò, la donna assumerà la posizione giuridica di piena proprietaria della costruzione per una quota pari ad ½ indiviso, mentre continuerà ad essere titolare del solo diritto di superficie per la restante quota di ½ della medesima costruzione.
Allo scadere dei 99 anni, invece, anche il coniuge, acquirente del suolo, diventerà pieno proprietario della costruzione in ragione di ½ indiviso, e ciò per effetto del riespandersi del diritto di proprietà ex art. 953 c.c.
Da un punto di vista meramente pratico, se oggi i coniugi decidessero di vendere, all’atto di vendita la moglie interverrebbe nella qualità di piena proprietaria per ½ indiviso della costruzione e di superficiaria dell’altro mezzo, mentre il di lei coniuge vi interverrebbe quale proprietario, in regime di comunione legale dei beni, del suolo su cui la costruzione sorge.

Infine, si rende necessaria un’ultima ma non meno importante precisazione.
L’acquisto da parte della moglie della piena proprietà della costruzione per effetto di confusione si inquadra tra i c.d. acquisti a titolo originario della proprietà.
In ordine a tale forma di acquisto, sia in dottrina che in giurisprudenza sono stati avanzati parecchi dubbi circa il regime applicabile, se considerarli come ricadenti nella comunione legale ex art. 177 c.c. ovvero farli rientrare tra i beni personali ex art. 179 c.c.
In particolare, in materia di accessione (è questa la forma di acquisto a titolo originario che viene qui in considerazione), accanto alla tesi della caduta in comunione del bene che costituisce oggetto di tale forma di acquisto, ha assunto prevalenza e si ritiene, pertanto, preferibile, la tesi della personalità del bene, la quale argomenta dalla lettera dello stesso art. 177 c.c.
Tale norma prevede solo “acquisti compiuti …” e quindi postula necessariamente una attività negoziale, tra cui non può fari rientrare l’accessione.
Con l’accessione infatti non si crea un nuovo, autonomo e distinto bene ma si realizza solo un incremento del bene preesistente, di cui quindi segue le sorti.

Per concludere e completare il quadro, va anche sottolineato che, nel momento in cui andrà ad estinguersi il diritto superficie (situazione che nel caso di specie non può che essere soltanto ipotetica, data la durata novantanovennale di tale diritto), il coniuge che “subirà” le conseguenze negative dell’accessione (ossia la donna che ha sostenuto per intero le spese di acquisto), potrà comunque godere di una tutela, seppure obbligatoria, consistente nel poter vantare un diritto di credito pari alla metà del prezzo corrisposto per detto acquisto.

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