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Articolo 1104 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 26/11/2024]

Obblighi dei partecipanti

Dispositivo dell'art. 1104 Codice Civile

Ciascun partecipante deve contribuire nelle spese necessarie per la conservazione e per il godimento della cosa comune(1) e nelle spese deliberate dalla maggioranza a norma delle disposizioni seguenti, salva la facoltà di liberarsene con la rinunzia al suo diritto(2).

La rinunzia non giova al partecipante che abbia anche tacitamente(3) approvato la spesa.

Il cessionario del partecipante è tenuto in solido con il cedente a pagare i contributi da questo dovuti e non versati(4).

Note

(1) Le spese necessarie alla conservazione sono quelle che mirano a che la cosa non sia distrutta o deteriorata; le spese per il godimento, invece, sono rivolte all'ordinaria utilizzazione del bene.
La norma esclude le spese utili o voluttuarie: la partecipazione diviene necessaria solo nel caso in cui si sia pronunciata la maggioranza o l'unanimità dei compartecipi.
(2) La rinuncia con effetto liberatorio è istituto al quale si riferisce anche l'art. 883.
Essa deve essere espressa in modo non ambiguo e, se effettuata, non è più passibile di revoca.
La rinunzia non può essere evinta dall'omesso versamento delle spese, e, in tale ipotesi, il contegno del comunista diviene un inadempimento dell'obbligo di contribuzione (artt. 1218 ss. c.c.).
(3) Si intende, senza esprimere il proprio dissenso in modo manifesto.
(4) Il successore a titolo particolare del comunista diventa a sua volta compartecipe e a tale titolo risponde delle spese. Al contrario, non è tenuto all'esecuzione di opere perché non è consentito all'autonomia dei privati creare obbligazioni di facere vincolanti per i terzi acquirenti.

Ratio Legis

La disposizione esprime il concetto generale per il quale tutti i comunisti sono tenuti a contribuire alle spese indispensabili per il bene comune.
Si tratta di un'obbligazione propter rem in quanto il dovere contributivo segue di pari passo le vicende del bene comune.

Spiegazione dell'art. 1104 Codice Civile

Dell'obbligo di contribuire alle spese per la cosa comune e della liberazione da essa colla rinuncia al diritto

Mentre l'art. 676 del vecchio codice stabiliva che « ciascun partecipante ha il diritto di obbligare gli altri a contribuire con esso alle spese necessarie per la conservazione della cosa comune », i1 nuovo codice ha anzitutto sostituito alla formula « diritto di obbligare » quella di « ciascun partecipante deve contribuire alle spese ».

La modifica è da approvare dal punto di vista costruttivo. L'obbligo di concorrere alle spese necessarie non è una conseguenza dell'esercizio di un diritto potestativo del compartecipante, ma è una conseguenza diretta ed immediata del rapporto di comunione.

Tale obbligo di contribuzione, secondo il vecchio art. 676, era posto espressamente per le spese necessarie alla conservazione della cosa comune, dovute a caso fortuito o alla naturale vetustà.

Il nuovo codice ha ricompreso anche quelle per il godimento della cosa comune e quelle deliberate dalla maggioranza a norma delle disposizioni seguenti. Ma l'aggiunzione è soltanto formale, poiché anche per il vecchio codice non era da dubitare che il comunista fosse tenuto a concorrere alle spese necessarie per il godimento della cosa comune o a quelle deliberate validamente dalla maggioranza. Appunto perchè necessarie a rendere possibile il godimento, le spese relative non esigono neppure una deliberazione di maggioranza.

Dalle spese di conservazione vanno, però, tenute distinte le spese di ricostruzione della cosa comune distrutta, spese dirette non a una conservazione, ma a una nuova formazione del bene comune, che non possono essere deliberate se non concorre almeno la maggioranza di cui all' art. 1108 del c.c.. Il mancato versamento importa l'obbligo del risarcimento dei danni.

Dell'onere di tali spese il partecipante non può liberarsi se non rinunciando al suo diritto, formula apparentemente più scialba, è cosi voluta, in confronto a quella del codice vecchio « abbandono dei propri diritti di comproprietà », ma sostanzialmente identica. La rinunzia abdicativa al diritto, è, infatti, uguale all' abbandono del diritto.

Secondo il primo capoverso, la rinuncia non giova al partecipante che abbia anche tacitamente approvato la spesa. Si è in tal modo positivamente risoluta la questione se per l' inefficacia della rinuncia ai fini del concorso nelle spese occorresse una incondizionata obbligazione al concorso oppure fosse sufficiente un semplice consenso alla erogazione. È prevalsa tale ultima tesi e a buon diritto, perché l'approvazione, anche tacita, della spesa rappresenta la conferma di un onere, dal quale, una volta riportato alla volontà del soggetto obbligantesi, non è lecito che questi si esima. Nell'interesse del bene comune il legislatore ha voluto che ogni partecipante potesse contare sul contributo degli altri, quando questi hanno comunque cooperato all' approvazione della spesa.

Allo stesso scopo di assicurare il versamento dei contributi, infine, coll'ultimo capoverso, il legislatore ha anche previsto l'ipotesi che il partecipante, personalmente tenuto a contribuire alle spese, nonostante la possibile rinuncia, s'induca a cedere i suoi diritti. La cessione non fa risorgere nel cessionario la facoltà di liberazione coll'esercizio del diritto di rinuncia, ma egli è tenuto in solido col cedente a pagare i contributi da questo dovuti e non versati.

Con tale disposizione trapassa nel cessionario non soltanto l'obbligo generico propter rem di contribuire alle spese che si rendessero necessarie dopo la cessione, ma anche quello di contribuire per le spese resesi necessarie prima, sia che le spese stesse siano state già erogate, e si tratti di rimborso, sia che le spese debbano ancora effettuarsi.

La situazione del cessionario, è sempre, però, identica a quella del cedente, e quindi, se quest'ultimo aveva la facoltà di liberarsi delle spese colla rinunzia al diritto, uguale facoltà compete al cessionario.

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

519 Stabilito l'obbligo di ciascun partecipante di contribuire nelle spese necessarie per la conservazione e per il godimento della cosa comune e in quelle deliberate dalla maggioranza nei limiti dei suoi poteri (art. 1104 del c.c., primo comma), si circoscrive la facoltà del partecipante di liberarsi da tale obbligo con la rinuncia al suo diritto, disponendo che la rinuncia non giova a colui che abbia approvato la spesa, sia pure tacitamente (stesso articolo, secondo comma). Al concetto di tutela degli altri partecipanti s'ispira anche la disposizione che sancisce la responsabilità solidale del cedente e del cessionario per il pagamento dei contributi nelle spese, dal primo dovuti e non pagati (stesso articolo, terzo comma).

Massime relative all'art. 1104 Codice Civile

Cass. civ. n. 28611/2022

Il consorzio costituito tra proprietari di immobili per la manutenzione di strade ed opere comuni realizzate a seguito dell'attuazione di un piano di lottizzazione costituisce una figura atipica e, quindi, il rapporto consortile è disciplinato anzitutto dalle pattuizioni contenute nell'atto costitutivo e nello statuto del consorzio; soltanto qualora in tali atti manchi una disciplina specifica sono applicabili le disposizioni più confacenti alla regolamentazione degli interessi coinvolti dalla controversia che, nel caso in cui il consorzio abbia ad oggetto la gestione dei beni e dei servizi comuni di una zona residenziale, devono individuarsi nelle norme concernenti il condominio, con la conseguenza che, trovando applicazione l'art.1118, comma 2, c.c. e non l'art. 1104 c.c., il consorziato non può, attraverso il c.d. abbandono liberatorio, rinunziare al diritto sui beni in comune, sottraendosi al contributo delle spese necessarie alla loro conservazione.

Cass. civ. n. 19756/2022

In tema di condominio negli edifici, non può essere obbligato in via diretta verso il terzo creditore, nè per il tramite del vincolo solidale di cui all'art. 63 disp. att. c.c., né attraverso la previsione dettata in tema di comunione ordinaria di cui all'art. 1104 c.c., chi non fosse condomino al momento in cui sia insorto l'obbligo di partecipazione alle relative spese condominiali, ossia alla data di approvazione della delibera assembleare inerente a tali spese.

Cass. civ. n. 27634/2018

In tema di consorzio di urbanizzazione, atteso il nesso funzionale tra i beni di proprietà comune e quelli di proprietà esclusiva, il recesso del consorziato diretto alla liberazione dall'obbligo contributivo, in assenza di specifica previsione statutaria, non è disciplinato dall'art. 1104 c.c., che consente l'"abbandono liberatorio" nella comunione, bensì dall'art. 1118 c.c., che lo vieta nel condominio.

Cass. civ. n. 24670/2006

In tema di ripartizione delle spese condominiali, la mancanza di tabelle millesimali applicabili in relazione alla spesa effettuata consente all'assemblea di adottare, a titolo di acconto e salvo conguaglio, tabelle provvisorie, per le quali è sufficiente che la delibera sia assunta a maggioranza, essendo l'unanimità necessaria soltanto per l'approvazione delle tabelle definitive. (Rigetta, App. Firenze, 12 Marzo 2002).

Cass. civ. n. 15079/2006

Il condomino può legittimamente rinunziare all'uso del riscaldamento centralizzato e distaccare le diramazioni della sua unità immobiliare dell'impianto comune, senza necessità di autorizzazione o approvazione da parte degli altri condomini, se prova che, dalla sua rinunzia e dal distacco, non derivano nè un aggravio di spese per coloro che continuano a fruire del riscaldamento centralizzato, nè uno squilibrio termico dell'intero edificio, pregiudizievole per la regolare erogazione del servizio. Soddisfatta tale condizione, egli è obbligato a pagare soltanto le spese di conservazione dell'impianto di riscaldamento centrale, mentre è esonerato dall'obbligo del pagamento delle spese per il suo uso. (Rigetta, App. Roma, 28 Novembre 2001).

Cass. civ. n. 7518/2006

Il condomino può legittimamente rinunziare all'uso del riscaldamento centralizzato e distaccare le diramazioni della sua unità immobiliare dall'impianto termico comune, senza necessità di autorizzazione od approvazione degli altri condomini, e, fermo il suo obbligo di pagamento delle spese per la conservazione dell'impianto, è tenuto a partecipare a quelle di gestione, se e nei limiti in cui il suo distacco non si risolve in una diminuzione degli oneri del servizio di cui continuano a godere gli altri condomini. La delibera assembleare che, pur in presenza di tali condizioni, respinga la richiesta di autorizzazione al distacco è nulla per violazione del diritto individuale del condomino sulla cosa comune. (Rigetta, Giud. Pace Roma, 20 Maggio 2002).

Cass. civ. n. 5112/2006

Nel caso in cui più soggetti, proprietari in via esclusiva di aree tra loro confinanti, si accordino per realizzare una costruzione, per il principio dell'accessione, ciascuno di essi, salvo convenzione contraria, acquista la proprietà esclusiva della parte di edificio che insiste in proiezione verticale sul proprio fondo, con la conseguenza che anche le opere e strutture inscindibilmente poste a servizio dell'intero fabbricato (quali scale, androne, impianto di riscaldamento, ecc.) rientrano per accessione, in tutto o in parte, a seconda della loro collocazione, nella proprietà esclusiva dell'uno o dell'altro, salvo l'istaurarsi sulle medesime, in quanto funzionalmente inscindibili, di una comunione incidentale di uso e di godimento, comportante l'obbligo dei singoli proprietari di contribuire alle relative spese di manutenzione e di esercizio in proporzione dei rispettivi diritti dominicali.

Cass. civ. n. 2046/2006

La disciplina dettata dal codice civile per il condominio di edifici trova applicazione anche in caso di condominio minimo, cioè di condominio composto da due soli partecipanti, tanto con riguardo alle disposizioni che regolamentano la sua organizzazione interna, non rappresentando un ostacolo l'impossibilità di applicare, in tema di funzionamento dell'assemblea, il principio maggioritario, atteso che nessuna norma vieta che le decisioni vengano assunte con un criterio diverso, nella specie all'unanimità, quanto, a fortiori, con riferimento alle norme che regolamentano le situazioni soggettive dei partecipanti, tra cui quella che disciplina il diritto al rimborso delle spese fatte per la conservazione delle cose comuni.

La diversa disciplina dettata dagli artt. 1110 e 1134 c.c. in materia di rimborso delle spese sostenute dal partecipante per la conservazione della cosa comune, rispettivamente, nella comunione e nel condominio di edifici, che condiziona il relativo diritto, in un caso, a mera trascuranza degli altri partecipanti e, nell'altro caso, al diverso e più stringente presupposto dell'urgenza, trova fondamento nella considerazione che, nella comunione, i beni comuni costituiscono l'utilità finale del diritto dei partecipanti, i quali, se non vogliono chiedere lo scioglimento, possono decidere di provvedere personalmente alla loro conservazione, mentre nel condominio i beni predetti rappresentano utilità strumentali al godimento dei beni individuali, sicché la legge regolamenta con maggior rigore la possibilità che il singolo possa interferire nella loro amministrazione. Ne discende che, instaurandosi il condominio sul fondamento della relazione di accessorietà tra i beni comuni e le proprietà individuali, poiché tale situazione si riscontra anche nel caso di condominio minimo, cioè di condominio composto da due soli partecipanti, la spesa autonomamente sostenuta da uno di essi è rimborsabile solo nel caso in cui abbia i requisiti dell'urgenza, ai sensi dell'art. 1134 c.c.

Cass. civ. n. 16975/2005

La responsabilità solidale dell'acquirente per il pagamento dei contributi dovuti al condominio dal venditore è limitata al biennio precedente all'acquisto, trovando applicazione l'art. 63, secondo comma, disp. att. cod. civ., e non già l'art. 1104 cod. civ., atteso che, giusta il disposto di cui all'art. 1139 cod. civ., la disciplina dettata in tema di comunione si applica (anche) al condominio solamente in mancanza di norme che (come appunto il citato art. 63) specificamente lo regolano.

Cass. civ. n. 8924/2001

Poiché tra le spese indicate dall'art. 1104 c.c., soltanto quelle per la conservazione della cosa comune costituiscono obligationes propter rem — e per questo il condomino non può sottrarsi all'obbligo del loro pagamento, ai sensi dell'art. 1118, comma secondo, c.c., che invece, significativamente, nulla dispone per le spese relative al godimento delle cose comuni — è legittima la rinuncia di un condomino all'uso dell'impianto centralizzato di riscaldamento (purché questo non ne sia pregiudicato), con il conseguente esonero, in applicazione del principio contenuto nell'art. 1123, comma secondo, c.c., dall'obbligo di sostenere le spese per l'uso del servizio centralizzato; è invece obbligato a sostenere le spese dell'eventuale aggravio derivato alle spese di gestione di tale servizio, compensato dal maggiore calore di cui beneficia anche il suo appartamento.

Cass. civ. n. 2657/1997

In tema di comunione di diritti reali, la disposizione di cui all'ultimo comma dell'art. 1104 c.c. (secondo la quale il cessionario del partecipante è tenuto in solido col cedente a pagare i contributi da questo dovuti e non versati) può essere invocata solo dal creditore, non da terzi estranei al rapporto obbligatorio. Pertanto, qualora un condominio paghi debiti inerenti un periodo anteriore alla propria costituzione (e relativi ai precedenti comproprietari), non può invocare la suddetta norma nei confronti degli aventi causa degli origina comproprietari, assumendo di avere estinto un debito non proprio. In tale ipotesi, il condominio non può neppure invocare le norme in materia di obbligazioni solidali, in quanto, non essendo esso ancora costituito al momento in cui il debito sorgeva e non avendo perciò assunto la qualità di (con) debitore, ha estinto un debito di altri e non anche di altri, onde non può agire in regresso ex art. 1299 c.c.

Cass. civ. n. 5967/1996

L'insorgenza dell'obbligazione del partecipante ex art. 1104 c.c. di contribuire alle spese necessarie per la conservazione della cosa comune, postula, in caso di contestazione, che venga fornita la prova dei presupposti dell'esistenza del condominio o della comunione, cioè della proprietà di cose comuni.

Cass. civ. n. 4574/1994

Qualora ciascun acquirente ai singole porzioni di un'area lottizzata si sia obbligato, con l'atto di compravendita, ad adibire una parte del proprio fondo a passaggio in favore degli altri lotti, nonché a partecipare alle spese di manutenzione della strada deputata a passaggio, si verifica direttamente, per effetto di tale convenzione, una comunione avente ad oggetto la strada vicinale così costituita, la cui utilizzazione avviene, quindi, per tutti i partecipanti, non iure servitutis, ma iure proprietatis, quale estrinsecazione delle facoltà dominicali loro spettanti e con la conseguente insorgenza dei doveri contemplati dall'art. 1104 c.c.

Cass. civ. n. 3600/1994

In tema di ripartizione delle spese condominiali attinenti al servizio centralizzato di riscaldamento di un edificio adibito ad uso abitativo, che costituito da due appartamenti sia in comune pro indiviso tra due comproprietari, trova applicazione la disciplina dettata per la comunione dall'art. 1104 c.c., con la conseguenza che ogni comproprietario è obbligato a sostenere le spese stesse in proporzione al valore della sua quota, indipendentemente dal concreto vantaggio che tragga dal detto servizio e senza possibilità di sottrarsi a quest'obbligo rinunciando al servizio medesimo, ove tale rinuncia possa produrre effetti pregiudiziali per l'altro comproprietario.

Cass. civ. n. 2658/1987

L'obbligo di ciascun condomino di contribuire alle spese necessarie per la conservazione delle parti comuni e per l'esercizio dei servizi condominiali deriva dalla titolarità del diritto reale sull'immobile e integra un'obbligazione propter rem preesistente all'approvazione, da parte dell'assemblea, dello stato di ripartizione il quale, perciò, non ha valore costitutivo ma soltanto dichiarativo del relativo credito del condominio in rapporto alla quota di contribuzione dovuta dal singolo partecipante alla comunione. Ne consegue che il condomino non può sottrarsi al pagamento dei contributi richiesti ancorché nello stato di ripartizione approvato dall'assemblea figuri, anziché il suo nome, quello del suo dante causa.

Cass. civ. n. 2146/1975

Venuto meno il condominio per l'unificazione in un unico soggetto della proprietà dell'intero edificio, ciò non comporta l'estinzione per confusione del credito di un ex condomino con il debito di un altro ex condomino aventi ad oggetto il rimborso di spese necessarie erogate dal primo per la conservazione della cosa comune, poiché l'obbligazione di pagamento delle spese condominiali necessarie, antecedenti alla cessione delle parti dell'edificio di proprietà esclusiva, resta a carico del cedente, accompagnandosi a tale obbligazione l'ulteriore obbligo solidale del concessionario.

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Consulenze legali
relative all'articolo 1104 Codice Civile

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Anonimo chiede
lunedì 25/03/2024
“Buongiorno, vi espongo questa situazione:.
1) Anni fa una grande cascina ha ristrutturato gli ambienti trasformandoli in appartamenti destinati ad una Comunione in multiproprietà.
2) Ogni appartamento è stato diviso in settimane di multiproprietà turnaria.
3) Nel corso del tempo un proprietario di numerose settimane ha dichiarato fallimento.
4) Nell’impossibilità di trovare acquirenti il Tribunale ha autorizzato la costituzione di un Trust a cui attribuire le settimane del fallimento.
5) Il Trust deve gestire le settimane affidategli nell’interesse della intera Comunione (tutti i multiproprietari), avendo la possibilità di affittare, vendere e acquistare le settimane non fallite.
6) Alla Comunione delle multiproprietà afferiscono beni comuni Condominiali (muri che la circondano, giardino, piscina, centrale termica, ecc.)
7) L’amministratore delle Comunioni amministra anche il Condominio (i beni comuni del punto 6)
8) Io sono uno dei multiproprietari di un appartamento in Comunione e sono in regola con tutti i pagamenti.

Ora, non essendo più interessato per motivi personali, ho appreso che alcuni multiproprietari hanno rinunciato ai loro obblighi per tramite di un atto giuridico chiamato Rinuncia Abdicativa della proprietà.

Chiedo chiarimenti rispetto a quanto mi hanno brevemente riferito:
a) È un atto che trasferisce la mia settimana di proprietà a tutti gli altri multiproprietari dell’appartamento?
b) In questo caso, anche gli obblighi di pagamento delle spese di Comunione e Condominio sono trasferiti?
c) In caso affermativo allora è come se avessi “venduto” la mia proprietà ma con una formula giuridica differente ?
d) Gli altri multiproprietari possono rifiutarsi di accettare questa “cessione”?
e) Immagino che tale Rinuncia Abdicativa debba essere redatta da un Notaio.
f) Il Notaio, per l’atto, ha bisogno di conoscere gli altri multiproprietari della Comunione del mio appartamento?
Grazie in anticipo se vorrete rispondermi.

Consulenza legale i 03/04/2024
Nella pratica commerciale vi sono diversi schemi contrattuali che possono essere utilizzati per acquisire una multiproprietà ed avere sul medesimo cespite immobiliare la coesistenza di una pluralità di diritti di godimento esercitabili a turno da diversi soggetti detti multiproprietari.
Nel caso specifico appare evidente che si è ricorsi alla fattispecie forse più diffusa che è quella della comunione immobiliare. Molto probabilmente, a suo tempo, l’autore del quesito per mezzo di un rogito notarile acquisì una quota del diritto di proprietà insistente sul cespite e contestualmente alla firma di detto rogito accettò un regolamento della comunione di chiara natura contrattuale che, nel rispetto di quanto prevede l’ art. 1102 del c.c. , andava a disciplinare le modalità di utilizzo del bene comune. Ovviamente ai sensi dell’art. 1104 del c.c. divenendo comproprietari del bene si è parimenti obbligati unitamente agli altri comproprietari a far fronte alle spese inerenti la manutenzione e il godimento del bene comune: tra esse certamente rientrano le spese condominiali afferenti quella specifica unità immobiliare.
La sicurezza di tale affermazione deriva proprio dal fatto che lo studio notarile a cui si fa riferimento nel quesito è giustamente ricorso ad un atto di rinuncia abdicativa della proprietà, per permettere ad alcuni multiproprietari di sbarazzarsi della loro quota di partecipazione sul bene. Con tale negozio giuridico il proprietario manifesta la volontà di rinunciare al proprio diritto sul bene abdicando dalla sua titolarità e quindi di fatto estinguendolo. A differenza quindi di una cessione del diritto che comporta il suo trasferimento da un soggetto ad un altro, qui il titolare semplicemente manifesta la sua volontà di rinunziarvi. Per tale motivo tale negozio non richiede l’accettazione di un eventuale cessionario ed è un atto unilaterale non recettizio, ovvero non richiede come condizione per la sua efficacia l’obbligo di essere comunicato a terze persone come, ad esempio, gli altri comproprietari e multiproprietari del bene.

L’atto di rinuncia abdicativa non trova una espressa disciplina nel nostro ordinamento, ma è ritenuto ammissibile dalla giurisprudenza maggioritaria in quanto esso rientra tra le facoltà che vanno a comporre il diritto di proprietà riconosciuto dalla nostra Carta Costituzionale e dall’art. 832 del c.c.: tradotto in parole semplici, se nel nostro ordinamento viene riconosciuto il diritto di proprietà, parimenti deve essere riconosciuto anche la possibilità di rinunziarvi. Inoltre, seppur non espressamente disciplinato, l’atto di rinunzia alle quote di comproprietà viene citato, e quindi implicitamente ammesso, nella disciplina della comunione e del condominio. Proprio il già citato art. 1104 del c.c. prevede, infatti, che il comproprietario possa essere esentato dalla partecipazione alle spese di manutenzione del bene comune nel momento in cui rinuncia al suo diritto di comproprietà.

Una caratteristica del diritto di proprietà è la sua naturale elasticità: in forza, quindi della rinuncia abdicativa della sua quota da parte di un partecipante alla comunione, il diritto degli altri comproprietari – multiproprietari si espande automaticamente ed essi vedranno accrescere la loro quota di partecipazione alla comunione in proporzione al diritto di cui risultano già essere titolari. Questo effetto espansivo avviene automaticamente senza che gli altri comproprietari debbano accettarlo partecipando all’atto di rinuncia che rimane un atto unilaterale, in quanto, come già detto, coinvolge solo il rinunciante.
Un altro effetto importante della rinuncia abdicativa si ha in relazione alle spese di manutenzione del bene comune: il rinunciante infatti non è più obbligato a corrispondere le spese di manutenzione del bene sorte successivamente alla sottoscrizione del rogito di rinuncia, rimanendo comunque obbligato a partecipare al pagamento delle spese sorte anteriormente.

È questo sicuramente uno degli aspetti più delicati della vicenda descritta. Contrariamente a quanto si possa comunemente pensare, la multiproprietà non trova nel nostro ordinamento una disciplina completa: esso è un istituto che è sorto inizialmente dalla prassi commerciale e solo in epoca relativamente recente ha trovato un parziale riconoscimento da parte del legislatore nel codice del turismo e in quello del consumo. Tale normativa, tuttavia, affronta solo alcuni aspetti della multiproprietà, tralasciandone altri: in particolare, non viene chiarito dalla legge se sia possibile rinunciare alle quote di una multiproprietà immobiliare.
Alcuni operatori del diritto, facendosi forza anche di pronunce della Corte di Cassazione, ritengono che non sia possibile rinunciare abdicativamente alle quote di una multiproprietà immobiliare, in quanto a tale istituto dovrebbe farsi applicazione dell’art. 1118 del c.c. dettato in tema di condominio, ed in particolare del suo secondo comma in forza del quale il condomino non può rinunziare al suo diritto sulle parti comuni. Altri operatori, al contrario, ritengono invece che il multiproprietario possa uscire dalla multiproprietà e liberarsi degli oneri conseguenti semplicemente rinunciando al suo diritto sul bene: questo orientamento è stato certamente sposato dallo studio notarile che ha rogato l’atto di rinuncia per gli altri ex multiproprietari.

La verità è che, per quanto ci è dato sapere, questo aspetto seppur importante nella prassi, non è stato ancora sufficientemente approfondito nelle aule giudiziarie e non è ancora emerso un chiaro orientamento sul punto: la materia rimane quindi oscura e senza punti fermi.
In linea teorica quindi l’ente che gestisce la multiproprietà o anche i singoli multiproprietari facendosi forza del primo orientamento di cui si è detto, potrebbero adire il giudice sostenendo la nullità della rinuncia abdicativa e pretendendo che il rinunciante continui a far fronte alle spese inerenti la manutenzione del cespite comune. Per mettersi al riparo da questo rischio e nel contempo liberarsi dalla multiproprietà sarebbe quindi consigliabile non ricorrere allo strumento della rinuncia abdicativa, bensì mettere sul mercato la propria quota e cederla, anche per un prezzo irrisorio, ad un soggetto estraneo alla comunione o anche ad un altro multiproprietario.
Si è consapevoli che questo non sempre è realizzabile in tempi rapidi: commercialmente parlando la multiproprietà non è più un bene appetibile come poteva esserlo anni fa. Per tale motivo certamente non si condanna né si critica la soluzione adottata dallo studio notarile e, se la necessità è quella di uscire dalla multiproprietà in tempi rapidi certamente l’unica soluzione possibile è quello di ricorrere allo strumento della rinuncia abdicativa. Non è infatti detto che vi sia un effettivo interesse degli altri multiproprietari a far dichiarare nulla la rinuncia da parte del giudice (percorso che comunque avrebbe dei costi che dovrebbero essere da loro anticipati), e se anche così fosse, si potrebbe fare ricorso a buone argomentazioni per sostenere la validità della rinuncia.


E. F. chiede
martedì 30/01/2024
“Buongiorno, sono già iscritto alla Vs. newsletter che apprezzo quotidianamente. Sottopongo un problema. mio figlio e la sua compagna nel 2006 con il rispettivo aiuto iniziale dei padri hanno acceso un mutuo al 50% ciascuno per l'acquisto di una casa. Nello steeso anno io ho regalato ed intestato a mio figlio una polizza di protezione casa e famiglia
che continuo a pagare tuttora. Nel febbraio 2023 un incendio fortuito, (per fortuna durante il giorno altrimenti sarebbe stato una strage) ha distrutto il tetto ed il piano di sopra della casa adibito alle camere da letto. Sono state fatte intervenire 2 assicurazioni: quella del mutuo cointestato e quella singola intestata a mio figlio che ha corrisposto oltre il 62% dell'indennizzo a mio figlio mentre l'altra (del mutuo il 38% diviso nel 19% a cadauno). Per integrare i pagamenti assicurativi io e mio figlio ci siamo attivati anche con i nostri smobilizzi di polizze vita, e anticipazioni di TFR per far proseguire i lavori senza interruzioni. Mio figlio inoltre ha pagato per entrambi dal 2016 la rata del mutuo. Nulla è stato versato nè dalla compagna né dal di lei padre. Entrambi i ragazzi sono lavoratori, lei ora è stata licenziata e si anche è messa con un altro. un collega di lavoro. Il padre di Lei dispone di una liquidità di qualche milione di euro mentre io sono un normale pensionato dal 2011 e lui è andato in pensione nel 2023. A mio parere, avendo tutti i pagamenti documentati fatti da mio figlio - ed anche i miei versamenti fatti confluire sul suo conto - per ripristinare la proprietà al 50% lei deve versare la quota parte di differenza (complessivamente quasi 90.000 €). Gradirei avere il Vostro parere in merito e ringrazio. Cordiali saluti”
Consulenza legale i 05/02/2024
L’art. 1104 del c.c. dispone che ciascun partecipante alla comunione deve contribuire alle spese necessarie per la conservazione della cosa comune, salva la facoltà di liberarsene con la rinuncia al suo diritto.
L'art. 1134 del c.c. prevede, inoltre, il diritto del singolo condomino, che si è assunto individualmente la gestione della cosa comune senza una preventiva autorizzazione dell’assemblea, di essere rimborsato delle spese sostenute, se dimostra che esse rivestano il carattere dell’urgenza. Tale ultima norma, seppur prevista nella disciplina del condominio, rappresenta un principio generale che può trovare applicazione pacifica anche al caso descritto.

Sulla base di quanto riferito, si ritiene che vi siano tutti i margini di manovra per poter pretendere dall'altro partecipante alla comunione (l'ex convivente del figlio) il pagamento della metà della somma corrisposta per far fronte alle spese necessarie per ripristinare il corretto funzionamento della abitazione comune, anche ricorrendo, se del caso, alla autorità giudiziaria.


M. A. chiede
mercoledì 27/09/2023
“Buongiorno
Vi scrivo per richiedere supporto in merito per come gestire una eventuale eredità. I miei genitori (entrambi viventi) vivono in una casa cointestata. Oltre la casa, hanno dei terreni e magazzini in condivisione con molti altri parenti. Per verifica, abbiamo effettuato una ricerca tramite i documenti catastali. In essi sono elencati le percentuali per ogni erede della proprietà. Il problema è che una parte di questi eredi risiede all’estero e una parte è deceduta (per queste quote evidentemente non è mai stata fatta una successione). Quindi questi eredi risultano non rintracciabili. Vorrei chiedervi come poter procedere per evitare che tali beni in condivisione passino in eredità a me e mio fratello, senza dover però rinunciare alla casa dei miei genitori.”
Consulenza legale i 03/10/2023
L’obiettivo desiderato si può raggiungere grazie ad un particolare negozio giuridico di cui si riviene traccia nel nostro codice civile, ovvero quella della c.d. rinunzia abdicativa.
Nella prassi corrente sono ormai molto frequenti i casi in cui taluno vuole liberarsi di un determinato immobile, sia per ragioni di carattere fiscale (non se ne vuole più sostenere l’onere tributario) sia per ragioni di convenienza economica (si tratta nella maggior parte dei casi di beni di scarso valore e/o praticamente ingestibili, quale può essere, ad esempio, un fabbricato fatiscente ovvero la quota di comproprietà su un piccolo terreno infruttuoso, sito in una località molto distante da quella di residenza).

Trattasi di una fattispecie che, pur in assenza di una disciplina generale contenuta nel codice civile, viene generalmente ricostruita come un negozio giuridico unilaterale, mediante il quale l’autore del negozio dismette una situazione giuridica di cui è titolare, determinando puramente e semplicemente l’abdicazione della quota senza ulteriori effetti negoziali.
Tra i vari diritti rinunziabili, il diritto di proprietà deve senza dubbio ritenersi suscettibile di rinunzia abdicativa, ed a sostegno di tale tesi sono state addotte le seguenti argomentazioni:
- il carattere disponibile del diritto in esame;
- la previsione da parte del legislatore di specifiche ipotesi di rinunzia al diritto di proprietà (artt. 882-1104 c.c.), pur se in queste peculiari fattispecie all’atto di rinunzia viene ricollegato un effetto ulteriore estintivo dell’obbligazione (si parla in questi casi di cd. rinunzia liberatoria);
- la circostanza che per escludere la rinunziabilità in relazione alle parti comuni di un edificio il legislatore è dovuto intervenire espressamente ([[ 1118cc]]);
- la disparità di trattamento che si creerebbe altrimenti rispetto ai beni mobili, dei quali è indiscutibile la possibilità di abbandono;
- l’espresso riferimento contenuto negli artt. 1350 n. 5 c.c. e 2643 n. 5 c.c.

Non può costituire argomento contrario il fatto che, nelle ipotesi sopra considerate, vi sia una espressa previsione di legge, in quanto può facilmente obiettarsi che essa è risultata necessaria non per consentire la rinunzia al diritto di proprietà, bensì per ricollegarvi un effetto ulteriore e peculiare, quale l’estinzione dell’obbligazione di contribuzione alle spese.
Come detto prima, si tratta di una facoltà che compete unicamente al titolare della situazione giuridica oggetto di dismissione e per la quale non è richiesto il consenso di alcun altro soggetto, e ciò perché la natura puramente abdicativa e non traslativa della rinunzia esclude la necessità di un’accettazione.

Un problema che ci si è posti, invece, è se l’atto di rinunzia sia o meno recettizio e, quindi, se debba o meno essere portato a conoscenza del terzo interessato (ossia, nel nostro caso, degli altri comproprietari).
Al riguardo, la dottrina ha espresso posizioni divergenti, sostenendo che il carattere recettizio della rinunzia andrebbe accertato caso per caso, non potendosi fornire una soluzione unitaria.

In particolare, si sostiene che occorre a tal fine operare una distinzione tra rinunzia liberatoria e rinunzia abdicativa, onde affermare:
a) il carattere recettizio della rinuncia liberatoria, come nel caso della rinunzia alla quota di comproprietà di cui all’art. 1104 c.c., giacché questa produce l’effetto di sottrarre il rinunciante agli obblighi derivanti dalla titolarità del diritto, accollandoli all’altro comunista che, salvo il rifiuto, acquista la proprietà della quota rinunciata per accrescimento. In tale ipotesi, dunque, la necessità che l’atto venga portato a conoscenza degli altri comproprietari, viene ricollegata non alla rinunzia in sé considerata, bensì a quell’effetto ulteriore che caratterizza la rinunzia liberatoria (e che non sussiste in quella abdicativa pura), ossia la liberazione dall’obbligazione di pagamento delle spese anche anteriori.
b) il carattere non necessariamente recettizio della rinunzia abdicativa (cfr. Cass. 20 aprile 1965, n. 761; Cass. 18 agosto 1956, n. 3129). Si preferisce parlare di carattere non necessariamente recettizio in quanto, pur se l’assenza dell’effetto liberatorio e della possibilità di rifiuto escludono la necessità della conoscenza altrui ai fini dell’efficacia del negozio, resta comunque fortemente opportuna tale conoscenza in un’ottica di reciproca correttezza.

Ovviamente, come si ammette la rinunziabilità del diritto di proprietà, considerata la sua natura disponibile ed alla luce degli argomenti sopra indicati, si ritiene debba ammettersi, sulla base dei medesimi argomenti, anche la rinunziabilità della quota di comproprietà; del resto, non vi sarebbero argomentazioni per spiegare il perché il pieno proprietario possa rinunziare al suo diritto, mentre il proprietario pro quota non possa farlo: si tratta sempre del medesimo diritto, sia pure nel primo caso pieno e senza limiti, mentre nel secondo caso limitato dal concorrente diritto degli altri contitolari.
Inoltre, non risultando necessaria ed essendo esclusa, per come detto prima, l’accettazione da parte degli altri comproprietari, l’effetto dell’accrescimento della quota di questi ultimi si configura come una conseguenza solo mediata e riflessa della rinunzia, connessa alla natura della comunione

Per quanto concerne i soggetti legittimati a compiere tale atto, sembra evidente che la dismissione della situazione giuridica non può che provenire dal soggetto o dai soggetti cui essa appartiene. Pertanto, nel caso in esame, se si vuole sin da subito evitare che quelle quote di comproprietà giungano nel patrimonio ereditario dei propri genitori, sono questi che dovranno porre in essere l’atto suggerito.

Sotto il profilo della forma, va precisato l’atto in questione, avendo ad oggetto diritti immobiliari, deve rispettare la forma scritta ex art. 1350 n. 5 ed è soggetto a trascrizione ai sensi dell’art. 2643, n. 5, c.c.; quanto alle modalità di trascrizione, sembra preferibile la tesi secondo la quale la rinunzia, stante la sua natura abdicativa, debba essere trascritta unicamente contro il rinunziante.

F. C. chiede
giovedì 21/09/2023
“Siamo 3 sorelle e 1 fratello abbiamo ereditato un appartamento al mare che abbiamo sempre gestito di comune accordo dividendoci tra luglio e agosto i 15 giorni di ferie per ciascuno e concordando anche i vari periodi (considerando che mio fratello può fare le ferie solo 15 giorni in agosto). Una sorella ha acquistato un suo appartamento e ci ha comunicato che per questo appartamento (quello che abbiamo ereditato); non vuole più pagare il 25% delle spese condominiali. Io sostengo e ritengo visto che lei ha un 25% di proprietà che le debba pagare, lei sostiene che non usufruendo dell’ appartamento per 15 giorni non le debba pagare, anzi vuole affittare i suoi 15 giorni a persone estranee. L’altra sorella e fratello si sono proposti a pagare loro il 25% delle sue spese condominiali per il quieto vivere e perché non affitti l’appartamento di famiglia con tutte le nostre cose all’interno a persone estranee. Non accetta neanche questo perché io non partecipo al pagamento delle spese .le mie domande sono: deve pagare le spese condominiali? Può affittare per 15 giorni l’appartamento (tengo a precisare che noi tre non siamo assolutamente d’accordo) lei sostiene che dei suoi 15 giorni fa quello che vuole anche se noi non siamo d’accordo.Come ci si deve comportare? Ma lei può decidere senza tener conto del parere degli altri tre? Può affittare senza il consenso della maggioranza ?Inoltre vuole decidere i periodi di ferie ad estrazione senza più considerare chi può fare le ferie e quando! Se riesce a darmi delle risposte chiare in modo comprensibile e come possiamo fare e come intervenire, la ringrazio fin d’ora”
Consulenza legale i 28/09/2023
Il pagamento delle spese condominiali.
L’art. 1104 del c.c. stabilisce il principio fondamentale secondo il quale ciascun partecipante alla comunione deve partecipare alle spese necessarie alla conservazione della cosa comune, salvo la possibilità di rinunciare alla sua quota di comproprietà. Nel caso di un appartamento in condominio in comproprietà tra più soggetti gli oneri condominiali rientrano tra le spese indicate dall’art. 1104 del c.c.: per tale motivo nel caso specifico ciascun comproprietario deve contribuire al pagamento degli oneri in proporzione della rispettiva quota.
Ovviamente se ciò non avvenisse gli altri partecipanti alla comunione avrebbero titolo per citare in giudizio l’altro proprietario inadempiente e pretendere il pagamento della sua parte di oneri, fatta salvo la prescrizione del diritto.

La possibilità di concedere in locazione l’appartamento comune.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la pronuncia n. 11135 del 04.07.2012 facendo applicazione dell’istituto della gestione di affari altrui ha stabilito che rimane valido il contratto di locazione della cosa comune stipulato da uno solo dei comproprietari in autonomia senza l’intervento o anche all’ insaputa degli altri partecipanti alla comunione. La pronuncia in esame fa salva comunque la facoltà per gli altri comproprietari di opporsi con comunicazione scritta ad un contratto di locazione di cui non erano stati debitamente preavvisati. Tale opposizione seppur non fa venir meno la validità del contratto stipulato nonostante il dissenso degli altri partecipanti alla comunione, apre a questi ultimi la possibilità di poter richiedere all’altro proprietario e all’inquilino la corresponsione di quella parte di canone commisurato alla quota di loro comproprietà, oltre alla possibilità di richiedere il risarcimento dei danni se patiti.
Al fine quindi di garantirsi la miglior tutela possibile, è essenziale che i comproprietari dissenzienti inviino alla sorella “ribelle” una raccomandata con ricevuta di ritorno con la quale chiaramente esprimere il loro dissenso circa la possibilità di cedere in locazione anche per un breve periodo il bene comune.

L’uso turnario della casa vacanze.
Anche sotto questo aspetto le pretese avanzate dalla controparte sono del tutto prive di fondamento giuridico. Sicuramente i comproprietari riuniti nella assemblea di cui all’art. 1105 del c.c. hanno pieno diritto di decidere le modalità di uso del bene comune, modalità d’uso che può anche consistere in un uso a turni del bene, così come è stato fatto fino ad ora. Il 2° comma dell’art. 1105 del c.c. dice chiaramente che in relazione agli atti di ordinaria amministrazione (in cui rientra sicuramente la decisione circa le modalità di utilizzo del bene), le decisioni prese dalla maggioranza dei comproprietari (calcolata in proporzione al valore delle quote) è vincolante per la minoranza dissenziente.
Se quindi, in linea teorica, sarebbe possibile modificare le modalità di utilizzo della casa vacanza comune decidendo anche di estrarre a sorte i vari periodi in cui ciascun comproprietario può fare le ferie è anche vero che ogni modifica in proposito deve essere approvata dalla maggioranza dei partecipanti. Per tale motivo se la sorella ribelle non convincerà almeno 2 dei quattro fratelli a modificare le modalità di utilizzo del bene non potrà imporre unilateralmente una estrazione a sorte dei periodi di vacanza.


D. C. chiede
giovedì 06/07/2023
“Buongiorno, scrivo in merito per alcuni quesiti riguardanti una rinuncia alla eredità.
Da poco è venuta a mancare mia madre esattamente dal 29 maggio e di eredi il linea retta siamo rimasti solo in 2 fratelli, dove tutti e 2 vogliamo rinunciare alla eredità di nostra madre che riguarda dei lotti di terreni e 2 case vecchie e fatiscenti in comproprietà con dei mie cugini che hanno succeduto. La mia prima domanda riguarda delle liquidità di 13esima maturata sulla pensione in questo anno da gennaio al 29 maggio per chiusura dei conteggi, richiesta fatta da mio fratello sotto consiglio delle pompe funebri che sembra obbligatorio fare. sembra che ci spetta da andare al CAF a ritirare al 50% con mio fratello, e poi ci sarà anche una liquidità di un 730 riguardante il 2022 fatto quando mia madre era ancora in vita. Ora queste 2 liquidità anche se in forme diverse si possono ritirare prima o anche dopo aver fatto la successione e il rifiuto della eredità senza dover incappare nella tacita accettazione?
Il secondo quesito un po' più complesso da spiegare.
Nel rifiutare l'eredità insieme con mio fratello lui avrebbe il problema che succederebbe la sua unica figlia di 9 anni, e anche se non vuole poi finirebbe davanti a un giudice a decidere per lei premettendo che sulla eredità non ci sono debiti di nessun genere. Per ovviare a questo problema gli è stato consigliato una procedura di accettazione di eredita' che non ricordo il termine ma non è tra quelle 3 che per lo meno io conosco cioè accettazione semplice, accettazione con beneficio di inventario, tacita accettazione. In pratica sarebbe un tipo d'accettazione prevista dalla legge che si accetta del tutto l'eredita' con tutti i pro e i contro e quando si vuole nell'arco di 10 anni si può rinunciare totalmente lasciando la propria quota ai comproprietari. Teoria confermata da un notaio a mio fratello per questa cosa, ma dice anche che se per caso ci dovessero essere dei problemi e ci sono riguardante queste case pericolanti e non accatastate per bene, e quindi delle impugnazioni da parte dei coeredi, alla fine delle indagini ci può andare di mezzo il notaio. E che quindi a sua volta si rifiuta di farla. Questo discorso è stato fatto per fare in modo di tagliare fuori dalla eredità la figlia accettando l'eredità e in teoria subito dopo rifiutando ma nel mentre approfittando di tutti i pro. Siccome con mio fratello purtroppo non andiamo molto d'accordo e non ho modo di approfondire al meglio,prima di rifiutare eredita' vorrei sapere come si chiama questa procedura di accettazione e se è prevista anche per me che non ho figli anche se credo non dovesse centrare molto, visto che il notaio si può permettere di decidere se farla o meno, da questa eredità che ribadisco non ci sono debiti anzi volendo solo crediti ma purtroppo brutti dissapori di rapporti e litigi da oltre 40 anni e possibili altri problemi dall'imminente crollo di queste case, che ci hanno portato a decidere di rifiutare. Non vorrei trovarmi a rifiutare eredita' e veder di esser trattato come uno stupido a pagarsi anche la successione se mi spetta al rifiuto, che spero la paghi lui se accetterà in questo modo, ben sapendo che si poteva fare diversamente. Ringrazio anticipatamente.”
Consulenza legale i 16/07/2023
Qualunque atto posto in essere dopo la morte del de cuius e non rientrante tra quelli previsti dall’art. 460 del c.c. si configura come accettazione tacita dell’eredità e, come tale, preclude una successiva rinunzia alla medesima.
In particolare, secondo quanto disposto dall’art. 460 c.c., colui che si trova nella posizione di chiamato all’eredità può compiere esclusivamente atti conservativi e di amministrazione temporanea, la cui realizzazione si renda necessaria o anche solo opportuna per la conservazione del valore economico e della capacità produttiva dei beni ereditari.
Tra tali atti possono sicuramente farsi rientrare quelli a cui si fa riferimento nella prima parte del quesito, ovvero il disbrigo delle pratiche necessarie per recuperare al patrimonio ereditario i crediti derivanti dai ratei di tredicesima maturati prima della morte della de cuius ed il credito d’imposta riguardante il modello 730/2022.
Tuttavia, le somme a tal titolo recuperate non potranno poi essere incamerate nel patrimonio di coloro che continuano a trovarsi nella posizione di chiamati all’eredità, pena la perdita del diritto di rinunziare a quell’eredità per aver posto in essere un atto di accettazione tacita ex art. 476 del c.c..
Infatti, sebbene sia i T.F.R. (trattamenti di fine rapporto) che i crediti verso lo Stato (tale è il credito d’imposta) siano esclusi dal pagamento delle imposte di successione e, come tali, non debbano essere inseriti nella dichiarazione di successione, si tratta pur sempre di beni che compongono l’attivo ereditario e sui quali, eventuali creditori avranno diritto a soddisfarsi.

Quanto fin qui detto vale per ciò che viene chiesto nella prima parte del quesito posto.
Per quanto concerne, invece, la seconda parte, la situazione si presenta, almeno sotto il profilo giuridico, più complessa.
Come giustamente osservato nello stesso quesito, il nostro ordinamento giuridico conosce, sotto il profilo formale, solo due diverse forme di accettazione dell’eredità, ovvero quella espressa e quella tacita (art. 474 del c.c.).
Sotto il profilo degli effetti, invece, si distingue l’accettazione pura e semplice da quella con beneficio di inventario; in particolare quest’ultima forma di accettazione è quella prevista dagli artt. 471 e 472 c.c. per il caso di minori e incapaci, i quali non si considerano decaduti dal beneficio dell’inventario qualora provvedano ai relativi adempimenti entro un anno dal compimento della maggiore età o dalla cessazione dello stato di incapacità (art. 489 del c.c.).
Non esiste altra forma di accettazione dell’eredità e, soprattutto, non è in alcun modo possibile accettare l’eredità per poi rinunziarvi.

L’unico fattispecie giuridica a cui può pensarsi, invece, è quella dell’acquisto dell’eredità, per effetto di accettazione tacita o espressa, e della successiva rinunzia abdicativa alla contitolarità di alcuni dei beni costituenti il patrimonio ereditario (ovvero della comproprietà di quei beni di cui si teme il crollo imminente).
Trattasi di atto negoziale che trova fondamento nel disposto di cui all’art. 1104 c.c.
In forza di tale norma, infatti, ci si potrà recare dal notaio di propria fiducia e richiedere allo stesso la stipula di un atto di c.d. “Rinuncia abdicativa e liberatoria”.
Al suddetto atto negoziale è chiamato ad intervenire soltanto il rinunziante, alla presenza di due testimoni, e per effetto di esso l’interveniente dichiara appunto di rinunciare, puramente e semplicemente, con effetto abdicativo, alla quota di comproprietà sull’immobile che in premessa dell’atto andrà descritto.

Dal momento della rinuncia ci si libererà dall’obbligo di contribuire a tutte le spese necessarie per la conservazione ed il godimento della cosa comune, così come previsto appunto dal citato art. 1104 c.c., nonché dall’obbligo di pagamento di tutte le imposte, tasse e tributi inerenti alla piena proprietà della quota di proprietà a cui si è rinunciato.
Inoltre, per effetto della rinuncia così effettuata, ed in virtù del principio di elasticità del dominio, la piena proprietà della quota del rinunciante si accrescerà automaticamente all’altro o agli altri comproprietari, i quali, si precisa, non dovranno partecipare all’atto.
E’ questo un negozio giuridico del tutto lecito e non si comprende, se ad esso il notaio intende fare riferimento, per quale ragione nel quesito si affermi che “ci può andare di mezzo il notaio”, a meno che non vi siano ragioni di natura urbanistica che impediscano al notaio di rogare un atto avente ad oggetto tali immobili (probabilmente è a questo che ci si riferisce quanto si dice “non accatastate per bene”).

Altra soluzione, infine, che può prospettarsi è quella di fare ricorso ad un altro istituto previsto dal nostro ordinamento giuridico, ovvero quello dell’eredità giacente.
Si tratta di istituto giuridico utilizzabile in tutti i casi in cui i chiamati all’eredità non si decidono immediatamente ad accettare l’eredità, ma lasciano trascorrere qualche tempo per riflettere se gli convenga o meno.
Ebbene, in questo intervallo temporale il patrimonio ereditario rimane senza un titolare attuale dei rapporti attivi e passivi che di esso fanno parte; proprio per assicurare la gestione di quel patrimonio durante tale fase (che può anche essere di lunga durata, poiché il termine di prescrizione del diritto di accettare l’eredità è di dieci anni), gli artt. 528 e ss. c.c. prevedono la specifica figura dell’eredità giacente, che ricorre quando concorrano le seguenti condizioni:
a) non sia ancora intervenuta l’accettazione da parte di alcuno dei chiamati;
b) nessuno dei chiamati si trovi nel possesso dei beni ereditari;
c) si provveda alla nomina, su istanza di qualsiasi interessato (chiamati, legatari, creditori, ecc.) o anche d’ufficio, un curatore dell’eredità giacente.

Detta nomina, ovviamente, deve essere motivata da qualche concreta esigenza di provvedere ad atti di gestione del patrimonio ereditario che non possano essere rinviati in attesa che venga a cessare la situazione di incertezza, per effetto dell’accettazione di uno dei chiamati.
Il curatore non è un rappresentante del chiamato o dei futuri eredi o dei creditori del de cuius e neppure della stessa eredità, ma un vero e proprio amministratore di quel patrimonio, con funzioni prevalentemente conservative, anche se non sono esclusi, in caso di necessità, poteri dispositivi (così art. 782 del c.p.c.).
In tale sua qualità, pertanto, potrà e dovrà occuparsi della situazione di imminente pericolo di crollo che riguarda alcuni degli edifici caduti in successione, risolta la quale i chiamati potranno finalmente prendere la decisione se accettare o meno l’eredità della de cuius.

P. V. chiede
giovedì 09/03/2023 - Liguria
“Spettabile Brocardi,
vi sottopongo questo mio quesito :
“Il marito , che si trova in regime di comunione dei beni con la coniuge, acquista nel 1984 degli immobili ad insaputa della moglie. Il marito decede il 10 settembre 2014. Moglie e figli rinunciano all'eredità. La moglie alcuni anni dopo dalla morte del marito si rende conto dell'esistenza a suo nome di questi immobili che sono in comproprietà al 50% con il marito defunto. In questo caso specifico la moglie può rinunciare al suo diritto di comproprietà? Se si in quale modo?"

In attesa di una certa risposta ringrazio anticipatamente ed invio cordiali saluti

Consulenza legale i 15/03/2023
Da un punto di vista meramente teorico la rinuncia al diritto di proprietà su uno o più beni è sempre ammissibile, non esistendo nel nostro ordinamento giuridico una norma che la vieti.
Anzi, il suo fondamento normativo si può rinvenire nel combinato disposto degli artt. 1350 n. 5 e 2643 n. 5 c.c., norme che, nel fare esplicito riferimento alla rinuncia al diritto di proprietà, richiedono, allorchè abbia ad oggetto beni immobili, il necessario rispetto, a pena di nullità, della forma dell’atto pubblico o scrittura privata autenticata e la successiva trascrizione di quell’atto nei registri immobiliari.

Ora, quando un soggetto intende liberarsi della proprietà di un bene, possono prospettarsi due diverse situazioni.
La prima è quella della rinuncia al diritto di proprietà su un bene in comproprietà, nel qual caso per effetto di tale rinuncia si verificherà un incremento delle quote degli altri contitolari del bene (in virtù del principio di elasticità del dominio); i comproprietari che acquisiranno la quota del rinunciante non potranno opporsi all’accrescimento della loro quota, in quanto l’espansione si verifica senza il loro consenso.
Si parla in tale ipotesi di c.d. rinuncia abdicativa, in quanto per effetto della stessa ci si libererà dall’obbligo di contribuire a tutte le spese occorrenti per la conservazione ed il godimento della cosa comune, così come espressamente previsto dall’art. 1104 del c.c., nonché dall’obbligo di pagamento di tutte le imposte, tasse e tributi inerenti alla piena proprietà della quota rinunciata.

La seconda situazione che può prospettarsi, invece, è quella che si crede venga delineata nel caso in esame, ovvero quella in cui a voler rinunciare sia il proprietario unico.
Ebbene, la differenza rispetto all’ipotesi prima esaminata sembra evidente, poichè in questo caso non vi è un altro comproprietario in favore del quale possa verificarsi l’effetto espansivo del diritto di proprietà.
In conseguenza di ciò, la rinuncia dell’unico proprietario determinerà il passaggio di proprietà in favore dello Stato, in tal senso dovendosi argomentare questa volta dall’art. 827 del c.c., in forza del quale si stabilisce che i beni immobili che non sono di proprietà di alcuno (c.d. res nullius) confluiscono nel patrimonio dello Stato, il quale ne diviene a sua volta proprietario non in forza di occupazione, ma in quanto trattasi di beni c.d. “vacanti”.
Per la manifestazione di tale volontà di rinuncia occorre, come si è prima accennato, il rispetto della forma prescritta dagli artt. 1350 e 2643 c.c., il che significa che occorre recarsi da un notaio, il quale stipulerà un atto di donazione (c.d. abdicazione della proprietà), avente natura giuridica di atto unilaterale, non essendo per esso prevista la manifestazione di una volontà di accettazione.

Quanto appena detto, però, vale in linea meramente teorica, in considerazione del fatto che nel nostro ordinamento giuridico non esiste, appunto, una norma che vieti espressamente un atto di tale tipo.
Tuttavia, sotto il profilo concreto, vi sono dei limiti molto importanti che non vanno trascurati prima di giungere alla stipula di tale atto negoziale, limiti che lo stesso notaio chiamato a rogare l’atto può sottoporre in via preliminare all’attenzione del rinunziante.

Infatti, occorre sempre valutare il tipo di bene alla cui proprietà si andrà a rinunciare, potendo sorgere delle difficoltà nel caso in cui, ad esempio, oggetto della rinuncia sia un fabbricato rurale o altro edificio diroccato o semidiruto che versi in cattivo stato di manutenzione e per il quale si rendano necessari interventi di risanamento e consolidamento.
L’acquisizione al patrimonio dello Stato di un immobile di questo tipo, infatti, potrebbe causare debiti e l’immediata necessità di sostenere delle spese di messa in sicurezza a carico dello stesso Stato che ne diverrebbe proprietario, con evidente aggravio per l’intera collettività.

In questi casi sembra evidente che lo Stato non accetterebbe passivamente l’acquisto del diritto di proprietà sul bene rinunciato, essendo pienamente legittimato ad opporsi a tale acquisto e potendo a tal fine far valere in giudizio la nullità dell’atto da cui ne è derivato (l’atto di rinuncia).
Sarebbe sufficiente un accertamento giudiziale dello stato di consistenza dell’edificio per dimostrare la nullità di quell’atto sia per violazione dell’art. 1322 del c.c. (in quanto stipulato per il perseguimento di un interesse non meritevole di tutela da parte dell’ordinamento giuridico) che ex art. 1344 del c.c. (si tratterebbe, infatti, di un atto stipulato in frode alla legge, ovvero compiuto con il solo scopo egoistico di ribaltare sull’erario i costi necessari per la conservazione del bene che ne ha costituito l’oggetto).

L’intento elusivo e fraudolento, invece, sarebbe in ogni caso da escludere allorchè dovesse trattarsi, ad esempio, di un terreno semplicemente non più produttivo ovvero di un edificio in buono stato di conservazione, ma che il proprietario non ha semplicemente alcun interesse ad utilizzare.

In conclusione, la rinuncia è senza alcun dubbio ammissibile, ma nel caso di specie non è sufficientemente chiaro quale delle due ipotesi sopra prospettate andrà concretamente a configurarsi, tenuto conto che per il restante 50% vi è stata una rinuncia ad eredità, ma nulla viene specificato sulla sorte che tale 50% ha avuto (se anch’esso verrà alla fine acquisito o meno al patrimonio dello Stato per assenza di successibili ex lege).

P. V. chiede
lunedì 27/02/2023 - Liguria
“Spettabile Brocardi,
vi chiedo in quali casi e con quale procedura è possibile rinunciare al diritto di comproprietà di beni immobili, atto unilaterale, che trova fondamento normativo negli articoli 1104 -1350 e 2643 del codice civile e in giurisprudenza ad esempio si veda la sentenza della cassazione numero 23691 del 09 novembre 2009.
In attesa di una certa risposta ringrazio anticipatamente ed invio cordiali saluti

Consulenza legale i 07/03/2023
È assolutamente e pacificamente possibile rinunciare al proprio diritto di comproprietà su un cespite immobiliare per mezzo di un rogito notarile, in quanto il diritto di proprietà è disponibile e come tale rinunciabile. Tale tipo di atto è per sua natura unilaterale e pertanto non è richiesta la partecipazione e l’adesione degli altri comproprietari, i quali sulla base di quanto dispone l’art. 1104 del c.c. vedranno accrescere la loro quota di comproprietà in proporzione a quanto in precedenza possedevano, e parimenti vedranno quindi accrescere i loro obblighi nella partecipazione alle spese di manutenzione del bene.

Uno dei pochi casi in cui non è possibile rinunciare alle quote di comproprietà sul bene comune è quello previsto dal 2° co. dell’ art. 1118 del c.c., il quale espressamente dispone che il condomino non possa rinunciare al suo diritto sulle parti comuni ricomprese in un edificio condominiale, ma non vi sono elementi che fanno pensare che nel caso descritto nel quesito possa trovare applicazione il divieto in parola.


F. G. chiede
mercoledì 22/02/2023 - Lazio
“Buongiorno,
dopo la scomparsa dei miei genitori ho ricevuto in eredita' al 50% con mio fratello due immobili ed un terreno edificabile.
I due immobili (divisi in uno per ciascuno) sono già stati registrati davanti al notaio.
Il terreno invece sarà posto in vendita sempre al 50%.
Non volendo per varie ragioni avere più rapporti con mio fratello vorrei disfarmi della mia quota del 50%: Ho sentito parlare di una certa "abdicazione" che potrebbe essere applicata alla mia quota in autonomia senza consenso del coerede semplicemente con atto notarile e solo in mia presenza.
Se ciò mi viene confermato quali spese dovrei sostenere solo la parcella del Notaio per l abdicazione o ci sono da includere anche ulteriori spese rapportate al valore del terreno al 50% .
Attendo conferma e invio cordiali saluti”
Consulenza legale i 07/03/2023
La soluzione a cui si fa riferimento nel quesito è senza alcun dubbio possibile e trova fondamento nel disposto di cui all’art. 1104 c.c.
In forza di tale norma, infatti, ci si potrà recare dal notaio di propria fiducia e richiedere allo stesso la stipula di un atto di c.d. “Rinuncia abdicativa e liberatoria”.
Trattasi di un atto negoziale al quale è chiamato ad intervenire soltanto il rinunziante, alla presenza di due testimoni, e per effetto del quale l’interveniente dichiara appunto di rinunciare, puramente e semplicemente, con effetto abdicativo, alla quota di comproprietà sull’immobile che in premessa dell’atto andrà descritto.

Dal momento della rinuncia ci si libererà dall’obbligo di contribuire a tutte le spese necessarie per la conservazione ed il godimento della cosa comune, così come previsto appunto dal citato art. 1104 c.c., nonché dall’obbligo di pagamento di tutte le imposte, tasse e tributi inerenti alla piena proprietà della quota di proprietà a cui si è rinunciato.
Inoltre, per effetto della rinuncia così effettuata, ed in virtù del principio di elasticità del dominio, la piena proprietà della quota del rinunciante si accrescerà automaticamente all’altro comproprietario, il quale, si precisa, non dovrà partecipare all’atto.

Sotto il profilo delle spese va precisato che, trattandosi di un atto traslativo della proprietà a titolo gratuito (per questo si fanno intervenire due testimoni), occorrerà determinare, ai fini della tassazione dell’atto, il valore della quota di immobile ceduto agli effetti di cui all’art. 1 all’art. 57 comma 2 ed all’art. 58 comma 5 del Testo Unico sulle successioni e donazioni, dovendosi rendere nel corpo dell’atto la dichiarazione del rapporto di parentela intercorrente tra rinunziante e beneficiario.

Tutte le spese dell’atto, relative sia ad imposte che ad onorario di notaio, graveranno sul rinunziante (per la loro esatta determinazione è necessario rivolgersi al notaio che riceverà l’atto).


Rita C. chiede
venerdì 25/11/2016 - Lombardia
“in base a quale norma o sentenza le spese di manutenzione del lastrico solare, pari ad un terzo a carico del condomino che ne ha l'uso esclusivo, deliberate PRIMA DEL ROGITO di vendita, sono a carico del venditore o dell'acquirente?”
Consulenza legale i 01/12/2016
Secondo la giurisprudenza più recente, la norma cui fare riferimento per la disciplina del quesito che viene posto è quella contenuta nell’art. 63 comma 2° disp. aAtt. c.c., ai sensi del quale "chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato, solidalmente con questo, al pagamento dei contributi relativi all'anno in corso e a quello precedente".

Tale norma deve essere interpretata nel senso che l'obbligo ivi previsto concerne unicamente l'esercizio in corso e quello precedente, pertanto sono esclusi i "riporti" degli esercizi precedenti, il cui pagamento può essere richiesto esclusivamente al precedente proprietario dell'immobile.

Trattasi di disposizione che trova conferma in quanto previsto dall’art. 1104 ultimo comma c.c., applicabile al condominio negli edifici per espresso richiamo dell’art. 1139 c.c., e che, sempre con riferimento agli obblighi dei partecipanti nella comunione, prevede che "il cessionario del partecipante è tenuto in solido con il cedente a pagare i contributi da questo dovuti e non versati".
Ciò che differenzia le due norme è la circostanza che mentre l’art. 1104 c.c. prevede una responsabilità solidale e sussidiaria del cessionario per i contributi pregressi dal cedente dovuti e non versati senza alcuna limitazione temporale, l’art. 63 disp. att. limita tale responsabilità al biennio precedente all’acquisto.

Ritiene a tal proposito la S.C. (Cass. Civ. 18 agosto 2005 n. 16975) che norma di riferimento ed applicabile sarà quella contenuta nell’art. 63 disp. att. c.c., argomentando dal fatto che, giusta il disposto di cui all'art. 1139 cod. civ., la disciplina dettata in tema di comunione si applica (anche) al condominio solamente in mancanza di norme che (come appunto il citato art. 63) specificamente lo regolano.
A nulla rileva, afferma la stessa Corte, il fatto che la norma citata sia inserita tra le disposizioni di attuazione del codice civile e non direttamente in quest'ultimo.
Ciò perché l'interpretazione logica dell'art. 1139 c.c. (norma che rimanda alle disposizioni sulla comunione per quanto non espressamente previsto da quelle sul condominio) induce a ritenere il rinvio esteso a tutte le norme specificamente dettate in tema di condominio e, quindi, anche a quelle dettate in materia da disposizioni di attuazione del codice civile, sia perché non esiste una gerarchia tra le norme del codice civile e quelle di attuazione di esso sia perché, comunque, non è ravvisabile alcun contrasto tra la disposizione dell'art. 1123 cod. civ., posta in via generale con riferimento al contenuto dell'obbligo contributivo previsto a carico dei condomini e l'art. 63, co. 2°, disp. att. cod. civ., che prevede l'obbligo solidale dal cessionario, circoscrivendolo nel tempo.
Tuttavia, la stessa Corte di Cassazione, Sez.. II Civile , con successiva sentenza del 10 aprile 2013 n. 8782, ha precisato che occorre distinguere due tipi di rapporto, ossia:

1. rapporto intercorrente tra il condominio ed i soggetti che si succedono nella proprietà di una singola unità immobiliare: nell’alveo di tale rapporto, l'acquirente di un'unità immobiliare condominiale può essere chiamato a rispondere dei debiti condominiali del suo dante causa, solidalmente con lui, ma non al suo posto;
2. rapporto tra alienante e acquirente, in relazione al quale, e salvo che non sia diversamente convenuto tra le parti (ossia al momento della stesura del rogito notarile il venditore può obbligarsi a sollevare l’acquirente da ogni responsabilità per i debiti sorti prima della cessione), è operante il principio generale della personalità delle obbligazioni, con la conseguenza che l'acquirente dell'unità immobiliare risponde soltanto delle obbligazioni condominiali sorte in epoca successiva al momento in cui, acquistandola, è divenuto condomino e se, in virtù del principio dell'ambulatorietà passiva di tali obbligazioni, sia stato chiamato a rispondere delle obbligazioni condominiali sorte in epoca anteriore, ha diritto a rivalersi nei confronti del suo dante causa.

Ma la pratica giudiziaria si è trovata anche ad affrontare un problema analogo a quello posto dal caso in esame, ossia di vendita di un'unità immobiliare posta in un condominio, nel quale siano stati deliberati lavori di manutenzione o di ristrutturazione (o altri interventi equiparabili) poco prima della stipula dell’atto di vendita.
Ci si è così chiesto chi sia tenuto, tra alienante ed acquirente, a sopportare le relative spese, in mancanza di accordo fra le parti, e quale sia il momento determinante da individuare per la concreta insorgenza del relativo obbligo.

Due sono stati gli orientamenti formatisi al riguardo, di segno del tutto contrapposto, e precisamente:
a) secondo un primo orientamento (maggiormente risalente nel tempo), nel caso di alienazione di un appartamento ricompreso in condominio, obbligato al pagamento dei contributi condominiali deve ritenersi colui che risulta proprietario nel momento in cui la spesa viene deliberata (cfr. Cass. 5 novembre 1992, n. 11981; Cass. 26 ottobre 1996, n. 9366, e Cass. 2 febbraio 1997, n. 4393);
b) secondo un altro orientamento (ribadito anche in tempi più recenti), l'obbligazione di ciascun condomino di contribuire alle spese per la conservazione dei beni comuni nasce nel momento in cui è necessario eseguire le relative opere, mentre la delibera dell'assemblea di approvazione della spesa, che ha la funzione di autorizzarla, rende semplicemente liquido il debito di cui in sede di ripartizione viene determinata la quota a carico di ciascun condomino.
Ciò comporta che, in caso di compravendita di un'unità immobiliare posta in edificio soggetto al regime del condominio, è tenuto alla spesa colui che è condomino al momento in cui si rende necessario effettuare la spesa (cfr. la cit. Cass. 17 maggio 1997, n. 4393; Cass. 18 aprile 2003, n. 6323, e Cass. 1 luglio 2004, n. 12013).

La stessa S.C. Sezione II Civile, con sentenza n. 24654 del 2010, ha prospettato una soluzione per così dire intermedia della problematica, fondata piuttosto su principi logici di ordine sistematico.
Secondo quest’ultima pronuncia, riconosciuta la natura "propter rem" delle obbligazioni condominiali, la risoluzione della "quaestio iuris" proposta è da ricollegare alla diversa natura della spesa al quale il singolo condomino è tenuto a contribuire, dovendosi distinguere tra spese necessarie relative alla manutenzione ordinaria e spese attinenti ad interventi comportanti innovazioni o, comunque, di straordinaria amministrazione.

Sulla base di tale distinzione si è pervenuti ad affermare il principio di diritto secondo cui "in caso di vendita di una unità immobiliare in condominio, nel quale siano stati deliberati lavori di straordinaria manutenzione, ristrutturazione o innovazioni sulle parti comuni, ed in mancanza di diverso accordo tra venditore e compratore in ordine alla ripartizione delle relative spese, obbligato a sopportarne i costi sarà chi risultava proprietario dell'immobile al momento della delibera assembleare che abbia disposto l'esecuzione dei detti interventi, avendo tale delibera valore costitutivo della relativa obbligazione.
Di conseguenza, ove le spese in questione siano state deliberate antecedentemente alla stipulazione del contratto di vendita, ne risponde il venditore, a nulla rilevando che le opere siano state, in tutto o in parte, eseguite successivamente, mentre l'acquirente avrà diritto di rivalersi nei confronti del venditore-proprietario originario di quanto pagato al condominio per tali spese in forza del principio di solidarietà passiva di cui all'art. 63 disp. att. cod. civ
.".

Se questo è il criterio di ripartizione generale in caso di vendita di un immobile appartenente ad un complesso condominiale, deve, tuttavia, rimarcarsi che è da ritenersi valida, nei rapporti interni tra venditore e compratore, la previsione di una diversa pattuizione adottata tra alienante ed acquirente nel contratto di compravendita, volta a far ricadere sull'uno o sull'altro l'onere per le spese condominiali relative a lavori di straordinaria manutenzione deliberate ed ancora da eseguire, pattuizione che comunque avrà una efficacia puramente interna nei rapporti tra le parti e non esterna nei confronti del condominio.

Mario R. chiede
lunedì 30/05/2016 - Lombardia
“Mia figlia Valeria R.,domiciliata a M. di B.,dove vive
con il marito e svolge la propria attività lavorativa,risiede ufficialmente a S.-frazione di L. (Novara), dove in una vecchia palazzina a poche decine di metri dalla sua abitazione è ubicato un garage,di sua proprietà,sovrastato da un appartamento avente la medesima metratura .
Il proprietario di detto appartamento intende rifare il tetto e ristrutturare i muri portanti per una spesa complessiva di euro 40000,00(quarantamila/00), che,a suo dire, dovrebbe essere divisa a metà.
In questo momento mia figlia,che cinque mesi fa è diventata madre di un bambino, non ha la possibilità economica di aderire a tale richiesta. E' comunque corretta la pretesa di dividere al 50% le spese ?
Distinti saluti.


Consulenza legale i 06/06/2016
Dal quesito non risulta chiaro, in realtà, se il garage e l’appartamento che insiste sul primo, da ristrutturare limitatamente a muri e tetto, siano le uniche unità immobiliari della vecchia palazzina di cui si parla.

Se così non fosse, evidentemente, ci troveremmo di fronte ad un caso di condominio negli edifici di cui agli articoli 1117 e seguenti del codice civile, la cui disciplina, com’è noto - relativamente alla ripartizione delle spese e delle maggioranze assembleari necessarie alla loro specifica approvazione – è piuttosto articolata e diversificata a seconda dell’oggetto degli interventi da eseguire.

Parrebbe logico ritenere, tuttavia, che le due unità immobiliari di cui al quesito siano le sole della palazzina e che ci si trovi di fronte, quindi, ad un caso di “condominio minimo”, ovvero un condominio composto da due soli partecipanti.

Anche in un caso come questo, in forza del prevalente orientamento della Corte di Cassazione sul punto, si applicano alla fattispecie le norme sul condominio negli edifici di cui all’art. 1117 e seguenti cod. civ., salvo l’art. 1136 cod. civ. sulle maggioranze qualificate in assemblea; infatti, quando i partecipanti alla comunione siano solamente due, si applicano gli articoli 1104 e 1105 cod. civ., e la regola è quella della decisione all’unanimità.

Si citano, a tal proposito, le Sezioni Unite della Cassazione n. 2046 del 31 gennaio 2006: “La disciplina dettata dal codice civile per il condominio di edifici trova applicazione anche in caso di condominio minimo, cioè di condominio composto da due soli partecipanti, tanto con riguardo alle disposizioni che regolamentano la sua organizzazione interna, non rappresentando un ostacolo l'impossibilità di applicare, in tema di funzionamento dell'assemblea, il principio maggioritario, atteso che nessuna norma vieta che le decisioni vengano assunte con un criterio diverso, nella specie all'unanimità, quanto, “a fortiori”con riferimento alle norme che regolamentano le situazioni soggettive dei partecipanti, tra cui quella che disciplina il diritto al rimborso delle spese fatte per la conservazione delle cose comuni” e Cassazione civile, sez. II, 22 giugno 2005, n. 13371: “In base all'art. 1139 c.c., la disciplina del capo II del Titolo VII del terzo libro del c.c. (art. 1117 - 1138) è applicabile ad ogni tipo di condominio e, quindi, anche, ai cosiddetti "condomini minimi", e cioè a quelle collettività condominiali composte da due soli partecipanti, in relazione alle quali sono da ritenersi inapplicabili le sole norme procedimentali sul funzionamento dell'assemblea condominiale, che resta regolato, dunque, dagli art. 1104, 1105, 1106 c.c. (Nella specie è stata confermata la sentenza che, con riferimento alla ripartizione delle spese necessarie alla conservazione dell'edificio condominiale, aveva ritenuto applicabile la disciplina dettata in materia di condominio, anche se lo stesso era composto da due soli partecipanti)”.

In base a quanto sopra, il condomino non può sottrarsi alle spese necessarie alla conservazione ed all’uso della cosa comune: qualora, quindi, nel caso concreto in esame, gli interventi di ristrutturazione siano indispensabili e/o urgenti, la proprietaria del garage non potrà opporsi agli stessi e dovrà sostenerne la spesa nella misura del 50%, come pretende il vicino, ai sensi dell’art. 1101 cod. civ (“Le quote dei partecipanti alla comunione si presumono eguali. Il concorso dei partecipanti, tanto nei vantaggi quanto nei pesi della comunione, è in proporzione delle rispettive quote”).

Nella particolare ipotesi di condominio composto da due soli partecipanti le decisioni per la conservazione o riparazione della cosa comune devono essere tuttavia oggetto di regolare delibera, adottata previa rituale convocazione dell’assemblea dei condomini, della quale non costituisce valido equipollente il mero avvertimento o la mera comunicazione all’altro condomino della necessità di procedere a determinati lavori , benché urgenti ed indifferibili.

Qualora la delibera non possa essere adottata, perché non è possibile raggiungere una maggioranza o, come appunto nel condominio minimo, manca il consenso di entrambi i partecipanti alla comunione, il condomino che voglia eseguire i lavori o ripartire le spese in un determinato modo potrà e dovrà ricorrere all’Autorità Giudiziaria, ai sensi dell’articoli 1105 cod.civ., il quale recita: “Tutti i partecipanti hanno diritto di concorrere nell'amministrazione della cosa comune. Per gli atti di ordinaria amministrazione le deliberazioni della maggioranza dei partecipanti, calcolata secondo il valore delle loro quote, sono obbligatorie per la minoranza dissenziente. Per la validità delle deliberazioni della maggioranza si richiede che tutti i partecipanti siano stati preventivamente informati dell'oggetto della deliberazione.
Se non si prendono i provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune o non si forma una maggioranza, ovvero se la deliberazione adottata non viene eseguita, ciascun partecipante può ricorrere all'autorità giudiziaria. Questa provvede in camera di consiglio e può anche nominare un amministratore”.

La norma prevede, nei casi elencati, un intervento del Giudice in sede non contenziosa (nel senso che non si tratterà di promuovere una causa per la risoluzione di una controversia) ma in sede di “volontaria giurisdizione”: quest’ultima riguarda i casi in cui al Giudice viene richiesta l’adozione di un determinato provvedimento per regolare una situazione che altrimenti i privati non potrebbero gestire in autonomia (a titolo di esempio, sono atti di volontaria giurisdizione la nomina di un amministratore di sostegno, la legittimazione di un figlio, la rinuncia all’eredità, ecc.).

Il Giudice, in questi casi, può scegliere di assumere due tipi di provvedimenti: o un provvedimento diretto, il cui contenuto sostituisce integralmente la volontà dei condomini (ad esempio può nominare un tecnico affinché perizi l'immobile e decida se gli interventi sono urgenti o che tipo di intervento vada effettuato); oppure un provvedimento indiretto, quando nomina un amministratore giudiziario, figura speciale il cui mandato, ovviamente, deriva dal Giudice e non dall'assemblea e che quindi ha i poteri necessari per eseguire atti finalizzati alla soluzione dei problemi sollevati dai condomini.

Giacomo M. chiede
sabato 17/10/2015 - Lombardia
“Buonasera,
sono ancora io, voglio chiedere: posso dopo un anno chiedere la revoca dell' amm. giudiziario riconfermato dal tribunale per decreto, quando egli aveva presentato le dimissioni irrevocabili davanti al Giudice su mia richiesta di revoca. Preciso che questo signore è in carica da 14 anni è sebbene il tribunale le avesse conferito il potere di avvalersi di decreti, non ha mai fatto nulla,solo due assemblee, sfociate in insulti, minacce e maldicenze nei miei confronti. Tanto da formare contro la mia volontà un comitato di tre dei maggiori oppositori,che avevano ribadito la netta volontà di non spendere e di non pagarlo. Ho chiesto la revoca, ma il tribunale l'ha respinta motivando che: sostanzialmente aveva fatto il suo dovere, come un buon padre di famiglia. L'anno scorso lo ha riconfermato con l'incarico di eseguire i lavori dopo che sono state anticipate le spese. Non aggiungo altro, ma dico, dopo che l'amm. ha ribadito che la strada versa in uno stato di carente manutenzione. Dopo che il comune ha emesso un'ordinanza sindacale,poi ritirata, su pressione della controparte, ove si affermava la pericolosità della strada al transito di pedoni e ciclisti. Mi chiedo, dopo aver mostrato ai Giudici, foto fatture di quello che spendo per manutentarne solo un quarto, non si rendono conto che viene meno ciò che recita l'art.1102 del cc, e la dignità delle persone non si può continuamente offendere,anche perchè la strada è vicinale sì, ma non è proprietà di nessuno, ed è posta attorno a mura antiche e sito unesco, e si legge nelle cronache che il DUCA Vespasiano Gonzaga era molto severo con chi rompeva sporcava e non aggiustava le viam vicinalem.
Grazie.”
Consulenza legale i 20/10/2015
Il quesito proposto segue a quelli n. 12789 e 13191, in cui si è già chiarita la situazione giuridica e i possibili rimedi.

Ora ci si domanda se e come sia possibile chiedere la revoca dell'amministratore giudiziario di una comunione.
Va premesso che sembra preferibile la tesi dottrinale per cui, anche se la nomina è giudiziale, i partecipanti alla comunione possano comunque revocare l'amministratore, visto che mantengono pur sempre la pienezza dei poteri di amministrazione della cosa comune.

Le norme da consultare sono l'art. 1106 del c.c. e gli articoli 1723-1725 in tema di mandato.

L'art. 1106, in realtà, nulla dice sulla revoca dell'amministratore, bensì stabilisce che l'amministrazione del bene comune può essere delegata ad uno o più partecipanti, o anche a un estraneo, determinandosi i poteri e gli obblighi dell'amministratore.
Si ritiene comunemente che l'amministratore della comunione sia un mandatario, per questo trovano applicazione le norme poco sopra richiamate, che prevedono i casi di revoca del mandato.

Innanzitutto, il mandante può di regola revocare il mandato: nel nostro caso, i partecipanti alla comunione possono revocare l'amministratore mediante un voto a maggioranza qualificata (art. 1108 del c.c.).
Solo il mandato conferito anche nell'interesse del mandatario o di terzi non si estingue per revoca da parte del mandante, salvo che sia diversamente stabilito o ricorra una giusta causa di revoca (art. 1723), ma non ci sembra questo il nostro caso.

Altro caso di revoca, previsto dall'art. 1724 del c.c., è quello che consegue alla nomina di un nuovo mandatario per lo stesso affare. Anche il compimento dell'affare da parte del mandante importa revoca del mandato. La revoca risulterà effettiva dal giorno in cui sono stati comunicati al mandatario la nuova nomina o il fatto che i suoi compiti saranno svolti dal mandante stesso. Purtroppo, anche per giungere a ciò, nel caso di specie serve una delibera della maggioranza dei partecipanti alla comunione.

Appare chiaro, quindi, che nel caso in esame l'unico modo per ottenere - da parte di un solo partecipante alla comunione - la revoca giudiziale dell'amministratore sia quello di provare che questi risulta inadempiente ai suoi doveri.
Più propriamente, l'azione sarà diretta ad ottenere la risoluzione del rapporto, con eventuale richiesta di risarcimento dei danni, se il mandatario ne ha cagionati alla comunione.
Poiché il rapporto di mandato è il tipico rapporto intuitus personae, in cui i principi generali di diligenza e buona fede costituiscono i parametri di riferimento per valutare la conformità delle condotte del mandatario ai principi generali e alle statuizioni contrattuali, si deve analizzare la questione dell'esattezza delle prestazioni svolte.
La dottrina ha precisato che questo problema va inquadrato nell'ambito dei principi generali in tema di esatto adempimento (artt. 1181 e 1218 c.c.), e che comunque sussiste una facoltà del mandatario di discostarsi, in certi casi, dalle istruzioni impartite dal mandante, con discrezionalità e autonomia. Se, poi, non esistono istruzioni estremamente analitiche e precise, il mandatario dovrà essere giudicato solo in base al criterio della diligenza del buon padre di famiglia (art. 1713 del c.c.).

Nel quesito si precisa che l'amministratore aveva presentato dimissioni irrevocabili: tuttavia, anche se tale recesso unilaterale fosse stato validamente esercitato, il successivo decreto di nomina da parte del Tribunale avrebbe dato corso ad un nuovo incarico, di fatto rendendo irrilevante che in precedenza l'amministratore aveva rinunziato al mandato.
Per poter dare una risposta più precisa si dovrebbero leggere tutti gli atti del procedimento di nomina dell'amministratore.

Giacomo M. chiede
domenica 17/05/2015 - Lombardia
“buonasera,
nel Vostro parere al mio quesito, con risposta ricevuta in data 24 /4 mi sono sorti tre dubbi che col Vostro aiuto desidererei chiarire. Alla nota 1 art.1104 cc. Voi affermate, le spese necessarie alla conservazione sono quelle che mirano a che la cosa non sia distrutta o deteriorata (Cosa che nel mio caso è avvenuta). Le spese per il godimento, invece, sono rivolte all'ordinaria utilizzazione del bene. La norma esclude le spese utili o voluttarie: la partecipazione diviene necessaria solo nel caso in cui si sia pronunciata la maggioranza o l'unanimità dei conpartecipanti cosa impossibile.
1°cosa serve un amm. nominato dal tribunale, quando le spese per la conservazione, e utilizzo del bene secondo le necessità di ognuno, devono essere anticipate dalla maggioranza, che non sarà mai possibile raggiungere.
2°se io contraggo un debito, per sistemarla, avrò la certezza del rimborso
3°il sindaco definendo la strada, inscritta nell'elenco delle strade vicinali del comune,che porta alla mia abitazione, emettendo prima un'ordinanza sindacale di ripristino, poi ritirarla perchè i frontisti non residenti hanno sostenuto che la strada non presenta ostacoli alla percorrenza dei loro mezzi,ostacoli che rappresenta per pedoni e ciclisti. definendola semplice carraia di campagna, il sindaco non è incorso nella fattispecie di reato dell'art 392 cp. esercizio arbitrario delle proprie ragioni,favorendo gli interessi dei privati frontisti, non propretari della strada a danno della comunità?”
Consulenza legale i 05/06/2015
L'art. 1104 c.c. stabilisce che, in caso di bene comune a più comproprietari, ciascun partecipante deve contribuire nelle spese necessarie per la conservazione e per il godimento della cosa comune, nonché nelle spese deliberate dalla maggioranza a norma delle disposizioni del codice civile.
Si stabilisce, quindi, un obbligo di pagare le spese di conservazione e godimento, intese come spese di manutenzione ordinaria del bene, oltre a quelle spese che ha deliberato la maggioranza (anche spese voluttuarie e innovazioni, come la decisione di abbellire la cosa comune o installare nuovi impianti, etc.).

Il problema, nel caso di specie, è individuare quali spese possano considerarsi "necessarie per la conservazione" e quindi possano essere poste in capo a tutti i comproprietari. Purtroppo la strada ha un utilizzo promiscuo, ma la maggioranza dei partecipanti la utilizza per il passaggio di mezzi agricoli e non di normali autovetture: quindi, anche se la stradina è un po' sconnessa, a questi soggetti non interessa rispristinare il manto stradale.
Sfortunatamente, il tribunale è già stato adito e ha già sancito che i soldi per la manutenzione devono essere anticipati dai soli comunisti consenzienti.
La nomina di un amministratore, in questa situazione di profondo disaccordo tra i partecipanti alla comunione, sarebbe probabilmente priva di effetto. L'amministratore, infatti, non ha il potere di imporre alcuna decisione ai comunisti, ma ha solo l'incarico di gestire il bene comune secondo le disposizioni date dai proprietari. La sua posizione giuridica si ricava dalla sostanza della delega, atto con cui viene conferito l'incarico da parte dei comunisti.
Si ritiene, pertanto, priva di effetti pratici la richiesta di un altro amministratore, visto anche che in passato chi fu nominato non è riuscito a risolvere la situazione.

La seconda domanda attiene alla possibilità del comunista che anticipi delle somme per la manutenzione di ottenerne il rimborso. Ciò va certamente escluso per le opere che devono essere deliberate dalla maggioranza, cioè per le spese di tipo straordinario.
Quanto alla manutenzione ordinaria, sussiste invece l'obbligo dei partecipanti a corrispondere la rispettiva quota di spese, che si configura come una obbligazione propter rem, cioè che nasce dal solo fatto di essere proprietari del bene. L'art. 1110 del c.c. stabilisce che il partecipante che, in caso di trascuranza degli altri partecipanti o dell'amministratore, ha sostenuto spese necessarie per la conservazione della cosa comune, ha diritto al rimborso.
Nel caso di specie, quindi, vi sarebbe diritto a un rimborso ma, non esistendo un regolamento o un accordo tra le parti, si dovrebbe iniziare una autonoma causa in cui si dovrà accertare:
- che la spesa sostenuta è di tipo "conservativo" (e qui le controparti potrebbero eccepire che la spesa era invece di altro tipo);
- le quote di partecipazione alla spesa di ciascun partecipante.
Non si può quindi affermare con certezza che si potrà ottenere un rimborso delle spese anticipate, perché ciò dipende dall'esito di questo nuovo processo.

Infine, in merito alla terza domanda, si precisa che il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose punisce chiunque, al fine di esercitare un preteso diritto, potendo ricorrere al giudice, si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo, mediante violenza sulle cose (art. 392 del c.p.).
Il reato non è certamente configurabile nel caso di specie. Il sindaco non ha esercitato un diritto che poteva tutelare ricorrendo ad un giudice, ma ha emanato, nell'ambito dei suoi poteri, una ordinanza di classificazione della strada come "carraia di campagna". Inoltre, risulta assolutamente assente il requisito della violenza sulle cose.
Piuttosto, contro l'ordinanza si potranno eventualmente esperire i normali rimedi amministrativi, se il cittadino ritiene che sia stato leso un suo interesse legittimo e se non sono spirati i termini di legge.

Giacomo M. chiede
sabato 04/04/2015 - Lombardia
“Buongiorno.
Risiedo in una strada vicinale,catastalmente rappresentata in mappa come pubblica, inscritta nell'elenco delle strade vicinali del comune,strada storica.aperta al transito quando possibile alla generalità dei cittadini,pedoni e ciclisti,collegando la medesima una strada provinciale con una comunale, nel sottosuolo vi sono interrate le tubature del metano che riforniscono le frazioni. Dai rogiti non figura proprietà dei terreni frontalieri. Essendo l'unico residente contro 22 proprietari terrieri non è stato possibile consorziarla, nè sindaci nè prefetto si sono interessati. ho fatto nominare 14 anni fa dal tribunale un amm.poi revocato poi rinominati altri, che non hanno mai esercitato il loro mandato. La questione è questa:la strada non rappresenta ostacoli alla percorrenza dei loro mezzi agricoli, ma li rappresenta a me come residente di una abitazione civile ex rurale,essendo essa continuamente deteriorata e semidistrutta. io spendo molti soldi per poterla minimamente renderla un po percorribile. IL tribunale dice che i soldi per la manutenzione devono essere anticipati dai soli comunisti consenzienti (che sono il solo) e fino ad ora ne ha spesi tanti ,senza avere nessun rimborso. Ho speso molti soldi in avvocati ,che non hanno saputo risolvere la questione, anche perchè il tribunale non ha imposto un regolamento d'uso, e la percorrenza non è uguale fra tutti i frontalieri
Voi come vedete la situazione, spero diversa del sindaco, che non può farci niente se gli utenti frontalieri agricoli la pensano diversamente da me, nonostante che più di 100 cittadini hanno chiesto di poter percorrere la strada in sicurezza.
Grazie.”
Consulenza legale i 29/04/2015
Purtroppo tutte le soluzioni che avremmo potuto proporre sono già state percorse, con esito negativo.
Si è già cercato di nominare un amministratore della strada ed anche di far approvare un regolamento d'uso (art. 1106 del c.c.): il problema è che manca la volontà dei comunisti di arrivare ad una soluzione della controversia.

La stessa ragione sta anche alla base dell'impossibilità di creare un consorzio ai sensi dell'art. 1 del d.lgs.lgt. 1.9.1918 n. 1446, in quanto tale consorzio è facoltativo ("Gli utenti delle strade vicinali, anche se non soggette a pubblico transito, possono costituirsi in Consorzio per la manutenzione e la sistemazione o ricostruzione di esse").

L'unica norma che potrebbe essere utile nel caso di specie è l'art. 3 del citato decreto, il quale recita: "Il Comune è tenuto a concorrere nella spesa di manutenzione, sistemazione e ricostruzione delle strade vicinali soggette al pubblico transito in misura variabile da un quinto sino alla metà della spesa, secondo la diversa importanza delle strade".

La legge, quindi, prevede che anche il Comune debba contribuire alle spese di manutenzione delle strade vicinali, quando esse risultano aperte al pubblico transito.

La definizione di uso pubblico di una strada vicinale privata si può desumere dalle parole della giurisprudenza: "Se una strada può essere percorsa indistintamente da tutti i cittadini per una molteplicità di usi e con una pluralità di mezzi non può essere negata la presenza del pubblico transito solo perché materialmente la strada si presenta disagevole in alcuni tratti e poco frequentata nel complesso. L'uso pubblico, assimilabile a una servitù collettiva, legittima i comuni a introdurre alcune limitazioni al traffico, ad esempio vietando l'uso di alcuni mezzi (specie di quelli molto impattanti) in modo continuativo o in particolari periodi, come per il resto della viabilità comunale. L'apposizione di limiti e divieti non fa venire meno la caratteristica del pubblico transito" (T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. I, dell'11 novembre 2008, n. 1602).

Si possono così riassumere gli elementi da cui può desumersi l'uso pubblico:
- le condizioni effettive della via, che dimostrino la condizione del cosiddetto "generale passaggio", direttamente collegato e non limitato da vincoli di proprietà o condominio, ed esercitato da una collettività indeterminata di persone in assenza di restrizioni all'accesso;
- la concreta idoneità della strada a soddisfare – attraverso il collegamento anche indiretto alla pubblica via – esigenze di interesse generale;
- la sussistenza di titoli validi ad affermare il diritto di uso pubblico, identificabili anche nella protrazione dell'uso stesso da "tempo immemorabile";
- l'effettuazione di interventi di manutenzione della via o l'installazione sopra o sotto di essa di infrastrutture di servizio da parte dell'ente pubblico.

Con questa argomentazione si può tentare di far ragionare il Comune sulla necessità di contribuire alla manutenzione della strada.

Si precisa, però, che secondo il Consiglio di Stato (decisione n. 2584 del 23.5.2005) per le strade vicinali, in quanto non di proprietà degli enti pubblici e soggette ad uso pubblico, si prescrive che la riparazione e conservazione "sta a carico di quelli che ne fanno uso per recarsi alle loro proprietà, sia che queste si trovino e no contigue alle strade stesse". L'ente pubblico, secondo questo orientamento, avrebbe l'obbligo di concorrere alle spese solo se sia costituito il consorzio per la manutenzione della strada vicinale.

CRISTINA G. chiede
lunedì 28/04/2014 - Piemonte
“Buongiorno, vivo in un condominio composto da 5 villette a schiera. Nel nostro condominio abbiamo avuto problemi con la fognatura: si sono verificate alcune perdite d'acqua nella stradina condominiale che conduce alle 5 villette. Un condomino, motivando di voler risparmiare, dopo aver chiamato un'azienda per lo spurgo (che non è riuscita a fare il lavoro) si è preso il mal di pancia di scavare e provare a spurgare personalmente le fognature, senza alcun risultato. Alla sua domanda su cosa fare, dopo aver distrutto interamente il giardino condominiale a causa dei suoi scavi con la zappa, mi sono permessa di consigliare di richiamare lo spurgo, per verificare se ora, con tutte le tubazioni libere ed aperte (ed il giardino distrutto) sarebbero riusciti a risolverci il problema. Inizialmente questo condomino dice di voler fare esattamente come gli ho consigliato, ma poi, improvvisamente e senza preavvisi, due giorni dopo, mi manda un sms con scritto che lui ed un suo amico muratore (che ovviamente si farà pagare salatamente) stanno trivellando e cambieranno le tubazioni in quanto ce n'è almeno una rotta (da loro o già da prima ? questo non lo sapremo mai!), invitandomi a non usare l'acqua da quel momento per 5 ore consecutive (era un sabato mattina alle 0830, noi siamo una famiglia di 4 persone e ripeto, non eravamo stati avvisati prima). Io mi chiedo, al di là della spesa folle che dovrò affrontare, se questo signore aveva il diritto di procedere (senza essere in grado di dimostrarmi che il tubo della fognatura fosse rotto già da prima) ad effettuare il lavoro con un muratore suo amico (quindi ovviamente scelto da lui) e senza assolutamente nessun preavviso (con il danno recato ad un'intera famiglia che il sabato mattina non può usare l'acqua nè per lavarsi, nè per andare in bagno). Voglio sottolineare che il problema recato dalle nostre fognature non era un problema "urgentissimo" in quanto non gravava sulle condizioni degli alloggi nè degli scarichi condominiali ma, semplicemente creava fuori uscita di acqua sulla stradina condominiale (e solo saltuariamente, una volta ogni tanto). Ritengo dunque che non possa essere considerato un lavoro urgente (era da mesi che sulla stradina compariva acqua). Un'altra riflessione che tengo ad aggiungere, riguarda il fatto della tubazione rotta; prima che io mi arrabbiassi quel sabato mattina, nessuno mi aveva informato che ci fosse una tubazione rotta. Aggiungo altresì che durante i lavori, il muratore ed il vicino hanno trivellato accanto ai miei fili telefonici, causando (telefonata alla telecom di venti minuti a comprova) vibrazioni che hanno improvvisamente fatto saltare la copertura e la configurazione adsl di casa mia, ripristinata, appunto, dopo l'intervento telecom, circa mezz'ora dopo. Il vicino, inoltre, vedendomi rabbiosa sia per la mancanza d'acqua, quanto per i lavori, che per l'adsl saltata, si è preso la libertà di urlarmi contro dandomi della pazza, malata ed esaurita (non solo offendendomi, ma anche incutendo terrore ai miei figli presenti, con un modo di fare che solo l'ignoranza può giustificare). Augurandomi di essere stata esaustiva, resto in attesa di un Vs cortese riscontro, cogliendo l'occasione per porgere cordiali saluti.”
Consulenza legale i 03/05/2014
Il codice civile prevede all'art. 1134 del c.c. la disciplina della "gestione di iniziativa individuale" di parti comuni del complesso condominiale. La nuova formulazione dell'articolo, introdotta dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220, sancisce: "Il condomino che ha assunto la gestione delle parti comuni senza autorizzazione dell'amministratore o dell'assemblea non ha diritto al rimborso, salvo che si tratti di spesa urgente".
"Urgenti" sono solo le spese che non possono essere differite senza che da ciò ne discenda un danno per il condominio. La giurisprudenza ha chiarito che per "opere urgenti" devono intendersi "quelle che, secondo il criterio del buon padre di famiglia, appaiano indifferibili allo scopo di evitare un possibile, anche se non certo, nocumento alla cosa comune (Cass., Sez. II, 6.12.1984, n. 6400; Cass., Sez. II, 26.3.2001, n. 4364), l'urgenza dovendo essere commisurata alla necessità di evitare che la cosa comune arrechi a sé o a terzi o alla stabilità dell'edificio un danno ragionevolmente imminente, ovvero alla necessità di restituire alla cosa comune la sua piena ed effettiva funzionalità" (Cass., Sez. II, 19.12.2011, n. 27519).
Ad esempio, la Cassazione, con sentenza del 12.8.2011, n. 17236, ha ritenuto urgente la spesa inerente alla riparazione del tetto comune da cui filtrava acqua in caso di maltempo. Nello stesso senso, anche la pronuncia della Suprema Corte, sez. II, 4.6–23.7.2013, n. 17882, che ha confermato la sentenza che decretava l'urgenza di lavori effettuati da un condomino sul tetto, che si trovava in condizioni di evidente degrado.
Sono state escluse, invece, le spese finalizzate al mero abbellimento della cosa comune (Cass. civ., sez. II, sentenza 03.09.2013, n. 20151), nonché la spesa affrontata dal titolare esclusivo di un lastrico solare, in quanto già deliberata dall'assemblea condominiale e comunque non indifferibile (Cass. civ., 19.3.2012, n. 4330).
Inoltre, è importante sottolineare che compete al condomino dimostrare che sussisteva l'urgenza, ossia la necessità di eseguire l'opera senza ritardo (tra le molte, v. Cass. n. 9743/2010). Ciò implica che se il condomino non possa provare la causa del suo intervento presuntivamente urgente (ad esempio l'esistenza di una tubazione rotta), nessun rimborso gli sarà dovuto.

Nel caso di specie, quindi, poiché appare evidente che l'intervento posto in essere da uno dei condomini (peraltro, in maniera ben poco ortodossa, visto che lo stesso non aveva le competenze per svolgere quel tipo di opere) non era connotato dall'urgenza, egli non avrà diritto ad alcun rimborso. Anzi.
L'attività posta in atto dal condomino ha provocato danni economicamente valutabili ad altri condomini, quali l'interruzione temporanea della fornitura d'acqua e della linea telefonica. Pertanto, è possibile ipotizzare una domanda di risarcimento del danno, che appare particolarmente grave per quanto concerne l'impedimento dell'utilizzo dell'acqua per diverse ore e senza alcun preavviso. In una causa di risarcimento danni, peraltro, dovrà essere il danneggiato a dare prova del pregiudizio subito.

Quanto alle offese rivolte alla condomina che ha disapprovato i lavori solo presuntivamente urgenti, se l'entità delle stesse è particolarmente grave, si può configurare il reato di ingiuria (art. 594 del c.p.). Il delitto di ingiuria è perseguibile a querela della persona offesa; la proposizione della querela deve avvenire entro tre mesi, che decorrono dal giorno in cui si ha avuto notizia del fatto che costituisce reato (di regola, dal momento dell'offesa).

Maria chiede
sabato 15/01/2011

“L'articolo non mi è chiaro... rinuncio al mio diritto sulle cose comuni ma devo pagare lo stesso le spese?”

Consulenza legale i 20/01/2011

L'art. 1104 del c.c. sancisce la possibilità per il comunista di rinunziare a suoi diritti su cose comuni, per le quali debbano essere sostenute delle spese, risultando così da esse (almeno in parte) liberato.
Un esempio molto chiaro è quello del condomino che rinunci unilateralmente al riscaldamento condominiale, mediante il distacco del proprio impianto dalle diramazioni dell'impianto centralizzato, senza necessità di autorizzazione o di accettazione da parte degli altri partecipanti (sempre che da tale distacco non derivino aggravi di spese per coloro che continuano a fruire del riscaldamento centrale, o squilibri termici pregiudizievoli per l'erogazione del servizio, cfr. Cass. civ., sez. II, 25 marzo 2004 n. 5974). Il condomino sarà tenuto a versare ancora le spese per la conservazione dell'impianto, ma non quelle per la sua gestione.


N. C. chiede
martedì 05/04/2022 - Sicilia
“Buongiorno. Sono comproprietario per 1/4 di una strada privata per accedere in giardino, larga 5 metri e lunga 20,40. Strada che sbocca su strada del Comune. In questa strada possono accedere con le auto per entrare in giardino soltanto i proprietari dei fondi serventi,mentre proprietari dei fondi dominanti anche se comproprietari della strada, a fine strada hanno una servitù di passaggio a piedi larga 80 centimetri. Ora, uno dei proprietari di un fondo servente vorrebbe asfaltare tutta la strada ma facendo pagare la stessa somma anche ai comproprietari che non possono usufruire del passaggio con l'auto per accedere ai loro fondi. Visto che il passaggio con le auto influisce sulla maggiore usura dell'asfalto e sul costo della realizzazione della gettata dell'asfalto/ o calcestruzzo con rete elettrosaldata, come vanno ripartite le spese tra chi ne usufruisce con l'uso dell'auto e chi solo a piedi?Grazie”
Consulenza legale i 11/04/2022
Nel caso specifico trovano applicazione le norme sulla comunione e quelle sull’esercizio del diritto di servitù. I lavori di asfaltatura, infatti, nel loro complesso rientrano in quelle attività necessarie al mantenimento del bene comune, e quindi tutti i comproprietari della stradina ai sensi dell’art.1104 del c.c. devono partecipare alle spese, in proporzione alle rispettive quote di comproprietà, indipendentemente dal fatto che essi siano proprietari dei fondi dominanti o serventi.
Per quella parte dei lavori che specificatamente interessano la striscia di 80 cm gravata da servitù di passaggio pedonale e solo per quella parte, devono trovare applicazione, come già detto, le norme sulla servitù ed in particolare l’art. 1069 del c.c.
Tale norma come regola generale, pone a carico del proprietario del fondo dominante le opere necessarie per la conservazione della servitù. Il co. 3° del medesimo articolo pone una eccezione alla regola generale appena dettata nel caso in cui le opere da realizzarsi giovano anche ai proprietari del fondo servente: in questo caso, la spesa deve essere ripartita in proporzione ai rispettivi vantaggi.
Purtroppo quindi il codice civile come regola generale pone gli oneri riconducibili ai lavori che interessano la striscia di terreno di 80 cm, totalmente a carico dei proprietari dei fondi dominanti e non di quelli serventi. Nel caso specifico, però, potrebbe trovare applicazione il 3° co. dell’art. 1069 del c.c. che chiama a concorrere nelle spese di manutenzione ed esercizio della servitù, anche i proprietari dei fondi serventi, quando i lavori arrecano vantaggio anche al loro fondo. Secondo Cass. Civ. n.72 del 12.01.1976, quando il diritto di servitù si esercita solo per mezzo del fondo servente e senza l’ausilio di opere autonome (come in questo caso) ci è l’obbligo sì dei proprietari del fondo dominante di concorrere alle spese di manutenzione del fondo servente, ma solo in proporzione all’ uso che ne fanno.
In altri termini, attraverso tale principio dettato dalla suprema corte si potrebbe far accollare gli oneri di manutenzione della striscia di terreno di 80 cm quasi per intero ai proprietari dei fondi serventi, ma per la restante parte della strada opererebbe la regola generale di cui all’art.1104 del c.c. L’unico modo per non concorrere alle spese di manutenzione della stradina, sarebbe quella di rinunciare alle quote di comproprietà vantate su di essa, per mezzo di un rogito notarile.

Si precisa che si è reso il parere senza avere in visione il titolo che ha costituito la servitù di passaggio oggetto del quesito. Le norme che si sono descritte possono essere validamente derogate da clausole presenti nei rogiti di acquisto delle singole unità abitative-autorimesse oppure da un regolamento di condominio. Se, nel caso specifico, esistesse quindi un qualche rogito o regolamento che contenesse disposizioni in tutto o in parte derogatorie a quelle indicate, sarebbero tali clausole che prevarrebbero su quanto dispone il codice civile.


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