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Articolo 768 bis Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 26/11/2024]

Nozione

Dispositivo dell'art. 768 bis Codice Civile

(1)È patto di famiglia il contratto(2) con cui, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie, l'imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l'azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti.

Note

(1) Gli artt. da 768-bis a 768 octies sono stati inseriti dalla Legge 14 febbraio 2006, n. 55.
(2) Nonostante la collocazione del patto di famiglia all'interno del libro II, l'istituto va qualificato come atto inter vivos traslativo, ad efficacia reale e necessariamente gratuito.

Ratio Legis

Il patto di famiglia consente, in parziale deroga al divieto di patti successori, di garantire una continuità nella gestione dell'azienda o della partecipazione sociale, per evitare che il frazionamento di queste rechi pregiudizio al loro valore e alla loro consistenza.

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

Massime relative all'art. 768 bis Codice Civile

Cass. civ. n. 29506/2020

Il patto di famiglia è assoggettato all'imposta sulle donazioni, sia per quanto concerne il trasferimento dell'azienda o delle partecipazioni societarie, operato dall'imprenditore in favore del discendente beneficiario, sia relativamente alla liquidazione della somma corrispondente alla quota di riserva, calcolata sul valore dei beni trasferiti, effettuata dal beneficiario in favore dei legittimari non assegnatari. Il pagamento dell'imposta va però escluso qualora ricorra l'esenzione prevista dall'art. 3, comma 4-ter, d.lgs. n. 346 del 1990, che si applica solo alle ipotesi di trasferimento d'azienda e delle partecipazioni societarie in favore del discendente beneficiario che si impegni a proseguire l'esercizio dell'attività d'impresa o a detenere il controllo societario per un periodo non inferiore a cinque anni, giammai, quindi, alle liquidazioni operate dal discendente in favore di altri legittimari, sia perché trattasi di previsione di stretta interpretazione, sia in considerazione della "ratio" normativa, volta a favorire la prosecuzione dell'azienda da parte dei discendenti.

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Consulenze legali
relative all'articolo 768 bis Codice Civile

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P. T. chiede
mercoledì 04/12/2024
“Si supponga una SRL proprietaria di 30 unità immobiliari ad uso abitativo (nessun bene strumentale) tutte locate a famiglie (no studenti, no B & B, no affittacamere) con contratti di locazione 4 + 4. Si sta pensando ad un patto di famiglia a favore dei figli . La stessa società saltuariamente e per importi nettamente inferiori ai proventi dalle locazioni esegue lavori di manutenzione, anche straordinaria, ovvero acquista altri immobili per destinarli essi stessi a locazione; generalmente non vende gli immobili già in proprietà piuttosto li ristruttura . L'attività svolta nel suo complesso dalla SRL può definirsi di mero godimento oppure la saltuaria attività di manutenzione, anche straordinaria, in valore assai inferiore ai proventi da locazione, è sufficiente per vincere la presunzione di attività di mero godimento con la conseguente possibilità di stipulare coerentemente un patto di famiglia ?”
Consulenza legale i 11/12/2024
Il tipo di società a cui si fa riferimento nel quesito si ritiene che debba qualificarsi come “società immobiliare”, il cui oggetto sociale sembra essere quello della gestione e locazione di immobili.
In genere, in società di questo tipo gli immobili possono assumere tre diverse qualificazioni, ovvero quella di “merce”, di “bene strumentale” o di “patrimonio”.
Nel caso in esame, esclusa la loro qualificazione come “beni strumentali” (come viene espressamente precisato nel quesito), si ritiene che la soluzione più corretta sia quella di configurarli come “patrimonio”, tenuto conto che si può parlare di “immobili merce” nel caso di immobili che vengono acquistati al solo fine di una loro rivendita (attività che qui sembra esclusa).
Ovviamente, si dà per presupposto che nell’oggetto sociale della s.r.l. sia inserita anche la gestione di immobili, in quanto solo tale previsione statutaria consente alla società di svolgere attività di locazione di immobili e compravendita di ulteriori immobili con gli utili della società.

Fatta questa necessaria e breve premessa, dalla quale si deduce che non si può trattare, come temuto, di società di mero godimento, bensì di società commerciale a tutti gli effetti, ci si può adesso occupare della possibilità o meno di fare ricorso all’istituto giuridico del patto di famiglia.
La risposta è positiva, in tal senso dovendosi argomentare dalla stessa nozione di “patto di famiglia”, quale viene offerta dall’art. 768 bis c.c., norma che definisce come tale quel contratto con cui il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote ad uno o più discendenti.
In forza della conclusione di tale contratto, dunque, il titolare delle quote della s.r.l. trasferirà in favore dei suoi figli dette quote, con la precisazione che, se al momento della stipula dovessero esservi nella famiglia del cedente persone fisiche che, qualora in quel momento si aprisse la successione dell’imprenditore, sarebbero suoi legittimari (ad esempio il coniuge), costoro dovranno partecipare al contratto, come dispone il comma 1 dell’art. 768 quater del c.c.).

In tal caso gli assegnatari devono liquidare i legittimari non assegnatari (salva la facoltà per questi ultimi di rinunciarvi in tutto o in parte), con il pagamento di una somma di denaro, mentre tutte le assegnazioni oggetto del patto di famiglia, nel momento in cui si aprirà la successione del disponente, non potranno più essere sottoposte, in via assoluta, né ad azione di riduzione né all’obbligazione di collazione da parte di nessuno, neppure da eventuali nuovi legittimari nel frattempo sopravvenuti.

Ci si è posti il dubbio se debbano sussistere particolari presupposti qualitativi o quantitativi affinchè il titolare di una partecipazione societaria possa fare ricorso allo strumento del patto di famiglia per disporre della stessa a favore dei propri discendenti.
In altri termini, ci si è interrogati se il patto di famiglia possa avere ad oggetto il trasferimento di qualunque partecipazione societaria, anche minima e senza distinzioni sotto il profilo qualitativo, ovvero se sussistano delle limitazioni quantitative o qualitative a tale trasferimento.
Ebbene, secondo la tesi più restrittiva, il patto di famiglia potrebbe essere utilizzato solo per il trasferimento di quelle partecipazioni societarie che consentano, anche solo potenzialmente, alla parte cessionaria (ovvero i discendenti) di conseguire il potere di governare la società, ovvero di continuare ad esercitare il potere gestionale già esercitato dal cedente o, quantomeno, di influire sulle scelte della società (secondo tale tesi, pertanto, non potrebbero costituire oggetto del patto di famiglia, ad esempio, le quote o le azioni di socio accomandante nelle società in accomandita semplice o per azioni).

Secondo una diversa e preferibile tesi, invece, lo stesso tenore letterale della disposizione (che si riferisce alle partecipazioni societarie senza altra specificazione) legittimerebbe una interpretazione estensiva della norma, con la conseguenza che potrebbero costituire oggetto del patto di famiglia tutte le partecipazioni societarie, di ogni tipo ed entità, senza alcun limite qualitativo o quantitativo e senza che venga in rilievo il tipo o la natura delle società le cui partecipazioni vengono cedute, con la sola esclusione (come si accenna nel quesito) delle partecipazioni sociali nelle quali non esista un’effettiva attività di impresa, come accade nel caso delle società di mero godimento.
Peraltro, sempre i sostenitori di questa seconda tesi osservano che lo strumento del patto di famiglia possa essere utilizzato anche nell’ipotesi in cui il legittimario o i legittimari assegnatari non vogliano o non possano assumere la qualità di imprenditore in senso lato, rispondendo pur sempre alla finalità di proteggere il passaggio intergenerazionale della proprietà della partecipazione societaria oggetto del contratto, sottraendo tale trasferimento all’applicazione delle norme di diritto ereditario comune (azione di riduzione e obbligo di collazione).

In conclusione, può dirsi che se nell’oggetto sociale della società in questione è inserita la clausola che prevede la gestione e locazione degli immobili e se tali immobili sono da qualificare come “bene patrimonio”, deve escludersi che tale società possa qualificarsi come di mero godimento, con conseguente ammissibilità che le relative partecipazioni sociali (a prescindere da ogni valutazione qualitativa e quantitativa) possano formare oggetto di un patto di famiglia.


L. V. C. chiede
mercoledì 18/07/2018 - Lombardia
“Siamo quattro fratelli, a due di noi nostro padre ha intestato più di 20 anni fa ( non é chiaro se tramite una vendita o una donazione ) le quote di un'azienda.
I soci dell'azienda pertanto in quel periodo erano : due dei miei fratelli (40%), mio padre (40%), mia madre (15%) e mio zio ( 5% ).
Con il passare degli anni mia madre ha venduto le quote agli altri soci, anche mio zio si é fatto liquidare e per ultimo mio padre ha venduto le sue quote ad una terza persona ( società Cinese ).
Premetto che mio padre ancora oggi é in vita.
Pertanto, attualmente i soci dell'azienda sono : due dei miei fratelli ed un socio Cinese ( ripartizione delle quote al 33% ).
Il valore dell'azienda nel corso degli anni é cresciuto notevolmente.
Mio padre sostiene che i due fratelli esclusi dalla società ( cioé io e mio fratello maggiore ) non hanno nulla a pretendere sulle quote o sul paritetitico valore di esse perché non hanno lavorato in azienda ma al contrario hanno intrapreso strade differenti.
Vorrei sapere se dal punto di vista dell'eredità, in quanto anche noi figli, possiamo avanzare pretese sulle quote o sul loro valore.
Se eventualmente lo stesso é attualizzato al valore corrente oppure al valore in cui sono entrati in società gli altri due fratelli.
I tempi e le modalità per avanzare richiesta di quanto eventualmente debba essere corrisposto.”
Consulenza legale i 26/07/2018
Per rispondere alla domanda posta si ritiene necessario chiarire il concetto di delazione ereditaria e di ciò che ad essa ne consegue.
Questa consiste nell’offerta dell’eredità intesa come insieme dei rapporti giuridici facenti capo al defunto e coincide sotto il profilo temporale con l’apertura della successione.
Prima di tale momento il potenziale successore, anche se sarà erede legittimo, non può avere alcun diritto sul patrimonio del de cuius e conseguentemente non può sindacare il modo in cui questi gestisce il proprio patrimonio, purchè non siano ravvisabili condizioni psico-fisiche tali da legittimare una sentenza di interdizione o di inabilitazione.

Nemmeno l’erede che riveste la posizione di legittimario potrà prima della morte esperire azioni revocatorie o surrogatorie o pensare di avvalersi di provvedimenti cautelari (come ad esempio un sequestro) ovvero agire in simulazione, in quanto non riveste la posizione di creditore e neppure può considerarsi titolare di una aspettativa legittima; egli è soltanto titolare di una aspettativa di fatto, per la quale non sussiste alcuna forma di tutela giudiziale.
Sarà soltanto con la delazione e, dunque, con la morte del de cuius, che si potrà essere in grado di individuare i chiamati all’eredità, i quali a quel punto potranno far valere i propri diritti sia prima che dopo aver accettato l’eredità ed acquistato la qualità di eredi.

Da quanto sopra detto, dunque, ne discende che deve ritenersi corretto il pensiero espresso dal padre, in quanto effettivamente prima della propria morte ciascuno può disporre come meglio vuole e crede dei beni e diritti che gli appartengono.
Ora, poiché il padre ha già ceduto durante la sua vita tutte le quote della società, è chiaro che nessuna partecipazione sociale si ritroverà nel suo patrimonio ereditario al momento della morte (ossia nel momento in cui si produrranno delazione e vocazione ereditaria).

A quel punto unico rimedio astrattamente esperibile potrebbe essere quello di agire in giudizio per ottenere la reintegrazione della propria quota di riserva, ma ciò solo qualora si disponga di sufficienti elementi atti a dimostrare che la cessione delle quote che il padre ha fatto in favore dei soli due figli sia avvenuta a seguito di un atto di donazione o di altra liberalità risultante da atto diverso dalla donazione (previsto dall’art. 809 del c.c.).
Qualora sussistano le suddette condizioni, i due figli, che nulla di quella società hanno ricevuto, potrebbero chiedere la riduzione delle donazioni di quelle quote partecipative perché lesive della loro porzione di legittima.

Poiché non esistono norme precise in tema di prescrizione dell’azione di riduzione avverso le liberalità lesive della porzione di legittima, si ritiene corretto applicare il termine ordinario decennale previsto dall’art. 2946 del c.c.; per quanto concerne il dies a quo di decorrenza di detto termine, prevale la tesi secondo cui, considerato che la lesione si produce soltanto nel momento in cui si verifica l’acquisto ereditario in conseguenza di un atto di accettazione espressa ovvero tacita, è soltanto a far tempo dalla data dell’accettazione dell’eredità che decorrerà il termine prescrizionale decennale volto a promuovere l’azione di riduzione.

Con riferimento poi al valore della partecipazione da prendere in considerazione, la risposta al dubbio sollevato si ritiene che possa ritrovarsi nel testo dell’ art. 556 del c.c.; tale norma, nella sua seconda parte dispone che, al fine di effettuare l’operazione di riunione fittizia dei beni di cui sia stato disposto a titolo di donazione, occorre riferirsi al valore determinato in base alle regole dettate negli artt. da 747 a 750 c.c., norme che impongono di tener conto del valore che i beni hanno al momento dell’apertura della successione.

Inoltre, per determinare correttamente tale valore, si ritiene che ci si debba a sua volta riferire a quanto disposto dal D.lgs. 346/1990 (c.d. TUS); l’art. 16 di tale decreto, infatti, proprio con riferimento all’ipotesi di trasferimento per successione di partecipazioni, dispone che la base imponibile per il calcolo dell’imposta di successione si determina assumendo “il valore proporzionalmente corrispondente al valore, alla data di apertura della successione, del patrimonio netto dell’ente o della società risultante dall’ultimo bilancio pubblicato o dall’ultimo inventario regolarmente redatto e vidimato, tenendo conto dei mutamenti sopravvenuti”.

Queste appena illustrate si ritiene che potrebbero essere le uniche modalità per tentare di recuperare ciò che i due fratelli, che hanno collaborato con il padre nell’azienda, hanno potuto ricevere in più dallo stesso; non può nascondersi, tuttavia, che si tratta di una strada non facile da percorrere, in quanto, risalendo il trasferimento delle quote sociali ad un periodo di tempo superiore a venti anni, è a quell’epoca che dovrà farsi riferimento per tentare in qualche modo di dimostrare che tale trasferimento ha integrato una donazione o, comunque, un atto di liberalità, soggetto ex art. 809 c.c. all’azione di riduzione.

Diverso sarebbe stato, invece, se tale operazione avesse potuto inquadrarsi nell’ambito del c.d. patto di famiglia, disciplinato dall' art. 768 bis del c.c. e seguenti e introdotti dalla Legge 14 febbraio 2006 n. 55 (quindi in epoca abbondantemente successiva alla cessione in favore dei due fratelli), in quanto in quel caso, la mancata partecipazione al relativo contratto di tutti coloro che rivestono la qualità di legittimari (il coniuge e gli altri due fratelli) avrebbe consentito ai fratelli estromessi il diritto di pretendere, all’apertura della successione del padre, il pagamento di una somma pari al valore della loro quota di riserva (così art. 768 sexies del c.c. e art. 768 quater del c.c.).