La riforma del 1975 ha cambiato radicalmente il panorama della
responsabilità genitoriale, assegnando a entrambi i genitori il diritto e il dovere di esercitarla. Questa modifica ha rispecchiato il principio di
uguaglianza tra uomini e donne, estendendo l'uguaglianza anche ai coniugi all'interno della
famiglia. In precedenza, viceversa, sebbene entrambi i genitori avessero una sorta di titolarità della responsabilità genitoriale, solo il padre aveva concretamente il diritto di esercitarla. La madre, d'altro canto, si occupava principalmente dei doveri nei confronti dei figli senza avere una voce diretta nelle decisioni riguardanti la famiglia.
Oggi, invece, fondamentale rilievo assume il principio di "
bigenitorialità", in virtù del quale non solo il figlio ha il diritto di mantenere legami significativi con entrambi i genitori e con il loro ramo di
parentela, ma anche i genitori stessi devono coordinarsi nelle scelte che concernono i figli, anche al di là dei loro eventuali conflitti interni.
Prima della Riforma del D. Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, il termine "
potestà" indicava l'assegnazione di un potere a un soggetto nei confronti di un altro, che si trovava quindi in una posizione di "soggezione". Tuttavia, "potestà" e "potere" non sono sinonimi, e la scelta della terminologia legislativa non è casuale. La potestà indicava che il suo titolare era investito di un'autorità, alla quale il figlio era sottoposto, e che veniva esercitata dai genitori per il bene e l'interesse della persona stessa. Con la menzionata riforma della
filiazione il termine "potestà" è stato sostituito da "
responsabilità" genitoriale, accentuando così la finalità dell'istituto, volto per l'appunto a salvaguardare gli interessi del minore, più che a garantire ai genitori l'esercizio di un potere di direttiva nei confronti della prole.
La "Riforma Cartabia", poi, ha innovato ulteriormente la disposizione in commento, prevedendo che, sia per il
trasferimento di residenza sia per la
scelta della scuola, anche prima della separazione dei genitori, sia sempre necessario ottenere il
consenso di entrambi i genitori. Nel caso in cui si verifichino contrasti su questioni di "particolare importanza," come la
residenza abituale del minore e la scelta dell'istituto scolastico, ciascun coniuge ha il diritto di rivolgersi al giudice per ottenere una decisione che tuteli il migliore interesse del minore e impedisca un blocco decisionale che potrebbe nuocere al benessere del bambino stesso. Non sarebbe accettabile, infatti, che uno dei genitori prendesse unilateralmente delle decisioni o informasse l'altro genitore solo successivamente riguardo alle sue scelte.
Le nuove disposizioni normative, peraltro, mirano a coordinare l'intervento del giudice, come previsto dalla norma in esame, con la modifica apportata all'
art. 145 del c.c., che prevede che, in caso di contrasto tra genitori (o, nel caso della norma richiamata, tra coniugi), il giudice cerchi inizialmente una
decisione concordata; solo in seguito, qualora non sia possibile raggiungere un accordo, adotterà la soluzione ritenuta più idonea per il bene del minore.
La norma in commento ha quindi subito una lenta evoluzione, passando attraverso le diverse riforme del diritto di famiglia; tutte, per certi aspetti, "epocali"; compresa l'ultima.
Mentre inizialmente il potere decisionale sui figli era concentrato nelle mani del pater familias, dopo la riforma del 2012/2013 il giudice era autorizzato a delegare la scelta al genitore ritenuto più adatto a proteggere l'interesse del minore. Questa soluzione, tesa a preservare il principio di parità tra i genitori, non è tuttavia risultata efficace nel garantire la tutela concreta del minore.
Oggi, la decisione spetta al giudice, nel caso in cui i genitori non riescano a concordare (e quindi non accolgano il suggerimento del giudice per la conciliazione) su questioni di particolare importanza.
Attualmente, l'impugnazione del provvedimento segue le norme stabilite per il rito unico delle persone, famiglia e minori.