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Articolo 768 bis Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 27/03/2024]

Nozione

Dispositivo dell'art. 768 bis Codice Civile

(1)È patto di famiglia il contratto(2) con cui, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie, l'imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l'azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti.

Note

(1) Gli artt. da 768-bis a 768 octies sono stati inseriti dalla Legge 14 febbraio 2006, n. 55.
(2) Nonostante la collocazione del patto di famiglia all'interno del libro II, l'istituto va qualificato come atto inter vivos traslativo, ad efficacia reale e necessariamente gratuito.

Ratio Legis

Il patto di famiglia consente, in parziale deroga al divieto di patti successori, di garantire una continuità nella gestione dell'azienda o della partecipazione sociale, per evitare che il frazionamento di queste rechi pregiudizio al loro valore e alla loro consistenza.

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

Massime relative all'art. 768 bis Codice Civile

Cass. civ. n. 29506/2020

Il patto di famiglia è assoggettato all'imposta sulle donazioni, sia per quanto concerne il trasferimento dell'azienda o delle partecipazioni societarie, operato dall'imprenditore in favore del discendente beneficiario, sia relativamente alla liquidazione della somma corrispondente alla quota di riserva, calcolata sul valore dei beni trasferiti, effettuata dal beneficiario in favore dei legittimari non assegnatari. Il pagamento dell'imposta va però escluso qualora ricorra l'esenzione prevista dall'art. 3, comma 4-ter, d.lgs. n. 346 del 1990, che si applica solo alle ipotesi di trasferimento d'azienda e delle partecipazioni societarie in favore del discendente beneficiario che si impegni a proseguire l'esercizio dell'attività d'impresa o a detenere il controllo societario per un periodo non inferiore a cinque anni, giammai, quindi, alle liquidazioni operate dal discendente in favore di altri legittimari, sia perché trattasi di previsione di stretta interpretazione, sia in considerazione della "ratio" normativa, volta a favorire la prosecuzione dell'azienda da parte dei discendenti.

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Consulenze legali
relative all'articolo 768 bis Codice Civile

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L. V. C. chiede
mercoledì 18/07/2018 - Lombardia
“Siamo quattro fratelli, a due di noi nostro padre ha intestato più di 20 anni fa ( non é chiaro se tramite una vendita o una donazione ) le quote di un'azienda.
I soci dell'azienda pertanto in quel periodo erano : due dei miei fratelli (40%), mio padre (40%), mia madre (15%) e mio zio ( 5% ).
Con il passare degli anni mia madre ha venduto le quote agli altri soci, anche mio zio si é fatto liquidare e per ultimo mio padre ha venduto le sue quote ad una terza persona ( società Cinese ).
Premetto che mio padre ancora oggi é in vita.
Pertanto, attualmente i soci dell'azienda sono : due dei miei fratelli ed un socio Cinese ( ripartizione delle quote al 33% ).
Il valore dell'azienda nel corso degli anni é cresciuto notevolmente.
Mio padre sostiene che i due fratelli esclusi dalla società ( cioé io e mio fratello maggiore ) non hanno nulla a pretendere sulle quote o sul paritetitico valore di esse perché non hanno lavorato in azienda ma al contrario hanno intrapreso strade differenti.
Vorrei sapere se dal punto di vista dell'eredità, in quanto anche noi figli, possiamo avanzare pretese sulle quote o sul loro valore.
Se eventualmente lo stesso é attualizzato al valore corrente oppure al valore in cui sono entrati in società gli altri due fratelli.
I tempi e le modalità per avanzare richiesta di quanto eventualmente debba essere corrisposto.”
Consulenza legale i 26/07/2018
Per rispondere alla domanda posta si ritiene necessario chiarire il concetto di delazione ereditaria e di ciò che ad essa ne consegue.
Questa consiste nell’offerta dell’eredità intesa come insieme dei rapporti giuridici facenti capo al defunto e coincide sotto il profilo temporale con l’apertura della successione.
Prima di tale momento il potenziale successore, anche se sarà erede legittimo, non può avere alcun diritto sul patrimonio del de cuius e conseguentemente non può sindacare il modo in cui questi gestisce il proprio patrimonio, purchè non siano ravvisabili condizioni psico-fisiche tali da legittimare una sentenza di interdizione o di inabilitazione.

Nemmeno l’erede che riveste la posizione di legittimario potrà prima della morte esperire azioni revocatorie o surrogatorie o pensare di avvalersi di provvedimenti cautelari (come ad esempio un sequestro) ovvero agire in simulazione, in quanto non riveste la posizione di creditore e neppure può considerarsi titolare di una aspettativa legittima; egli è soltanto titolare di una aspettativa di fatto, per la quale non sussiste alcuna forma di tutela giudiziale.
Sarà soltanto con la delazione e, dunque, con la morte del de cuius, che si potrà essere in grado di individuare i chiamati all’eredità, i quali a quel punto potranno far valere i propri diritti sia prima che dopo aver accettato l’eredità ed acquistato la qualità di eredi.

Da quanto sopra detto, dunque, ne discende che deve ritenersi corretto il pensiero espresso dal padre, in quanto effettivamente prima della propria morte ciascuno può disporre come meglio vuole e crede dei beni e diritti che gli appartengono.
Ora, poiché il padre ha già ceduto durante la sua vita tutte le quote della società, è chiaro che nessuna partecipazione sociale si ritroverà nel suo patrimonio ereditario al momento della morte (ossia nel momento in cui si produrranno delazione e vocazione ereditaria).

A quel punto unico rimedio astrattamente esperibile potrebbe essere quello di agire in giudizio per ottenere la reintegrazione della propria quota di riserva, ma ciò solo qualora si disponga di sufficienti elementi atti a dimostrare che la cessione delle quote che il padre ha fatto in favore dei soli due figli sia avvenuta a seguito di un atto di donazione o di altra liberalità risultante da atto diverso dalla donazione (previsto dall’art. 809 del c.c.).
Qualora sussistano le suddette condizioni, i due figli, che nulla di quella società hanno ricevuto, potrebbero chiedere la riduzione delle donazioni di quelle quote partecipative perché lesive della loro porzione di legittima.

Poiché non esistono norme precise in tema di prescrizione dell’azione di riduzione avverso le liberalità lesive della porzione di legittima, si ritiene corretto applicare il termine ordinario decennale previsto dall’art. 2946 del c.c.; per quanto concerne il dies a quo di decorrenza di detto termine, prevale la tesi secondo cui, considerato che la lesione si produce soltanto nel momento in cui si verifica l’acquisto ereditario in conseguenza di un atto di accettazione espressa ovvero tacita, è soltanto a far tempo dalla data dell’accettazione dell’eredità che decorrerà il termine prescrizionale decennale volto a promuovere l’azione di riduzione.

Con riferimento poi al valore della partecipazione da prendere in considerazione, la risposta al dubbio sollevato si ritiene che possa ritrovarsi nel testo dell’ art. 556 del c.c.; tale norma, nella sua seconda parte dispone che, al fine di effettuare l’operazione di riunione fittizia dei beni di cui sia stato disposto a titolo di donazione, occorre riferirsi al valore determinato in base alle regole dettate negli artt. da 747 a 750 c.c., norme che impongono di tener conto del valore che i beni hanno al momento dell’apertura della successione.

Inoltre, per determinare correttamente tale valore, si ritiene che ci si debba a sua volta riferire a quanto disposto dal D.lgs. 346/1990 (c.d. TUS); l’art. 16 di tale decreto, infatti, proprio con riferimento all’ipotesi di trasferimento per successione di partecipazioni, dispone che la base imponibile per il calcolo dell’imposta di successione si determina assumendo “il valore proporzionalmente corrispondente al valore, alla data di apertura della successione, del patrimonio netto dell’ente o della società risultante dall’ultimo bilancio pubblicato o dall’ultimo inventario regolarmente redatto e vidimato, tenendo conto dei mutamenti sopravvenuti”.

Queste appena illustrate si ritiene che potrebbero essere le uniche modalità per tentare di recuperare ciò che i due fratelli, che hanno collaborato con il padre nell’azienda, hanno potuto ricevere in più dallo stesso; non può nascondersi, tuttavia, che si tratta di una strada non facile da percorrere, in quanto, risalendo il trasferimento delle quote sociali ad un periodo di tempo superiore a venti anni, è a quell’epoca che dovrà farsi riferimento per tentare in qualche modo di dimostrare che tale trasferimento ha integrato una donazione o, comunque, un atto di liberalità, soggetto ex art. 809 c.c. all’azione di riduzione.

Diverso sarebbe stato, invece, se tale operazione avesse potuto inquadrarsi nell’ambito del c.d. patto di famiglia, disciplinato dall' art. 768 bis del c.c. e seguenti e introdotti dalla Legge 14 febbraio 2006 n. 55 (quindi in epoca abbondantemente successiva alla cessione in favore dei due fratelli), in quanto in quel caso, la mancata partecipazione al relativo contratto di tutti coloro che rivestono la qualità di legittimari (il coniuge e gli altri due fratelli) avrebbe consentito ai fratelli estromessi il diritto di pretendere, all’apertura della successione del padre, il pagamento di una somma pari al valore della loro quota di riserva (così art. 768 sexies del c.c. e art. 768 quater del c.c.).