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Articolo 1111 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 26/11/2024]

Scioglimento della comunione

Dispositivo dell'art. 1111 Codice Civile

Ciascuno dei partecipanti può sempre domandare lo scioglimento della comunione(1); l'autorità giudiziaria può stabilire una congrua dilazione, in ogni caso non superiore a cinque anni, se l'immediato scioglimento può pregiudicare gli interessi degli altri.

Il patto di rimanere in comunione per un tempo non maggiore di dieci anni è valido e ha effetto anche per gli aventi causa dai partecipanti. Se è stato stipulato per un termine maggiore, questo si riduce a dieci anni.

Se gravi circostanze lo richiedono, l'autorità giudiziaria può ordinare lo scioglimento della comunione prima del tempo convenuto [260 comma 2 cod. nav.](2).

Note

(1) La divisione ha natura dichiarativa e non ha effetti traslativi.
La giurisprudenza reputa, infatti, che il trasferimento di una parte materiale del bene comune si connoti alla stregua di una vendita subordinata alla condizione sospensiva che la stessa sia attribuita alla quota dell'alienante.
(2) La disposizione fornisce all'autorità giudiziaria il potere di ordinare un rinvio della divisione (primo comma) o di sciogliere la stessa, malgrado l'accordo di restare in comunione (terzo comma); tali poteri richiamano rispettivamente la presenza di un pregiudizio per gli altri comunisti e l'esistenza di gravi circostanze: tali fattori vanno presi in esame in riferimento all'interesse oggettivo della comunione.
La legge prevede una similare disposizione in materia di comunione ereditaria all'art. 717.

Ratio Legis

Ogni comunista può chiedere la divisione; tale scioglimento non può intervenire, tuttavia, se non con l'accordo di tutti i partecipanti, ovvero ordinato da una sentenza.
La divisione si fonda, dunque, su un patto fra comunisti: il contratto di divisione.
Se la cosa comune è facilmente divisibile, il relativo contratto dà a ciascun comunista una porzione materiale del bene pari alla sua quota.
Viceversa, è possibile addivenire allo scioglimento in modo differente e tale per cui ciascun partecipante può vedersi attribuito un valore corrispondente alla sua quota; in questa ipotesi il valore o il bene attribuito al singolo compartecipe non consiste in parti materiali della cosa comune.
Senza un accordo fra i comunisti, lo scioglimento può essere raggiunto grazie ad un provvedimento del giudice.
Anche in tale sede, qualora la cosa comune sia agevolmente divisibile, l'autorità giudiziaria ne prescrive l'attribuzione ai comunisti in parti materiali che corrispondono alle loro quote; viceversa, il giudice riserva ai singoli partecipanti un bene o un valore pari alla loro quota (v. art. 720 del c.c.).
L'autorità giudiziaria deve, inoltre, tenere presenti gli interessi confliggenti con quelli del comunista che desideri lo scioglimento della comunione.
Così, nel caso del primo comma, il giudice deve bilanciare l'interesse degli altri comunisti che vogliono impedire il tempestivo scioglimento della comunione, rinviando fino a cinque anni la divisione della cosa comune. Nel caso di cui all'art. 1112, l'autorità giudiziaria deve tenere in debito conto l'interesse (oggettivo) collegato al peculiare uso che della cosa comune viene fatto, imponendo in tal caso la disposizione stessa la non divisibilità.
Va tenuto presente, da ultimo, l'interesse dei creditori e degli aventi causa di ciascun comunista, al fine di proteggere le proprie ragioni; essi possono, questo scopo, intervenire nel giudizio di divisione, o, in alternativa, impugnare la divisione già eseguita, sempre che, in questa ipotesi, essi abbiano provveduto a notificare un'opposizione precedentemente alla divisione stessa (art. 1113 del c.c.).

Brocardi

Actio communi dividendo
Communio incidens
Favor divisionis

Spiegazione dell'art. 1111 Codice Civile

Scioglimento della comunione. Patto di indivisione. Poteri dell'autorità giudiziaria

Il nuovo codice ha mantenuto il principio sancito nell'art. 681 del vecchio, secondo il quale ciascuno dei partecipanti può sempre domandare lo scioglimento della comunione: anche se questa ha origine contrattuale, l'ordinamento giuridico non vede di buon occhio lo stato di comunione.

Nonostante il “sempre” inserito nella disposizione, che sembrerebbe dover conferire a questa un carattere di assolutezza, il nuovo legislatore, sulle orme della dottrina e della giurisprudenza già formatesi sul precedente art. 681, ha espressamente aggiunto che l'autorità giudiziaria può stabilire una congrua dilazione, se l'immediato scioglimento possa pregiudicare gli interessi degli altri.

Tale limitazione, che mira ad impedire domande di scioglimento intempestivo dal punto di vista dell'interesse collettivo, è stato accolto in tema di divisione di eredità o di beni comuni mortis causa (art. 713 del c.c.) ed è stato ripetuto in tema di scioglimento della comunione in genere, senza quelle precisazioni che si trovano per la prima. Così, giusto l'articolo in esame, lo scioglimento potrà essere dilazionato per il semplice pregiudizio degli interessi degli altri, anche se questo non sia notevole, ed all'art. 1111 non trova applicazione la restrizione della dilazione ad un periodo di tempo non eccedente i cinque anni. La dilazione congrua, rimessa al potere discrezionale del giudice, potrà, nei casi di cui all'art. 1111, eccedere il quinquennio, ma mai il decennio, per la contraddizione che diversamente si determinerebbe fra il primo ed il secondo comma dello stesso art. 1111.

Con tale secondo comma è stata conservata la validità del patto di rimanere in comunione per un tempo non maggiore di dieci anni, ed opportunamente si è aggiunto che esso ha effetto anche per gli aventi causa dai partecipanti. La formula è tale che il principio trova applicazione tutti gli aventi causa, e cioè esso non ha efficacia meramente obbligatoria fra coloro che l'hanno stipulato, ma efficacia erga omnes.

Del resto, anche nel caso di esistenza del patto di indivisione, il vincolo è temperato dal fatto che all'autorità giudiziaria è sempre devoluto il potere di ordinare lo scioglimento della comunione prima del tempo convenuto, se gravi circostanze, il cui apprezzamento e ad essa affidato, lo richiedano. Il semplice regolamento della comunione non può equivalere al patto di indivisione per un decennio.

Per le cause di sospensione della divisione, specifiche alle comunioni ereditarie, si rinvia al libro delle successioni.

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

521 L'art. 1111 del c.c., primo comma, pone una limitazione al diritto di ciascun partecipante di chiedere lo scioglimento della comunione, attribuendo all'autorità giudiziaria il potere di stabilire una congrua dilazione, in ogni caso non superiore a cinque anni, se l'immediato scioglimento può pregiudicare gli interessi degli altri partecipanti. Disposizione analoga è inserita in tema di divisione ereditaria (art. 717 del c.c.). Si è poi chiarito (art. 1111, secondo comma) che il patto di rimanere in comunione per un tempo non maggiore di dieci anni ha effetto anche per gli aventi causa dai partecipanti, e che, se è stipulato per un termine maggiore, si riduce al termine anzidetto. In conformità del codice del 1865 (art. 681, terzo comma), lo scioglimento della comunione può essere ordinato dall'autorità giudiziaria prima del tempo convenuto, se gravi circostanze lo richiedono (art. 1111, terzo comma). E' del pari riprodotta (art. 1112 del c.c.) la norma dell'art. 683 del codice precedente, che vieta di chiedere lo scioglimento della comunione quando si tratta di cose che, se divise, cesserebbero di servire all'uso a cui sono destinate.

Massime relative all'art. 1111 Codice Civile

Cass. civ. n. 6228/2023

Nei giudizi di scioglimento della comunione, la prova della comproprietà dei beni dividendi non è quella rigorosa richiesta in caso di azione di rivendicazione o di accertamento positivo della proprietà, atteso che la divisione, oltre a non operare alcun trasferimento di diritti dall'uno all'altro condividente, è volta a far accertare un diritto comune a tutte le parti in causa e non la proprietà dell'attore con negazione di quella dei convenuti, sicché, in caso di non contestazione sull'appartenenza dei beni, non può disconoscersi la possibilità di una prova indiziaria, né la rilevanza delle verifiche compiute dal consulente tecnico, siccome ridondanti a vantaggio della collettività dei condividenti.

Cass. civ. n. 36401/2022

La norma dell'art. 1111 c.c., secondo la quale, in presenza di una domanda di scioglimento di una comunione, il giudice può concedere una dilazione alla divisione nel caso che questa possa recare 'pregiudizio agli interessi degli altri' compartecipanti, deve essere intesa nel senso che il pregiudizio non possa ravvisarsi nella lesione dell'interesse dei singoli partecipanti a conservare posizioni personali di vantaggio, ma che debba ravvisarsi obbiettivamente, nel pregiudizio a tutti i condomini, nell'interesse obiettivo della comunione.

Cass. civ. n. 24174/2021

Nel giudizio di divisione, la domanda di attribuzione di un immobile indivisibile non ha natura negoziale, ma costituisce una mera specificazione della pretesa introduttiva del processo volta a porre fine allo stato di comunione, sicché, afferendo alle modalità di attuazione dello scioglimento della comunione, non costituisce domanda in senso proprio e può perciò essere proposta per la prima volta anche in appello.

Cass. civ. n. 3694/2021

Perché si abbia negozio divisorio non è necessario che si verifichi lo scioglimento della comunione nei confronti di tutti i coeredi, essendo sufficiente che ciò avvenga rispetto ai coeredi partecipanti all'atto; in tal caso, infatti, lo scioglimento della comunione opera egualmente, pur se limitatamente ai soli partecipanti all'atto ed ancorché i coeredi che rimangono in comunione debbano, poi, mettere in essere un altro (od altri) negozio per pervenire allo scioglimento definitivo e totale della comunione stessa.

Ai fini della comoda divisibilità, non ci si può basare esclusivamente sulla natura e destinazione degli immobili, ma occorre - soprattutto - tener conto dell'intera massa dei beni da dividere, in rapporto al numero delle quote e dei condividenti. Ne consegue che, allorché l'asse ereditario comprende un solo immobile, questo sarà comodamente divisibile se ciascuno dei coeredi potrà averne una parte, anche di valore inferiore alla quota di spettanza, salvo attuare il pareggio con l'operazione di conguaglio ovvero se, pur non essendo possibile frazionare comodamente l'immobile in tante parti, corrispondenti al numero ed alle quote dei condividenti, alcuni di questi richiedano congiuntamente la formazione di una porzione unica, corrispondente all'ammontare complessivo delle loro quote giacché, in questo caso, la divisione è resa possibile dal minore frazionamento dell'immobile.

Cass. civ. n. 4014/2020

In tema di divisione di beni comuni, gli artt. 1119 e 1112 c.c. hanno una "ratio" diversa e forniscono differenti tutele: il primo contempla una forma di protezione rafforzata dei diritti dei condomini, in omaggio al minor "favor" del legislatore per la divisione condominiale e, conseguentemente, contiene la prescrizione dell'unanimità e la tutela del mero comodo godimento del bene, in relazione alle parti di proprietà esclusiva; il secondo costituisce un'eccezione alla regola generale della divisione della comunione disposta dall'art. 1111 c.c., tutela la destinazione d'uso del bene e, per questo, ammette che la divisione sia richiedibile anche da uno solo dei comproprietari, con la sola subordinazione della stessa alla valutazione giudiziale che il bene, anche se diviso, manterrà l'idoneità all'uso cui è stato destinato.

Cass. civ. n. 27645/2018

Quando i beni in godimento comune provengono da titoli diversi, non si realizza un'unica comunione, ma tante comunioni quante sono i titoli di provenienza dei beni, corrispondendo, quindi, alla pluralità di titoli una pluralità di masse, ciascuna delle quali costituisce un'entità patrimoniale a sé stante. Pertanto, in caso di divisione del complesso, si hanno, in sostanza, tante divisioni, ciascuna relativa ad una massa e nella quale ogni condividente fa valere i propri diritti indipendentemente da quelli che gli competono sulle altre masse. Nell'ambito di ciascuna massa, inoltre, debbono trovare soluzione i problemi particolari relativi alla formazione dei lotti e alla comoda divisione dei beni immobili che vi sono inclusi.

Cass. civ. n. 25120/2018

Il rendiconto, ancorché per il disposto dell'art. 723 c.c. costituisca operazione contabile che deve necessariamente precedere la divisione, poiché preliminare alla determinazione della quota spettante a ciascun condividente, non si pone, tuttavia, in rapporto di pregiudizialità con la proposizione della domanda di divisione giudiziale, ben potendosi richiedere tale divisione ex art. 1111 c.c. a prescindere dal rendiconto, a tanto potendosi e dovendosi provvedere nel corso del giudizio. Il giudice non può, peraltro, disporre il rendiconto senza istanza delle parti, le quali devono indicare i presupposti di fatto del relativo obbligo, con la conseguenza che la detta istanza non può non essere soggetta al regime di cui all'art. 345 c.p.c.

Cass. civ. n. 15522/2013

Il contratto di divisione immobiliare con stralcio di quota che preveda la costituzione in comproprietà ai condividenti tutti di una strada da realizzare sulla porzione di terreno non stralciata, attribuisce al titolare della quota stralciata il diritto di esigere dagli altri contraenti il rilascio dell'area convenzionalmente deputata allo scopo, configurandosi in suo favore un diritto di credito funzionale alla tutela dello "ius ad rem" a lui spettante una volta che la strada, intesa quale cosa futura, sia venuta ad esistenza.

Cass. civ. n. 9765/2004

In tema di divisione, non spetta al creditore del condividente alcuna facoltà di impedire, sospendere o interrompere il giudizio di divisione attivato dal proprio debitore, atteso che il diritto alla generica garanzia patrimoniale offerta dal patrimonio del debitore cede (non solo rispetto agli atti di alienazione, ma anche) nei confronti del diritto alla divisione spettante al debitore. Al creditore è riconosciuto, per converso, il diritto di partecipare volontariamente al detto giudizio onde verificarne il quomodo e gli effetti, comportando il relativo procedimento peculiarità risolventesi in una serie di valutazioni di fatto potenzialmente idonee a pregiudicare il patrimonio del condividente e, di riflesso, il suo creditore.

Cass. civ. n. 630/2003

Anche in tema di scioglimento della comunione di diritti reali, disciplinata dall'art. 1111 c.c., si applica la nullità prevista dall'art. 17 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 con riferimento a vicende negoziali inter vivos relative a beni immobili privi della necessaria concessione edificatoria. Tale nullità ha carattere assoluto (ed è quindi rilevabile d'ufficio e deducibile da chiunque vi abbia interesse) in quanto quel regime normativo, sancendo la prevalenza dell'interesse pubblico alla ordinata trasformazione del territorio rispetto agli interessi della proprietà e mirando a reprimere ed a scoraggiare gli abusi edilizi, limita l'autonomia privata e non dà alcun rilievo allo stato di buona o mala fede dell'interessato. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza della Corte d'Appello che aveva rigettato la domanda di divisione giudiziale della comunione di un appezzamento di terreno sul quale erano stati realizzati manufatti abusivi).

Cass. civ. n. 959/1999

Il socio di una società in accomandita semplice che adduca un sopravvenuto ed essenziale mutamento della attuale realtà societaria rispetto alla situazione iniziale, per avere la società dismesso l'esercizio dell'attività d'impresa ed essere rimasta solo formalmente in vita per l'espletamento di un'attività di mera gestione dei propri beni immobili, fa valere una causa di scioglimento dell'ente e, quindi, al fine di ottenere la divisione degli immobili con attribuzione della quota di sua competenza, non può esperire l'azione all'uopo accordata al comproprietario della cosa comune, dovendo, viceversa, necessariamente avvalersi del procedimento di liquidazione di cui agli artt. 2275 ss. c.c., a meno che egli non alleghi e dimostri la esistenza di un contratto equipollente, sostitutivo della liquidazione, nel quale risultino fissati anche i diritti di ciascun socio sul patrimonio della disciolta società (dopo la definizione dei rapporti pendenti).

Cass. civ. n. 2558/1996

La imposizione con sentenza di divisione giudiziale a carico di ciascuno dei condividenti di obbligazioni reciproche, finalizzate allo scioglimento della comunione, determina tra le prestazioni dovute un collegamento di corrispettività, analogo a quello intercorrente tra prestazioni dovute in adempimento di obbligazioni di identico contenuto volontariamente assunte dai condividenti con un unico contratto o con una pluralità di contratti collettivi preordinati alla realizzazione dello scioglimento della comunione, e di conseguenza anche in questa ipotesi ciascuno di essi può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l'altro o gli altri condividenti non adempiono o non offrono di adempiere contemporaneamente le proprie, salvo che siano diversi i termini per l'adempimento.

Cass. civ. n. 8040/1993

Il rendiconto, ancorché per il disposto dell'art. 723 c.p.c. costituisca operazione contabile che deve necessariamente precedere la divisione, in quanto preliminare alla determinazione della quota spettante a ciascun condividente, non si pone tuttavia in rapporto di pregiudizialità con la proposizione della domanda di divisione giudiziale poiché ben può essere richiesta la divisione giudiziale ex art. 1111 c.c. a prescindere dal rendiconto, a tanto potendosi e dovendosi provvedere nel corso del giudizio di divisione, sia nelle forme di cui all'art. 263 e seguenti c.p.c., sia mediante indagini e prove di tipo diverso, come la consulenza tecnica.

Cass. civ. n. 5484/1993

Provvedutosi convenzionalmente allo scioglimento di una comunione, il ripristino di tale comunione può essere effettuato contestualmente nello stesso atto in cui si proceda ad una nuova e diversa divisione della medesima comunione, senza che occorra previamente provvedere con un distinto ed autonomo atto, alla ricostruzione di questa.

Cass. civ. n. 5798/1992

Nel caso di divisioni di beni in godimento comune provenienti da titoli diversi e, perciò, appartenenti a distinte comunioni, è possibile procedere ad una sola divisione, piuttosto che a tante divisioni per quante sono le masse, solo se tutte le parti vi consentano con un atto che, risolvendosi nel conferimento delle singole comunioni in una comunione unica, non può risultare da manifestazione tacita di volontà o dal mero comportamento negativo di chi non si oppone alla domanda giudiziale di divisione unica di tutti i beni delle diverse masse, ma deve materializzarsi in un negozio specifico che, se ha per oggetto beni immobili, deve rivestire la forma scritta ad substantiam, perché rientrante tra quelli previsti dall'art. 1350 c.c.; conseguentemente, in mancanza di un siffatto negozio, il comportamento tenuto dalla parte che non si è opposta alla domanda di divisione unica nel giudizio di primo grado non impedisce a quest'ultima di proporre appello per denunciare la sentenza che ha accolto tale domanda.

Cass. civ. n. 8315/1990

Con riguardo alla comunione pro indiviso l'alienazione che il comproprietario faccia del suo diritto determina l'ingresso dell'acquirente nella comunione soltanto nel caso in cui l'alienazione riguardi la quota o una frazione di questa, con la conseguenza che l'acquirente quale successore a titolo particolare dell'alienante è legittimato a domandare lo scioglimento della comunione a norma dell'art. 1111 c.c. nell'assunta qualità di partecipante. Qualora, invece, il comproprietario disponga di un singolo bene, o di una frazione di esso, tra quelli compresi nella comunione, l'alienazione ha efficacia non reale, bensì solo obbligatoria, con la conseguenza che della comunione continua a far parte il disponente, il quale resta pertanto titolare dell'azione di cui all'art. 1111 c.c., potendo l'avente causa soltanto avvalersi dei diritti accordatigli dall'art. 1113 c.c.

Cass. civ. n. 5140/1987

L'acquirente di quote indivise di singoli beni comuni il quale propone domanda di divisione dei beni medesimi, agisce in via surrogatoria, cioè utendo iuribus dei suoi danti causa, il che comporta l'esigenza della partecipazione di costoro al giudizio divisorio, di cui essi soltanto sono, in senso sostanziale, le vere parti insieme con gli altri partecipanti alla comunione.

Cass. civ. n. 3150/1973

Allorché oggetto della comunione è un bene non suscettibile di frazionamento, lo scioglimento della comunione non può aver luogo che mediante l'alienazione del bene e la ripartizione del corrispettivo tra i titolari del diritto comune. E se il bene viene ceduto per intero ad uno stesso acquirente, che ne diventa titolare nella sua interezza, la distinzione fra alienazione per singole quote ed alienazione del diritto comune nel suo complesso indiviso diviene irrilevante, ai fini di stabilire se le parti abbiano voluto o meno lo scioglimento della comunione, quando non risulti che gli alienanti abbiano voluto costituire una nuova comunione sul corrispettivo dell'alienazione. (Principi affermati dalla Corte in tema di applicabilità dell'imposta di R.M. sui redditi derivanti dalla cessione di brevetti ai comunisti alienanti).

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Consulenze legali
relative all'articolo 1111 Codice Civile

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

F. B. chiede
lunedì 28/10/2024
“In un fabbricato situato nella zona Piano Regolatore B2, con una volumetria totale di circa 3000 m³, 2200 m³ sono di proprietà di un immobiliare srl, dei rimanenti 740 m³:
- 710 m³ appartengono a quattro soggetti eredi di una coppia senza figli (in particolare, eredi del marito), con i quali siamo in trattativa per l’acquisto;
- 30 m³ (che compongono un’unica stanza) sono suddivisi in 20 m³ di proprietà degli stessi quattro eredi del marito (i proprietari dei 710)e 10 m³ condivisi da circa 15 soggetti (eredi della moglie), che, a causa di dinamiche familiari, non hanno intenzione di vendere e pongono condizioni non coerenti con il mercato.
Il fabbricato versa in condizioni fatiscenti e intendiamo realizzare un progetto edilizio per la costruzione di appartamenti, ma ciò non ci risulta possibile in quanto i 15 soggetti di cui sopra bloccano il progetto essendo il loro consenso necessario per la presentazione dello stesso.

Vorremmo sapere se la legge consente di liquidare i soggetti che non intendono vendere, considerando l’esigua percentuale che detengono. In alternativa, possiamo procedere con un progetto di abbattimento e ricostruzione, riservando loro nel nuovo fabbricato le stesse metrature, anche se in posizioni diverse rispetto a quelle attuali, e con miglioramenti legati alla nuova realizzazione progettuale?
Inoltre, è possibile richiedere un risarcimento danni a causa della mancata realizzazione del progetto a seguito della loro opposizione essendo la parte lesa una società immobiliare?

Ringraziamo per la disponibilità e chiediamo che nel caso in cui non siamo stati sufficientemente chiari ci chiediate ulteriori chiarimenti anziché rifiutare il quesito.”
Consulenza legale i 01/11/2024
Non si può essere proprietari di una volumetria. Nel caso specifico o i singoli soggetti sono proprietari (da soli o in concorso con altri) di piani o porzioni di piano catastalmente individuati, oppure ciascuno dei soggetti da lei indicati sono proprietari di una quota dell’intero edificio fatiscente: nel primo caso saremmo davanti ad un condominio, nel secondo caso invece la vicenda andrebbe inquadrata nella disciplina della comunione ordinaria. Purtroppo, la risposta al quesito si modifica radicalmente a seconda di quale fattispecie tra le due indicate sarà possibile applicare al caso specifico.

Se infatti fossimo davanti ad un condominio, e quindi i soggetti che intendono vendere sono proprietari esclusivi di porzioni di piano, non vi è alcun modo per costringerli a vendere la loro unità immobiliare: essi sono liberi
di tenersi la proprietà oppure di venderla per il prezzo che riterranno più opportuno anche a soggetti estranei al condominio.

A dire il vero, leggendo però con attenzione il quesito, si ha la convinzione che l’intero fabbricato sia oggetto di una comunione ordinaria disciplinata dagli artt. 1100 e ss. del c.c.: se così fosse entrerebbe quindi in gioco l’art.1111 del c.c., in forza del quale ciascun comproprietario può sempre chiedere lo scioglimento della comunione.
Tale norma sarebbe l’unica leva a disposizione per smuovere una soluzione che attualmente pare in stallo. Una volta richiesto lo scioglimento della comunione gli altri comproprietari ed in particolare coloro che sono restii a vendere, si troveranno di fronte ad una scelta: o trovano un accordo con gli altri partecipanti alla comunione per cedere le loro quote, accordo che potrà essere raggiunto anche per mezzo di un procedimento di mediazione attivabile dal legale; oppure, diversamente, si andrà incontro ad un procedimento giudiziario di scioglimento della comunione con il possibile rischio di dover mettere all’asta il bene e di venderlo ad un prezzo inferiore a quello di mercato.

Ovviamente, il procedimento di scioglimento giudiziario della comunione può avere diversi esiti e diverse sfaccettature che non possono essere trattati in questa sede, ma dovranno giocoforza essere approfonditi col legale che tratterrà direttamente la vicenda.


A. N. chiede
venerdì 09/02/2024
“Argomento: proprietà immobiliare in comunione indivisa - scioglimento comunione - compensazione fra i comunisti delle eventuali differenze di valore - Richiesta consigli sulle procedure da adottare.
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La proprietà immobiliare in questione riguarda un ampio locale seminterrato (definito "Cantinato") sito nel comune di XXX.
Esso è:
> dotato di doppia apertura con porte in metallo (una apertura per consentire l’entrata e l’uscita di autovetture e l’altra per consentire eventuali uscite di sicurezza persone);
> dotato di adeguati spazi per essere utilizzati come parcheggio autovetture ovvero come ripostigli per masserizie).

Detta proprietà immobiliare a suo tempo è stata acquistata - in comunione indivisa - da 15 (quindici) persone (tutti condomini di un edificio confinante: 7 (sette) coppie ed un singolo). Ciascuna delle 15 persone ha pagato 1/15esimo del costo di acquisto. Pertanto pagamento in parti uguali.

Stante la ottimale disposizione di vari pilastri interni e di due piccoli locali di grandezza adeguata, è stato possibile ricavare 15 aree, alcune delle quali destinabili a parcheggio autoveicoli ed altre a deposito masserizie: l’assegnazione è avvenuta in modo che - sia il singolo che ciascuna coppia - potessero disporre di un posto autoveicolo mentre ciascuna coppia potesse disporre anche dello spazio di pari grandezza per depositarvi le masserizie.

Alcune aree sono rimaste a disposizione comune per le manovre delle autovetture e per lo spostamento delle masserizie.
Inoltre sono di indivisibile proprietà comune: la rampa di accesso esterna al “cantinato”, il “lastrico solare” a sua copertura, il contatore con l’impianto elettrico (per illuminazione locale e per apertura/chiusura della porta principale) ed una tubazione idrica con contatore, per le esigenze di prelievo acqua.

Poiché al momento dell’acquisto le varie superfici utilizzabili erano di grandezza non esattamente uguale e non di pari agibilità, si è proceduto ad una assegnazione temporanea facendo scegliere per primi i comproprietari che nella trattativa di acquisto erano riusciti ad ottenere dal venditore - a vantaggio di tutti - un maggiore sconto.
Tuttavia fu stabilito per iscritto che - al momento dello scioglimento della comunione - si sarebbero fatti valutare le varie aree e si sarebbe proceduto a compensare le differenze o - in alternativa - di scambiare le aree.

Tanto esposto, si chiedono consigli su come procedere per ridurre al minimo le contestazioni.
Preciso la mia frase "ridurre al minimo le contestazioni":
I vari stalli - pur potendo essere destinati a posteggio di una autovettura e per il restante superficie a raccolta delle masserizie (di uso non urgente e non capienti nel proprio appartamento) - hanno (anche se non eccezionali) differenze di superficie e di agibilità di accesso. Alcuni comproprietari chiedono che - a seguito dello scioglimento della comune ed avendo ciascuno pagato in parti uguali le originali spese di acquisto - si proceda ad una valutazione economica dei singoli stalli e ad una compensazione in denaro delle differenze di valore. Sorge il problema su a chi affidare la predetta valutazione, per tema di parzialità a favore del presentatore. Inoltre ritengo che la questione non sia risolvibile col voto, stante l'interesse privato di ciascun comproprietario sull'argomento. In breve: esiste un organismo imparziale che possa decidere, possibilmente senza ricorrere a causa civile?
Grazie. Distinti saluti”
Consulenza legale i 19/02/2024
Ci dispiace, ma evitare contestazioni in una vicenda come quella da lei descritta è molto improbabile, per non dire impossibile. Il cespite descritto nel quesito non può considerarsi un bene condominiale, e la comunione insistente su di esso ricade nel perimetro applicativo della comunione ordinaria disciplinata dagli artt. 1100 e ss. del c.c. In particolar modo, l’art.1111 del c.c. prevede che ciascun partecipante possa chiedere in qualsiasi momento lo scioglimento della comunione: il diritto di scioglimento viene previsto direttamente dalla legge e non può essere in alcun modo escluso dalla volontà degli altri comproprietari (se non per un tempo limitato) o da una delibera assembleare. Questo vuol dire che, se un partecipante alla comunione desidera scioglierla per i motivi più disparati, o si trova un accordo sulle modalità di scioglimento, oppure si dovrà necessariamente ricorrere alla autorità giudiziaria.

In linea assolutamente generale sotto questo ultimo aspetto possiamo dire che un giudizio di divisione avente ad oggetto un cespite come quello descritto può concludersi in due modi differenti: o si vende tutto il bene agli incanti e, se si troverà un acquirente, i comproprietari si divideranno il ricavato della vendita in proporzione ai rispettivi diritti, ma in questo modo si perderebbe la possibilità di parcheggiare in quel luogo l’automobile; oppure, esito che pare più probabile, si riconosce il cespite come bene comodamente divisibile, lo si ripartisce con l’ausilio di un tecnico nominato dal giudice in tanti stalli auto quanto sono i proprietari e successivamente, si assegnano tali posti auto per sorteggio.

Come già accennato, l’approdo giudiziario di una vicenda come quella descritta rappresenta sicuramente “l’ultima spiaggia” ed è una eventualità che un legale attento deve sempre saper scongiurare, in particolar modo ricorrendo all’istituto della mediazione civile e commerciale di cui al D.Lgs n.28/10: non a caso, previsto come condizione di procedibilità prima di introdurre un qualsiasi giudizio divisionale.
È ben possibile, infatti, giungere ad una divisione del cespite descritto nell’ambito della mediazione: il mediatore potrà nominare un tecnico che provveda a frazionare lo scantinato in tanti posti auto, preservando ovviamente le aree di manovra, che necessariamente rimarranno comuni, e poi procedendo ad assegnarle ai singoli proprietari (ad esempio tramite sorteggio), tenendo anche conto anche di eventuali compensazioni in denaro. Per dare il via ad una procedura di mediazione rimane ferma la necessità di ricorrere comunque alla assistenza di un legale, il quale, su incarico di un comproprietario diligente, o un gruppo di essi, dovrà anche inviare agli altri partecipanti alla comunione una richiesta di procedere alla divisione dello scantinato, secondo quanto previsto dall’art. 1111 del c.c.

Adriano M. chiede
giovedì 02/12/2021 - Friuli-Venezia
“Avrei bisogno di sapere se esiste un modo per dare una scadenza ad una scrittura privata, che non ce l'ha, sottoscritta circa 9 anni fa da me mia madre e mio fratello e avente per oggetto la vendita di un immobile di proprietà. Mia madre si trova nella situazione di dover monetizzare ma la scrittura privata, in tal senso, è vincolante.....io non ho nulla da eccepire alle richieste di mia madre ma mio fratello (con il quale i rapporti si sono deteriorati nel tempo e vive nell'immobile oggetto della scrittura privata mentre io e mia madre abbiamo preso casa in affitto), anche se a parole anche scritte si rende disponibile, di fatto ha convenienza che la casa resti invenduta. C'è la possibilità di inviarvi dei file con scrittura privata e considerazioni in merito in modo che abbiate chiara una situazione che, seppur spiegabile in poche righe, in effetti va valutata più attentamente?”
Consulenza legale i 12/12/2021
La scrittura privata a cui si fa riferimento in realtà non necessita di apposizione di un termine.
Analizzando il suo contenuto, infatti, ci si può rendere conto del fatto che per mezzo di essa le parti hanno soltanto inteso regolare gli effetti che una futura e potenziale vendita, relativa agli immobili ivi contemplati e di cui sono comproprietari, è destinata a produrre inter partes, ossia tra le stesse parti che hanno aderito a quella convenzione.
Pertanto, più che ad un termine, la medesima deve intendersi sottoposta ad una condizione sospensiva di efficacia, e precisamente alla condizione che la proposta di vendita in essa contenuta sia accettata da un potenziale e futuro acquirente.

Peraltro, l’assenza di un termine nel caso di specie non si pone in contrasto con alcun divieto normativo, in quanto il legislatore ha solo posto un limite al patto di rimanere in comunione (il quale, ex art. 1111 del c.c., non può avere effetto per un termine maggiore di dieci anni) ed al c.d. divieto di alienazione di cui all’art. 1379 del c.c. (il quale ha effetto solo tra le parti e non è valido se non contenuto entro apprezzabili limiti di tempo).
Qui, al contrario, le parti hanno manifestato la concorde volontà di alienare (e, dunque, di porre in tal modo fine allo stato di comunione), disciplinando nel contempo gli effetti che da tale vendita se ne dovranno far discendere, in particolare per ciò che concerne le modalità di distribuzione del prezzo ed il riconoscimento del diritto a rimborsi.

Neppure si può parlare di un termine di prescrizione degli accordi scaturenti da tale scrittura, in quanto, anche a voler sostenere che per essa, in assenza di un termine specifico, debba valere il termine di prescrizione ordinaria fissato dall’art. 2946 del c.c. (pari ad anni dieci), in ogni caso troverebbe applicazione quanto disposto dall’art. 2935 del c.c., secondo cui la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere (in questo caso, come prima si è accennato, ogni diritto scaturente dalla scrittura privata in esame deve intendersi sottoposto alla condizione sospensiva che la proposta di vendita in essa contenuta sia accettata da un potenziale acquirente).

Continuando nell’analisi della scrittura privata, un’altra parte che viene in particolare rilievo è il disposto di cui all’art. 11, ove è detto quanto segue:
Fino a quando l’immobile non verrà venduto, nel caso in cui un comproprietario decidesse di rilasciarlo, egli manterrà sempre il diritto di accedervi o di farvi ritorno in modo stabile nel rispetto dei diritti degli altri comproprietari”.
Ebbene, nel caso di specie sembra che si sia verificato proprio quanto previsto dalla suddetta clausola, in quanto nel quesito si dice che solo uno dei comproprietari (il fratello) vive nell’immobile.
Si tratta, dunque, di dare un inquadramento giuridico al rapporto che si è venuto a creare tra le parti in relazione al godimento degli immobili, il quale si ritiene che possa ricondursi ad un contratto di comodato precario (ossia senza determinazione di tempo), con conseguente applicabilità sia della disciplina inerente a tale contratto (artt. 1803 e ss. c.c.) sia di quella relativa alla comunione in generale (artt. 1100 e ss. c.c.).

In particolare, per ciò che concerne il rapporto di comodato, trattandosi come si è detto di comodato senza determinazione di durata, si potrà invocare l’applicazione dell’art. 1810 del c.c., in forza del quale la parte comodataria (ossia il fratello e la sua famiglia) è tenuta a restituire l’immobile non appena la parte comodante ne fa richiesta.
Conforme alla disciplina del comodato, ed in particolare all’art. 1808 del c.c., risulta anche la clausola contenuta all’art. 12 della scrittura, volta a regolare le spese relative all’immobile nel caso in cui uno dei comproprietari dovesse avere di fatto in modo stabile l’utilizzo esclusivo o prevalente di esso.

Sotto il profilo della disciplina dettata in tema di comunione ordinaria dei beni, trova particolare applicazione, per ciò che qui interessa, l’art. 1102 del c.c., norma in forza della quale viene riconosciuto a ciascuno dei partecipanti alla comunione il diritto di servirsi della cosa comune “purchè non….impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto”.
Nel caso di specie è pur vero che, in conformità a quanto previsto al terzo comma dello stesso art. 1102 c.c, il fratello ha esteso il suo diritto sull’intera cosa comune in forza di un mutamento del titolo del suo possesso (ovvero a seguito del venire ad esistenza di un rapporto di comodato, a cui gli altri comunisti hanno prestato il loro consenso e per il quale si evidenzia non è richiesta alcuna forma scritta), ma è anche vero che se gli altri comproprietari (la madre e l’altro fratello) dovessero avanzare richiesta di restituzione dell’immobile, prenderebbe nuovamente vigore il disposto del primo comma dell’art. 1102 c.c., di cui si potrà invocare l’applicazione.

Legittima, poi, si ritiene la pretesa suggerita dal legale di controparte di dare un preavviso di 48 ore all’attuale detentore dell’immobile per accedervi, trattandosi di fare accesso presso il domicilio altrui e potendo in tal senso mutuarsi la disciplina dettata in tema di locazione.

Volendo a questo punto trarre le conclusioni, sulla scorta delle considerazioni fin qui svolte, si suggerisce quanto segue:
a) se si ha intenzione di voler recuperare il possesso promiscuo dell’immobile, è opportuno inviare formale richiesta di restituzione dello stesso al fratello occupante (diritto espressamente riconosciuto al comodante dall’art. 1810 c.c. nel caso di comodato senza determinazione di tempo)
b) qualora il fratello dovesse opporsi alla restituzione volontaria dell’immobile, si rende purtroppo necessario instaurare un ordinario giudizio di cognizione, volto ad ottenere una sentenza da poter mettere in esecuzione per il rilascio forzato dello stesso immobile;
c) non ci si può opporre nel frattempo alla richiesta di preavviso per accedere all’immobile;
d) ci si può intanto mettere alla ricerca di un potenziale acquirente, essendo ancora valida la scrittura privata sottoscritta nove anni fa e le cui pattuizioni dovranno essere osservate qualora si addivenga al trasferimento del bene;
e) qualora non dovesse verificarsi nessuna delle situazioni sopra prospettate, ci si potrà pur sempre avvalere del disposto di cui all’art. 1111 del c.c., norma che consente a ciascuno dei partecipanti alla comunione di richiedere in qualsiasi momento lo scioglimento della stessa, facendo eventualmente ricorso alla divisione in forma giudiziale (anziché consensuale).

Andrew P. chiede
martedì 08/12/2020 - Estero
“Buongiorno, vi scrivo per il seguente problema: immobile ad esclusivo uso commerciale, sito a Firenze, non divisibile, categoria catastale B4, precedentemente in affitto a Banche e successivamente ad Ente Statale (Questura di Firenze). Proprietari 9 soci con diverse quote, tutti cugini. Per legge catastale tutti i soci devono essere d'accordo per qualsiasi operazione (vendita o affitto) e NON può essere applicato il criterio di maggioranza. Dei 9 soci, tre (di cui io sono uno) sono fratelli, tutti residenti negli USA, e data l'età avanzata, la lontananza e l'impossibilità di raggiungere un accordo con gli altri soci, desiderano esercitare il diritto di scioglimento dalla COMUNIONE.
1) A quali difficoltà giuridiche andiamo incontro? 2) Devono gli altri 6 soci essere d'accordo sulla richiesta di scioglimento dalla comunione dei 3 soci americani?”
Consulenza legale i 15/12/2020
L’art. 1111 c.c. stabilisce che ciascuno dei partecipanti alla comunione può sempre domandarne lo scioglimento. Analogo principio è sancito per la comunione ereditaria dall’art. 713 c.c.
Dunque, la divisione non richiede il consenso di tutti i comproprietari: naturalmente, qualora non vi sia accordo tra i partecipanti, per attuarla occorrerà ricorrere ad un giudice.
Laddove venga richiesto l’intervento del giudice, sempre l’art. 1111 c.c. prevede che l'autorità giudiziaria possa stabilire una congrua dilazione dello scioglimento, in ogni caso non superiore a cinque anni, se l'immediato scioglimento può pregiudicare gli interessi degli altri.
Da un punto di vista processuale va poi precisato che, sempre qualora non vi sia accordo sullo scioglimento, l’eventuale domanda giudiziale dovrà essere preceduta da un tentativo di mediazione obbligatoria presso gli organismi competenti, come previsto dal D. Lgs. 28 del 2010, che disciplina la Mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali.
Quanto al carattere non divisibile dell’immobile, l’art. 720 c.c., dettato in tema di divisione ereditaria ed applicabile anche alla comunione ordinaria (stante il rinvio previsto dall’art. 1116 c.c.), fissa i criteri per la divisione.
In particolare, l’immobile non comodamente divisibile deve preferibilmente essere compreso per intero, con addebito dell'eccedenza, nella porzione di uno dei comproprietari aventi diritto alla quota maggiore, o anche nelle porzioni di più comproprietari, se questi ne richiedono congiuntamente l'attribuzione. In mancanza di tali presupposti, dovrà procedersi alla vendita all'incanto.
Naturalmente, il consiglio è quello di cercare, prima di tutto, un accordo sulla divisione con gli altri comproprietari, che eviterebbe a tutti (anche a coloro che sono contrari alla divisione, ma che non potrebbero comunque impedirla) un aggravio di spese legali.

Francesco G. chiede
lunedì 06/11/2017 - Toscana
“Buonasera,
mi chiamo (omissis), sono nato a (omissis) il (omissis).

Nel Luglio 2007 acquistai una casa a metà con quella che oggi è la mia ex compagna.
Attivammo un mutuo presso una banca (MPS) e cominciammo la nostra vita..
Dopo circa 10 anni di convivenza.. la mia ex compagna se ne va con un altro...io rimango nell'abitazione in questione per circa 18 mesi; il tempo necessario di ultimare dei lavori di ristrutturazione presso una casa di proprietà di mio padre (questo perché da entrambe le parti si manifesta la volontà di vendere e chiudere il tutto).
Ad oggi la casa è vuota da circa 12 mesi,ed ancora in vendita..
Nel frattempo la mia ex mette al mondo un figlio con il nuovo compagno; un po' alle strette economiche, con varie spese più il mutuo (che regolarmente viene pagato da entrambi)...mi fa sapere che sta valutando di trasferirsi nella nostra casa con il suo nuovo compagno e il loro figlio...mi chiede di continuare a pagare la mia parte di mutuo, lei provvederà alla sua parte più le utenze..

-la proprietà è al 50%
-Io mi sono ritrovato a vivere in quella casa da solo non per scelta..ed ho avuto necessità di tempo per sistemarmi altrove
-ancora oggi abbiamo entrambi la residenza nella medesima abitazione per ragioni di agevolazioni d'interessi sul mutuo

le domande sono:

La mia ex compagna può andare a vivere nella nostra casa con il suo compagno e il figlio che ha avuto da quest'ultimo?
può pretendere che io paghi ugualmente la mia parte di mutuo?
Mi posso rifiutare o posso ottenere che sia tutto a carico suo finché non vendiamo?
Se a mia insaputa dovesse trasferirsi e cambiare la serratura..come mi dovrei muovere?

Grazie mille per adesso
cordiali saluti
a presto

Consulenza legale i 13/11/2017
Laddove lei fosse stato coniugato con la sua ex compagna e avesse ottenuto la separazione personale o il divorzio dalla stessa, tutte le questioni relative all'assegnazione della casa coniugale avrebbero potuto essere definite nel relativo provvedimento giurisdizionale, oppure in sede di modifica degli accordi di separazione o divorzio.

Va osservato, peraltro, che, laddove lei fosse stato coniugato e il giudice, in sede di separazione o divorzio, avesse assegnato la casa coniugale alla sua ex moglie, lei non avrebbe, comunque, potuto impedire a quest'ultima di andare a convivervi con il nuovo compagno, dal momento che, altrimenti, "si verificherebbe una illegittima restrizione della sua libertà personale" (Corte di Cassazione, sentenza n. 23786/2004).

Ad ogni modo, nel caso che qui interessa, non siamo in presenza di un rapporto di coniugio, bensì di una "convivenza di fatto".

Di conseguenza, è rimessa alla vostra autonomia privata decidere come regolare i vostri rapporti personali e patrimoniali.

La nuova "legge Cirinnà" (legge n. 76/2016), infatti, prevede espressamente che i conviventi di fatto possano regolare i loro rapporti patrimoniali mediante la stipula di un "contratto di convivenza".

Nel caso di specie, tuttavia, tale "contratto di convivenza" non è stato stipulato, con la conseguenza che non esiste alcun "titolo" da poter far valere dinanzi l'autorità giudiziaria.

Certamente, comunque, la sua ex compagna non potrà arbitrariamente cambiare la serratura dell'abitazione, la cui proprietà è cointestata: laddove, dunque, la sua ex compagna cambiasse la serratura, senza avvisarla e senza darle una copia delle chiavi stesse, lei potrebbe certamente rivolgersi all'autorità giudiziaria, al fine di ottenere la riconsegna dell'immobile in questione.

Quanto al mutuo, essendo il medesimo cointestato, lei è tenuto a pagare la quota di sua spettanza: il contratto di mutuo, infatti, è stipulato con la banca, la quale, ovviamente, resta estranea alle vicende personali che interessano i mutuatari.

Le consigliamo, comunque, di instaurare un dialogo con la sua ex compagna (magari con l'ausilio di un legale), in modo da giungere alla stipula di un accordo con il quale definite i vostri rapporti patrimoniali, ora che la convivenza è cessata. In tal modo, potreste accordarvi circa l'assegnazione dell'immobile e il pagamento del mutuo.

Così, ad esempio, la sua ex compagna potrebbe decidere di acquistare la sua quota di immobile e di accollarsi anche la relativa parte di mutuo (previo accordo con la banca, che però in tal modo, vedrebbe ridotte le sue garanzie di solvibilità, perché da due debitori passerebbe a uno soltanto).

Laddove, infine, non riuscisse proprio a trovare un accordo con la sua ex compagna, potrebbe valutare di rivolgersi al Giudice, al fine di ottenere la divisione giudiziale dell'immobile comune.

In questo caso, il Giudice, dopo aver proceduto alla valutazione dell'immobile, predisporrà un progetto di divisione, in modo da sciogliere la comproprietà. Se l'immobile risulterà non facilmente divisibile in due parti ne disporrà la vendita e poi il ricavato andrà diviso tra i due proprietari (dopo aver corrisposto alla banca il residuo da pagare).






Marco chiede
domenica 15/11/2015 - Lazio
“Un terreno di 12000 mq è di proprietà di 20 persone ciascuno proprietario di TOT quote ereditarie per un totale di 84 (proprietà indivisa). Io ho sottoscritto con alcuni di essi un preliminare di acquisto per un totale di 24/84 di quote. Ora, 2-3 eredi indispettiti, hanno inviato una raccomandata a tutti i 20 eredi (ovviamente già d'accordo con parte di essi) convocando un'assemblea dei comproprietari per stabilire la nomina dell'amministratore, la formazione di un regolamento. questo in quanto una parte dei familiari si è risentita del fatto che alcuni di essi avessero fatto "entrare" un estraneo nella comproprietà, e sicuramente vorranno impormi delle limitazioni. A questo punto volevo sapere, atteso che i promissari venditori si oppongono fermamente a questa iniziativa, cosa possono fare? le decisioni prese in tale assemblea potranno essere fatte valere nei confronti di tutti i comproprietari presenti e futuri? ovvero avranno effetto solo tra coloro i quali le sottoscriveranno? credo che sia la comunione prevista dal c.c. a regolare questo tipo di rapporti. Potranno impormi un regolamento dove ad esempio obbligano i comproprietari a non sciogliere la comunione? Preciso altresì che il terreno non ha parti di proprietà esclusiva.
Grazie!”
Consulenza legale i 17/11/2015
La vicenda descritta vede una situazione di comunione relativa alla proprietà di un terreno.
Attualmente si tratta di una comunione certamente ereditaria (il gran numero di comproprietari lo fa sospettare), cioè di una comunione incidentale, sorta non per volontà dei contitolari.

La comunione ereditaria costituisce una species della comunione ordinaria e, in assenza di specifica disciplina, viene regolata dalle norme dettate per la fattispecie generale, laddove compatibili. Da un lato, esistono norme dettate in relazione alla comunione ordinaria non applicabili alla comunione ereditaria; dall'altro lato, vi sono norme che si applicano solo alla comunione ereditaria e non alla comunione ordinaria, come quella sul retratto successorio.

A breve, alcune quote del terreno comune saranno cedute a un estraneo. La comunione rimane "ereditaria" o diventa di tipo "ordinario", quindi soggetta a tutte le norme comprese negli artt. 1100 e seguenti del codice civile?

Sembra ormai opinione consolidata nella giurisprudenza della Suprema Corte che in ogni ipotesi di cessione di quota ereditaria il cessionario - sia egli stesso erede o sia un terzo estraneo all'eredità - entri nella comunione ereditaria e pertanto la successiva divisione della massa comune debba necessariamente valutarsi come divisione ereditaria (si veda, tra le altre, Cass. civ., sez. II, 12.10.2007 n. 21491: "la comunione ereditaria non si trasforma in comunione ordinaria per il fatto che qualcuno dei coeredi abbia ceduto ad un estraneo la propria quota, posto che lo stato di comunione cessa soltanto con la divisione tramite la trasformazione dei diritti dei singoli partecipanti su quote ideali dell'eredità in diritti di proprietà individuali su singoli beni").

Anche dal punto di vista dell'amministrazione della cosa comune, quindi, l'ingresso del terzo quale titolare di una quota del bene non fa venire meno la qualifica "ereditaria" della comunione, pur non diventando il terzo mai erede.

La premessa fatta è importante per individuare la disciplina applicabile alla gestione del bene comune nel caso di specie. La comunione oggetto del quesito sarà regolata dagli artt. 1100 e seguenti, in quanto compatibili.

Le situazioni di incompatibilità più evidenti sono state trattate dalla dottrina e dalla giurisprudenza.
Certamente non sembra applicabile l'art. 1103, laddove consente l'illimitato diritto del partecipante a cedere a chiunque la propria quota: nella comunione ereditaria, infatti, la cessione della quota da parte di un coerede è soggetta al diritto di prelazione degli altri (art. 732 del c.c.).
Anche quanto alla divisione, si rileva che le norme dettate per la divisione ordinaria sono applicabili anche alla divisione ereditaria, mentre le norme dettate per la divisione ereditaria sono applicabili alla divisione ordinaria solo nei limiti della compatibilità (art. 1116 del c.c.).

Circa l'amministrazione della cosa comune mediante nomina di amministratore e approvazione di un regolamento, gli artt. 1105-1108 c.c. si ritengono generalmente applicabili, quindi:
- gli atti di ordinaria amministrazione sono assoggettati a deliberazione della maggioranza dei partecipanti;
- sempre a maggioranza, si può formare un regolamento per l'ordinaria amministrazione, che di regola, se non impugnato davanti all'autorità giudiziaria entro 30 giorni dalla deliberazione che lo ha approvato, diventa efficace anche nei confronti degli eredi e degli aventi causa (leggasi: acquirenti) dai singoli partecipanti (lo dice espressamente il secondo comma dell'art. 1107 del c.c., non lasciando spazio a dubbi);
- si può nominare un amministratore della comunione, che agisce in qualità di mandatario.

Anche l'art. 1108 c.c., il quale richiede per le alienazioni il consenso di tutti i comproprietari, è applicabile alla comunione ereditaria, in quanto espressione di una regola generale pertinente ad ogni specie di comunione: ciò risulta evidente dal disposto dell’art. 719 del c.c., che presenta solo una limitata eccezione alla regola, prevedendo che la vendita possa essere deliberata a maggioranza, esclusivamente nella particolare ipotesi che sia necessaria per il pagamento dei debiti e pesi ereditari (v. Cass. Civ., sez. II, 9.10.2012, n. 17216).

Chi ha firmato il preliminare di acquisto delle quote, e quindi entrerà presto nella comunione, si chiede se nel regolamento i comproprietari potranno inserire una clausola che obbliga a non sciogliere la comunione. La risposta deve essere negativa. L'art. 713 del c.c. sancisce espressamente che i coeredi possono sempre domandare la divisione, salvo alcune contenute limitazioni temporali che può disporre il testatore (non ci sembra che ci sia un testamento nel caso di specie).
La legittimazione attiva a chiedere la divisione del bene comune spetta anche al cessionario della quota, cioè a colui che partecipa alla comunione ma è privo della qualità di erede: lo riconosce ormai pacificamente sia la giurisprudenza che la dottrina.

Ci si può domandare se trovi eventualmente applicazione il secondo comma dell'art. 1111 dettato per la comunione ordinaria, il quale sancisce la validità del patto di rimanere in comunione per un tempo non maggiore di dieci anni, efficace anche per gli aventi causa dai partecipanti. Si propende generalmente per la risposta positiva, ma probabilmente nel caso in esame un tale patto non potrà essere concluso, mancando l'accordo di tutti i coeredi: il patto deve essere, infatti, concluso necessariamente tra tutti i partecipanti, non solo tra una parte di essi, e va redatto per iscritto e poi trascritto per poter essere opponibile ai terzi.

Dario R. chiede
giovedì 16/04/2015 - Lombardia
“Salve, ho la seguente problematica: vivo in una casa comprata nel 2007 in separazione di beni con un mutuo cointestato con la mia attuale ex moglie. Abbiamo sentenza di separazione nel 2011. La mia ex già dal 2011 va a vivere altrove. Io e solo io continuo a pagare il mutuo della casa coniugale che giuridicamente non viene assegnata a nessuno, ossia è di entrambi.
Nel 2013 la mia ex dona a suo fratello, senza avvisare nessuno (banca mutuatrice inclusa) la sua quota del 50% della casa coniugale. Quindi due mutuatari differenti (io e la mia ex) con due comproprietari diversi (io ed il mio ex cognato). Io continuo a pagare in toto il mutuo.
Aggiungo che in sede di udienza preliminare era stato siglato tra le parti, innanzi agli avvocati ed al giudice istruttore della separazione giudiziale, un accordo scritto in cui la mia ex cedeva a me la sua quota per un corrispettivo in denaro. Accordo che poi la mia ex non ha più ritenuto idoneo e quindi non più valido.
Ora il punto è questo: vorrei saldare a giorni tutto il mutuo residuo della casa coniugale: potrei chiedere azione di regresso e\o di surroga? Potrei ottenere la riduzione di questa tanto ostica donazione? Ad oggi nessuno ha ricevuto copia di questa donazione, avevano obblighi di legge nel farmeli avere e\o comunicare? In ultimo, per quella che è la vostra conoscenza che alternative avrei oltre a quelle di utilizzare un'azione di regresso e\o surrogazione per tornare a vivere in casa mia senza estranei? Riguardo a tutte le spese documentate che ho dovuto sostenere in obbligo per tale immobile posso rivalermi anche per quelle? Danni di altro tipo ne posso chiedere? Ho chiesto anche troppo... grazie anticipatamente di tutto!! Cordiali saluti”
Consulenza legale i 20/04/2015
La soluzione del quesito posto implica la risposta a due domande principali:
1. La donazione compiuta dalla moglie separata a favore del fratello è valida?
2. Il marito separato può agire in regresso o surroga nei confronti della moglie o di suo fratello?

1.
Sebbene secondo la giurisprudenza di legittimità il verbale dell'accordo di separazione abbia natura di atto pubblico ai sensi e per gli effetti dell'art. 2699 del c.c., e dopo l'omologazione esso costituisca titolo per la trascrizione ex art. 2657 del c.c. (v. ad esempio Cass. civ. 4306/1997), i giudici di merito tendono a sposare la tesi opposta. Tuttavia, si ammette generalmente che l’accordo possa contenere clausole di tipo obbligatorio con le quali le parti si impegnano ad eseguire trasferimenti, cessioni e quant’altro, nell’ambito della crisi solutoria della famiglia.
Come ben chiarito dal Tribunale di Milano, sez. IX, nella decisione del 21 maggio 2013, "le parti, per effetto della loro autonomia contrattuale e della conseguente interpretazione dell’art. 711 c.p.c. e 4, comma 16, legge div., possono sì integrare le clausole consuete di separazione e divorzio (figli, assegni, casa coniugale) con clausole che si prefiggono
di trasferire tra i coniugi o in favore di figli diritti reali immobiliari o di costituire iura in re aliena su immobili: tuttavia, debbono ricorrere alla tecnica obbligatoria e non a quella reale, pena la possibile vanificazione dello strumento di tutela prescelto. Tale tecnica obbligatoria, peraltro, consente pacificamente l’applicazione dell’art. 2932 c.c. e, quindi, di porre rimedio ad eventuali inadempimenti successivi alla pattuizione
".

Nel caso di specie, la moglie si è impegnata per iscritto (v. art. 1351 del c.c.) a cedere la propria quota sull'immobile familiare al marito. Ora, salvo che non vi sia stata una rinuncia espressa da parte del marito alla conclusione del contratto definitivo di trasferimento, si deve presumere che questi sia sempre interessato ad ottenere - anche in via coattiva - l'adempimento del preliminare.
Pertanto - si ripete, salvo rinuncia nel frattempo intervenuta da parte del marito - l'impegno assunto dalla moglie nel verbale di separazione avrebbe potuto essere attuato forzosamente mediante il meccanismo dell'art. 2932 del c.c., che consente di ricorrere ad un giudice al fine di ottenere una sentenza che tenga luogo del contratto non concluso. Si è detto "avrebbe potuto" in quanto, nelle more di questo giudizio, e presupponendo che non vi sia stata la trascrizione del contratto preliminare ai sensi dell'art. 2645 bis del c.c., la moglie ha donato la sua quota di immobile al fratello - diremo tra poco se valida o meno -, procedendo alla trascrizione: pertanto, il contratto preliminare non può essere opposto al donatario del bene.

Ne scaturisce che l'azione ex art. 2932 non è più attuabile: tuttavia, il marito/promissario acquirente ha diritto al risarcimento del danno subito dal mancato adempimento dell'impegno assunto in sede di separazione.

Quanto alla validità della donazione, non si ravvisano nei fatti esposti argomenti contrari. La quota di un bene indiviso è nella libera disponibilità del suo titolare ai sensi dell'art. 1103 (v. tra le altre Cass. civ. n. 4965/2004: "In materia di proprietà, il principio generale che regola il regime giuridico della comunione pro indiviso è quello della libera disponibilità della quota ideale, sicché è ben possibile che ciascun comunista autonomamente venda o prometta di vendere la sua quota"). L'altro comproprietario non deve essere avvisato, trattandosi nel caso di specie di comunione ordinaria e non ereditaria (ove vigono regole diverse).

Per individuare eventuali punti deboli della donazione sarebbe necessario esaminare nel dettaglio tutta la documentazione attinente al caso in esame.

2.
La risposta alla seconda domanda è positiva. Il mutuo cointestato consiste in una obbligazione solidale tra i coniugi (cioè il creditore-banca può chiedere a ciascuno l'interno, indifferentemente): tuttavia, nei rapporti interni, si presume sempre che il debito sia suddiviso a metà. Pertanto, il condebitore che ha effettuato per l'intero il pagamento al comune creditore ha diritto di rivalersi verso gli altri condebitori solidali (in questo caso, la moglie), con l'azione di regresso, chiedendo il rimborso delle quote corrispondenti alle parti di debito che gravavano sugli altri.
Naturalmente chi agisce in regresso deve provare di aver assolto anche i pagamenti dovuti dal coobbligato, nonché che questi - che nel nostro caso è la ex moglie - non abbia in qualche modo pagato il suo credito "interno" al marito nel corso della vita coniugale (ci si riferisce ad eventuali accordi interni alla famiglia, per cui il mutuo è stato fatto gravare interamente sul marito perché, ad esempio, la moglie provvedeva nel contempo a pagare tutte le spese ordinarie dell'immobile).

Rispetto alla donazione, non sussisteva per la moglie l'obbligo di avvisare la banca. Tuttavia, nel caso in cui il mutuo sia stato acceso con iscrizione di ipoteca sull'immobile, si deve sottolineare che l'ipoteca ha efficacia anche nei confronti di colui che acquista l'immobile gravato da tale garanzia (qui, il fratello della moglie), posteriormente all'iscrizione. Costui non risulta obbligato personalmente al pagamento del mutuo, ma il creditore che abbia iscritto ipoteca sull'immobile da lui acquistato potrà - in caso di inadempimento - procedere alla richiesta di espropriazione dello stesso bene anche dopo il suo trasferimento in proprietà del terzo (v. art. 2858 del c.c.). Quindi, il titolare successivo del bene su cui si sta pagando un mutuo rischia di vedersi sottrarre il bene se il mutuatario non paga.
Ciò, però, non rende invalido il trasferimento.

Infine, va ricordato che il comproprietario può sempre chiedere lo scioglimento della comunione (art. 1111 del c.c.). Quindi, non vi è l'obbligo di convivere forzatamente con l'altro comproprietario o di gestire in comune la cosa anche se non si va in alcun modo d'accordo.

Leonardo B. chiede
giovedì 21/11/2013 - Liguria
“Contenzioso relativo a residenza bifamiliare che, dopo varie vicissitudini, è stata oggetto di accordo divisionale in base al quale l'impianto di acque reflue è rimasto nella proprietà di B, con servitù a favore di A. A propone di realizzare a proprie spese un impianto autonomo nell'area di sua proprietà esclusiva, lasciando a B l'esistente impianto certificato.
Domanda: può B opporsi? come pagare?”
Consulenza legale i 02/12/2013
La situazione di fatto descritta nel quesito fa comprendere come non vi sia più una comunione dell'impianto di scarico delle acque reflue, poiché lo stesso è stato assegnato in proprietà esclusiva a B. A ha solo un diritto di servitù sul medesimo. Pertanto, non trova applicazione la disciplina dettata dal codice civile per la comunione (artt. 1100 ss. c.c.).
Non si ravvisa alcun motivo per cui B abbia diritto di opporsi alla costruzione da parte di A di un proprio impianto autonomo, su terreno di proprietà esclusiva di A e senza che peraltro gli venga richiesto alcun esborso, salvo che una tale opera non possa creare in qualche modo danni alla sua proprietà.

Costruito il nuovo impianto autonomo ed essendo venuta meno l'utilità in vista della quale il diritto di servitù era stato costituito, A può rinunziarvi: lo dovrà fare, a pena di nullità, con atto scritto ai sensi dell'art. 1350 del c.c. n. 5), secondo il quale gli atti di rinunzia ai diritti indicati dai numeri precedenti del medesimo articolo - tra cui i diritti di servitù - devono rivestire la forma dell'atto pubblico o della scrittura privata (v. Cass. Civ. Sez. II, 2228/85). L'atto scritto in cui viene inserita la rinunzia può essere un qualsiasi atto, come un contratto, ma anche (e sembra questo il caso di specie) un atto unilaterale avente natura meramente abdicativa del diritto da parte del suo titolare.

Ci si deve però chiedere se sia necessario il consenso di B (proprietario del fondo servente) affinché A (titolare del fondo dominante) possa validamente rinunciare alla servitù. La questione è stata oggetto di alcune pronunce della Corte di cassazione, la quale ha ritenuto che sia sufficiente, al fine del perfezionamento della rinuncia, che tale volontà abdicativa sia esteriorizzata in un atto scritto: non è necessario che venga portata a conoscenza del soggetto interessato, ossia del proprietario del fondo servente.
Poiché la servitù è intesa come utilitas che il fondo dominante trae da quello servente, la Suprema Corte ha stabilito che la rinuncia della servitù prediale è operativa indipendentemente dal consenso della controparte. Difatti, in tema di servitù, il proprietario del fondo servente non può sostenere di subire un danno a fronte della rinuncia cui egli non ha acconsentito: il proprietario del fondo servente, infatti, subisce il peso imposto a favore del fondo dominante e quindi non trae alcun vantaggio dalla servitù (v. sul punto Cass. Civ., 30.3.1985 n. 2228, Cass. civile sez. II, 21.2.1995, n. 1882, Cass. civile 20.12.1989 n. 5759).

Antonino D. O. chiede
domenica 15/04/2012 - Friuli-Venezia
“Comunione ereditaria: come attivare lo scioglimento,persistendo l'incomunicabilità
tra coeredi.”
Consulenza legale i 22/04/2012

Il codice civile prevede in modo articolato la divisione dei beni in comunione ereditaria: titolo IV articoli da 713 a 768.

In particolare l'art. 713 del c.c. prevede che i coeredi possano sempre domandare la divisione, la cui fonte può essere tanto un atto negoziale quanto giudiziale.

I coeredi, infatti, possono pervenire ad una divisione in via amichevole oppure, in mancanza del raggiungimento di un accordo, dovranno esercitare un'azione giudiziale di divisione.

A tal riguardo occorre precisare che la domanda di divisione presuppone necessariamente l'esistenza di una comunione ereditaria ed è rivolta nei confronti di tutti i coeredi. Infatti, nella divisione, ciascun coerede ha diritto di avere, per quanto possibile, in natura, una parte proporzionale di tutte le specie di beni che formano l'attivo ereditario, trattandosi di una divisione dell'asse.


Maria M. chiede
sabato 17/09/2011 - Veneto

“Buon giorno, vorrei chiedere cosa accade quando un bene in comune è acquisito in eredità? Questo vale a dire un 50% a nome di una persona, il 25% a nome di qualcun'altro ed il 25% ad un minorenne.

Si può sciogliere la comunione? Grazie mille”

Consulenza legale i 11/10/2011

Da come è posto il quesito non si intende chiaramente se si tratta di un intero bene che è venuto a cadere in successione ereditaria tra più persone oppure della quota indivisa di un bene che era già comune prima della morte del de cuius.

Nel primo caso si costituisce una comunione c.d. incidentale (indipendente dalla volontà delle parti) e ciascun coerede a norma dell' art. 713 del c.c. può chiederne la divisione.

Nel secondo, l'erede diviene partecipe della comunione originaria, e, a norma dell'art. 1111 del c.c., ciascun partecipante può sempre domandare lo scioglimento della comunione e la divisione può essere convenzionale se le parti si accordano, o giudiziale, se è richiesto l'intervento del giudice.


Diana L. chiede
sabato 02/04/2011 - Emilia-Romagna
“Desidero sapere se l'art.1111 c.c.si riferisce solo al condominio o può valere anche per la multiproprietà immobiliare,Grazie.Diana Lapia”
Consulenza legale i 03/04/2011

La dottrina maggioritaria, avvallata anche dalla giurisprudenza sostiene che la multiproprietà sia un diritto perpetuo, ancorché ciclico e turnario, per cui la sua natura giuridica sarebbe di comproprietà, a cui si associa un regolamento di tipo turnario. In questo caso bisogna però capire come conciliare l'istituto della multiproprietà con quello inerente la disciplina della comunione.

Dal combinato disposto degli art. 1111 del c.c. e art. 1112 del c.c. si ricava che è sempre possibile chiedere lo scioglimento della comunione, ma che non si possa chiedere lo scioglimento della comunione quando si tratta di cose che, se divise, cesserebbero di servire all'uso comune a cui sono destinate.

In tal senso nei regolamenti d'uso della multiproprietà si fa spesso riferimento all'obbligo dell'acquirente di rispettare la condizione di indivisibilità del bene, con esplicito riferimento all'art. 1112 c.c., nel senso che se quell'immobile fosse diviso da uno dei proprietari - facoltà in astratto prevista in capo ad ogni proprietario di immobile -, ciò precluderebbe agli altri la possibilità di servirsene.


A. T. chiede
lunedì 25/11/2024
“Sono proprietario di un'unità immobiliare adibita a studio dove esercito la mia professione. Originariamente erano costituiti da quattro piccole unità immobiliari, che in fatto, senza formalità, ho unificato, peraltro tramite modesti interventi edilizi. Dette “ex” unità danno su un corridoio che, negli atti d’acquisto, è segnalato quale parte comune del condominio come risulta dalla pianta allegata agli atti stessi. Da molti anni ormai ho stipulato con il condominio un contratto di locazione avente per oggetto dette parti comuni, per cui ho interamente il possesso di tutta la superficie. Una parte di detta “parte comune” serve, fisiologicamente ed esclusivamente, la mia proprietà, cioè le “ex” unità mobiliari. L’altra parte pur potendo avere, in tirata teoria, una modesta utilità per alcuni condomini, in fatto, prova ne sia il suo lunghissimo stato di locazione, di cui dicevo, non servirebbe a nessuno. Ho fatto più volte la proposta di acquisto di dette parti comuni, consenso di tutti i condomini, salvo il “solito…” (titolare di 40 millesimi) che non vuole sentire ragioni.
Ho fatto una ricerca e mi sembra di capire che se dovessi acquistare direttamente da tutti i condomini, tranne che dal soggetto di cui sopra, la rispettiva quota della comunione, potrei diventare comunista assieme al ripetuto soggetto, e richiedere la divisione giudiziaria, mettendo a sua disposizione, quale stupido trofeo, un pezzetto di balcone, accessibile per altra via. Riferimenti: artt. 112 e 119 cc; Cassazione 4014/2020; Cassazione 26041/2029”
Consulenza legale i 30/11/2024
È sicuramente possibile ottenere dagli altri condomini collaborativi la cessione delle loro quote di comproprietà sopra i corridoi comuni: tuttavia, se anche si riuscisse ad ottenere la quasi proprietà totalitaria di tali cespiti non è assolutamente scontato che il giudice riconosca la possibilità di chiederne la divisione ai sensi dell’art.1111 del c.c.
Da quel che pare di capire, nel caso specifico esistono diversi titoli della provenienza che qualificano come condominiale i corridoi, a differenza, ad esempio, della fattispecie oggetto della sentenza Cass.Civ. n.4014/2020 da lei citata, ove tale titolo pareva mancare. Questa circostanza inevitabilmente attrae il suo caso nel perimetro applicativo dell’art.1119 del c.c. rendendo sicuramente più arduo ottenere uno scioglimento della comunione per via giudiziaria. Il fatto poi che lei abbia la disponibilità totale della parte comune in forza di un contratto di locazione certamente non rappresenta un vantaggio, anzi tale contratto non fa altro che confermare la natura condominiale
del cespite comune.

Ciò non vuol dire che una volta ottenuta la proprietà delle quote degli altri comproprietari non si possa tentare un approccio con il condomino riottoso per ottenere la sua collaborazione, eventualmente ricorrendo all’istituto della mediazione ex. D.Lgs n.28/10, oppure anche pensare di intraprendere la via giudiziaria: certamente, in questo secondo caso, è importante tenere ben presente i rischi che si sono sopra indicati.


G. C. chiede
martedì 16/07/2024
“Mia madre è in una casa di riposo che costa 2700 euro mese e prende 1400 euro mese tra pensione e sussidi vari. Non soldi nel conto corrente ed ha una quota di 4/6 dell'appartamento in cui ha vissuto, 1/6 è mio ed 1/6 è di mio fratello. La restante parte della retta la dividiamo tra fratelli. Abbiamo redditi molto diversi. Dal 2016 vive in Svizzera e guadagna oltre 200.000 franchi svizzeri anno, io sono un professionista da 60000 euro lordi anno. Mio fratello dice che nostra madre avendo l'appartamento si può mantenere da sola vendendolo e lui non è obbligato a mantenerla. Io non sono d'accordo perché così ci si brucia l'eredità e non ci rimarrebbe nulla in pochi anni. Consideri che la vendita dell'appartamento frutterebbe a mia madre circa 45 mila euro.
Io invece vorrei che mia madre donasse a noi l'appartamento e noi poi la continuiamo a mantenere a maggior ragione con il ricavato della vendita, fatto salvo un piccolo importo per Lei. La mia posizione è legata al fatto che ho un reddito medio, una figlia all'università ed in cura da anni per anoressia nervosa e cosi prenderei quche soldino che ci fa respirare. Mia madre ha 90 anni non è autosufficiente ma è in discreta salute quindi è possibile viva altri 4/5 anni. Secondo me la donazione preventiva è un discorso lineare. Mio fratello non è d'accordo. Lui dice che ha intenzione di sospendere i bonifici a mia madre e costringerla a vendere l'appartamento.

Il quesito è il seguente: mia madre ha l'obbligo di vendere l'appartamento per mantenersi e noi figli di acconsentire a tale vendita se non diamo soldi per mantenerla?
Voi cosa consigliate in casi come questi?
Grazie mille
Cordiali Saluti”
Consulenza legale i 21/07/2024
La situazione economica in cui si trova la madre induce, innanzitutto, a dover escludere nel caso in esame la ricorrenza del presupposto essenziale per l’insorgere in capo ai figli dell’obbligo di prestare gli alimenti, presupposto che il primo comma dell’art. 438 c.c. individua nello stato di bisogno dell’alimentando e nell’impossibilità dello stesso di provvedere al proprio mantenimento.
A ciò si aggiunga quanto previsto al secondo comma della medesima norma, nella parte in cui è detto che gli alimenti non devono superare quanto necessario per la vita dell’alimentando “avuto però riguardo alla sua posizione sociale”.

Sembra evidente che una persona che gode di un reddito di circa 1400 euro mensili non solo non può qualificarsi come versante in stato di bisogno, ma neppure può pretendere di continuare a vivere in una casa di riposo per la quale è richiesto il pagamento di una retta mensile pari quasi al doppio delle sue entrate correnti, non essendo evidentemente l’alloggio in quella casa di riposo confacente alla sua posizione sociale.

Ciò posto, si tratta a questo punto di trovare una soluzione per consentire alla madre di continuare a fruire dei servizi di quella casa di riposo senza gravare sui figli e sfruttando i beni che compongono il suo patrimonio, tuttora improduttivi di redditi.
A tal fine si propongono le seguenti soluzioni:
  1. rendere produttivo l’immobile di cui madre e figli sono comproprietari, concedendolo in locazione a terzi. In tal modo non soltanto la madre potrebbe utilizzare i 4/6 del canone di locazione per pagare la retta della casa di riposo, ma anche i figli, ed in particolare colui che pone il quesito, avrebbero un’ulteriore entrata mensile sulla quale poter fare affidamento.

  1. stipulare un contratto di donazione modale (ex art. 793 del c.c.), in forza del quale la madre andrebbe a donare ai figli i 4/6 indivisi dell’immobile di cui è comproprietaria ed i figli, di contro, si assumerebbero l’onere di contribuire ad integrare la retta della casa di riposo dove la madre vive per tutta la vita della stessa.
Considerata l’età avanzata della madre non dovrebbe esservi rischio che il valore dell’onere possa superare quello della quota di comproprietà a cui la madre rinuncia con l’atto di donazione.
Inoltre, i figli diventerebbero sin da subito pieni proprietari dell’intero, con possibilità di alienare in qualunque momento l’immobile, traendone un sicuro vantaggio economico (nel quesito si dice che la vendita dell’appartamento frutterebbe alla madre circa 45 mila euro).

  1. suggerire alla madre di vendere ai figli la quota dell’immobile di cui è comproprietaria, verso il pagamento in forma rateale del prezzo, fissando una rata mensile pari alla somma occorrente alla venditrice per riuscire a pagare la retta per la casa di riposo.
La suddetta vendita dovrebbe essere stipulata senza riserva di proprietà in favore della venditrice e con rinuncia da parte della medesima all’ipoteca legale, così da porre anche in questo caso i figli nella condizione di alienare in qualunque momento l’immobile.

Al di là di quelle sopra suggerite non si vedono altre soluzioni che possano riuscire a contemperare gli interessi contrapposti delle parti.
In ogni caso, si tenga presente che nessuno, a meno che non abbia assunto volontariamente il relativo obbligo, può essere costretto a vendere senza la propria volontà, mentre ciascun comunista ha il diritto in qualunque momento di esigere lo scioglimento della comunione, secondo quanto espressamente disposto dall’art. 1111 del c.c..
In questo secondo caso, se trattasi di bene non divisibile e le parti non riescono a raggiungere un accordo, il giudice può imporre alle stesse che si proceda alla vendita secondo le norme dettate dal codice di procedura civile in tema di vendita all’incanto.


A. N. chiede
mercoledì 31/05/2023
“7 coppie di condomini + 1 condomino (dello stesso condominio) a suo tempo abbiamo comprato - pagando ciascuno un quindicesimo dell'importo dell'acquisto - in comunione indivisa un cantinato e lo abbiamo diviso in 15 posti auto. Abbiamo fatto in modo che ogni coppia avesse due stalli vicini (o per due auto o per un auto ed un ripostiglio) ed il singolo uno "stallo" per una sola auto. Poi ce li siamo assegnati provvisoriamente, comunque sottoscrivendo un accordo scritto di futuro (ma senza data fissata) scioglimento della comunione, frazionamento e conferma dello stato quo previa adeguata valutazione (superficie, facilità di manovra, parti murarie già esistenti, ecc.) secondo legge e secondo valori di mercato al momento del frazionamento al fine di una compensazione monetaria delle differenze di valore. DOMANDE: come procedere? a chi rivolgerci per una valutazione obiettiva? che titolo devono avere? per evitare che ci siano "favoritismi" ogni comproprietario può indicare un proprio "tecnico frazionatore" di fiducia?
Brocardi ha possibilità di suggerire nominativi, studi appositi, ecc.? La città è MESSINA ME.”
Consulenza legale i 09/06/2023
Ai sensi dell’art 1111 del c.c. ciascun partecipante alla comunione può chiederne la divisione, salvo che non sia stato convenuto un patto per rimanere in comunione per un determinato periodo di tempo, il quale comunque non può eccedere la durata di dieci anni.
La divisione può avvenire bonariamente davanti al notaio, quando vi è armonia e accordo tra tutti i partecipanti alla comunione: in questo caso sarà la volontà delle parti nell’ambito del contratto di divisione a determinare il contenuto e l’assegnazione dei singoli lotti, come l’eventuale presenza di conguagli in denaro a favore di una o dell’altra parte. E' ben possibile che le parti decidano ai sensi dell’art. 1349 del c.c. di affidare ad un terzo sia la determinazione del contenuto dei singoli lotti, sia la loro assegnazione: questo, per quanto si è capito, è in definitiva ciò che si propone di fare nel caso specifico.

Ovviamente la redazione non può indicare uno specifico professionista, ma certamente si possono dare delle indicazioni di massima, che ci si augura possono essere d’aiuto a chi ci sta leggendo. Innanzitutto non sarà possibile nominare il professionista a colpi di maggioranza nell’ambito di una assemblea della comunione ai sensi dell’art. 1105 del c.c.. La divisione bonaria è prima di tutto un contratto e quindi la scelta del terzo arbitratore ex art 1349 del c.c. dovrà avvenire con il consenso di tutti i partecipanti alla comunione, diversamente la divisione potrebbe considerarsi nulla, vanificando in utili contenziosi il lavoro finora svolto e gli accordi già presi nell’ambito della comunione.
La scelta dovrà giocoforza necessariamente cadere su un tecnico edile, preferibilmente un geometra o un ingegnere, il quale con ogni probabilità dovrà anche svolgere sul cespite in comunione delle pratiche di frazionamento catastale prima del perfezionamento dell’accordo di divisione davanti al notaio. Ovviamente sotto questo ultimo aspetto per ogni migliore approfondimento si deve necessariamente rinviare al professionista scelto dalle parti.

Purtroppo, se tra i partecipanti alla comunione non si riuscirà a trovare un accordo su un nome di un tecnico condiviso, l’unica strada per procedere alla divisione del bene sarà quella di attivare un processo giudiziario di divisione, il quale dovrà necessariamente essere preceduto da un tentativo obbligatorio di mediazione ex D.Lgs. n.28/2010.
Nell’ambito di un processo di divisione, attivabile su semplice richiesta di uno dei comproprietari, il giudice dovrà necessariamente nominare un CTU chiamato a determinare i singoli lotti che poi verranno assegnati molto probabilmente tramite sorteggio ai singoli condomini. Nell’ambito delle attività peritali espletate dal CTU nominato dal giudice ciascun comproprietario potrà farsi assistere (anzi, sarebbe meglio dire, dovrà farsi assistere) da un consulente tecnico di parte che affiancherà i singoli legali di fiducia di ciascuna parte.

E’ ben possibile che la divisione possa anche fuoriuscire dall’esito della mediazione pre-processuale nel caso in cui il procedimento riesca ad appianare le divergenze sorte tra le parti, magari facendo nominare al mediatore stesso un tecnico terzo. In questo caso si tornerebbe ad avere una divisione per mezzo di accordo contrattuale già descritta nella prima parte del parere.

Al fine di evitare inutili lungaggini processuali in una situazione come quella descritta nel quesito, è assolutamente consigliabile che la divisione avvenga di comune accordo tra le parti, o se ciò non è possibile nell’ambito di un procedimento di mediazione.


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