Disposizioni contenute nell'art. 540 del vecchio codice e interpretazione data dalla dottrina al diritto del proprietario di un fondo di usare delle sorgenti esistenti nel fondo stesso. Secondo l'opinione prevalente per diritto d'uso doveva intendersi diritto di proprietà
L'art. 540 del vecchio codice annoverava tra le servitù legali quella relativa all'uso delle sorgenti, disponendo che chi avesse una sorgente nel suo fondo poteva usarne a piacimento, salvo il diritto che avesse acquistato il proprietario del fondo inferiore in forza di titolo o di prescrizione. La prescrizione si poteva avere solo per possesso trentennale, purché concorresse la circostanza di opere visibili e permanenti destinate a facilitare il declivio e il corso dell'acqua (art. 541).
Secondo la dottrina (
De Cupis), dando alle parole dell'art. 540 il proprio significato, non si poteva sostenere che esso affermasse la proprietà delle sorgenti, perché la locuzione «
diritto di godere e disporre delle cose nella maniera più assoluta », usata dall'art. 436 del vecchio codice per qualificare il diritto di proprietà, non era affatto equivalente all'altra «
diritto di usarne a piacimento » usata dall'art. 540. Se quindi la legge aveva adoperato questa speciale locuzione, se ne doveva dedurre, secondo questa corrente dottrinale, che essa aveva voluto accordare semplicemente l'uso delle sorgenti.
Altri ancora (
Scialoja) hanno anche affermato che l'art. 540 stabiliva per il proprietario del fondo una semplice preferenza nel primo uso dell'acqua.
Identico è il pensiero di altri autori (
Vitale; ma nello stesso senso anche
Lucci, Valenti, Simoncelli) secondo cui l'art. 540 consentiva soltanto un uso al proprietario del fondo ove l'acqua sgorga.
Ma contro le affermazioni dei predetti autori stanno quelle di coloro i quali non solo non ritengono che l'art. 540 stabilisca un semplice diritto d'uso sulle acque sorgenti, ma affermano anzi che proprio dal detto articolo risultava la proprietà privata delle medesime.
Così
Giovanetti, nella sua celebre opera
Du regime des eaux, parlando dell'art. 555 del codice sardo che corrisponde al nostro 540, afferma che «
l'acqua la quale si trova nel mio fondo è sempre mia, o si vegga scorrere o sia nascosta nel seno della terra ». Nello stesso senso anche altri autori (
Codivilla), per i quali il codice civile riconosceva agli artt. 540 e 542 al proprietario del fondo la proprietà della sorgente. Altri Autori (
Dionisotti),dopo aver detto che l' articolo comprendeva tanto le sorgenti artificiali che le naturali, aggiungevano che l'acqua sorgente in un fondo è di esclusiva spettanza del proprietario del medesimo.
Anche
Giorgi, alla cui opinione tante volte si appellavano i sostenitori della tesi demanialistica, affermava soltanto che l'art. 540 accordava un semplice diritto di uso sulle sorgenti che siano
caput fluminis, e non sulle altre, che in base al detto articolo dovevano ritenersi private.
Tutti gli argomenti contro la proprietà privata delle sorgenti si riducevano in sostanza al fatto che la legge adoperava nell'art. 54o l'espressione “usarne a piacimento”, mentre avrebbe potuto far ricorso all'altra “godere e disporre nel modo più assoluto
" usata dall'art. 436 per esprimere il concetto di proprietà.
Ma ciò era facile a spiegarsi dando il suo giusto valore all'articolo in questione, il quale, collocato nel codice al capo II che trattava delle servitù prediali, non poteva interpretarsi come una norma circa la natura giuridica delle sorgenti, ma come una disposizione in materia di servitù. Dato infatti che il libero uso di qualunque proprietà può essere ristretto per legge, cioè può in qualunque momento essere costituita su di essa una servitù legale, l'art. 540, disponendo che chi ha una sorgente può usarne a piacimento, voleva significare che sulla proprietà della sorgente non gravava normalmente alcuna delle dette servitù.
Non potendosi dunque ammettere che l'art. 540 derogasse alla norma generale dell'art. 440, secondo cui al chi aveva la proprietà del suolo aveva pure quella di tutto ciò che si trovava sopra o sotto la superficie, si doveva concludere che le acque appartenevano al proprietario del fondo nel quale sgorgavano in conseguenza del diritto sul sottosuolo riconosciuto dalla legge.
Uguale interpretazione deve darsi al comma dell'articolo in esame non potendosi ammettere l'opinione di coloro che negano l'esistenza di acque private
Il nuovo codice parla anch'esso di diritto all'uso dell'acqua da parte del proprietario nel cui fondo essa esiste, e non di un diritto di proprietà. Ma come l' art. 440 del vecchio codice autorizzava a contrastare la tesi di chi negava il carattere privato delle acque in parola, così l'art.
840 del nuovo codice, ammettendo che la proprietà del suolo si estende al sottosuolo con tutto ciò che vi si contiene salve le limitazioni derivanti dalle leggi sulle acque ed altre, si
oppone all'interpretazione di coloro i quali sostengono che le acque private non esistono più.
D'altra parte il fatto che gli artt.
910 e
912 parlano, sia pure in forma negativa, di « acqua non pubblica » e che l'art.
912 limita il demanio pubblico in questa materia ai fiumi, ai torrenti, ai laghi e alle altre acque definite pubbliche dalle leggi speciali, a cui fa pure richiamo l'articolo in esame, conferma che accanto alle acque pubbliche seguita a sussistere la categoria delle acque private, salvo le limitazioni poste dal T. U. II dicembre 1933, n. 1775, il quale:
a) disciplina l'uso delle acque pubbliche;
b) sottopone, in determinate zone, alla tutela dell' Amministrazione le acque private estratte artificialmente dal sottosuolo;
c) demanda al Genio civile la facoltà, anche nelle zone non soggette a tutela, di regolare l' erogazione dei pozzi salienti a getto continuo.
Disposizione contenuta nell'art. 545 del vecchio codice corrispondente a quella contenuta nel secondo comma dell'articolo in esame, il quale ha assorbito anche l'art. 542 del vecchio codice. Compenso da parte del proprietario del fondo inferiore a favore di quello del fondo superiore per l'uso dell'acqua defluente da questo fondo.
Il secondo comma dell'articolo in esame corrisponde all'art. 545 del vecchio codice, secondo cui qualunque proprietario e possessore d'acqua poteva servirsene a suo piacimento o anche disporne a favore di altri ove non ostasse un titolo o la prescrizione; ma, dopo essersene servito, non poteva divertirle in modo che si disperdessero in danno di altri fondi a cui potessero profittare senza cagionare rigurgiti od altro pregiudizio agli utenti superiori, e mediante un equo compenso da pagarsi a chi volesse profittarne ove si trattasse di sorgente o di altra acqua spettante al proprietario del fondo superiore.
Il nuovo codice usa una
formulazione più sintetica e non parla di compensi da parte del proprietario del fondo inferiore a favore di quello del fondo superiore a cui spetti la proprietà dell'acqua, bastando a ciò quanto dispone l'art.
912.
Inoltre l'articolo in esame ha assorbito anche l'art. 542 del vecchio codice per il quale il proprietario della sorgente non poteva deviarne il corso quando la medesima somministrasse agli abitanti di un comune o di una frazione di esso l'acqua che era loro necessaria, salvo che, se gli abitanti non ne avevano acquistato l'uso in forza di prescrizione, erano tenuti a corrispondere al proprietario un'indennità.
In fondo le due disposizioni del vecchio codice si
equivalevano, essendo entrambe giustificate dal medesimo interesse sociale di impedire lo sperpero delle acque, interesse sociale che oggi domina tutta la materia, come rileva il Guardasigilli nella sua relazione. Bene ha fatto quindi il nuovo codice a raggrupparle in un unico articolo, evitando tra l'altro le discussioni che si facevano sull' interpretazione da dare all'espressione «
acqua necessaria » contenuta nell'art. 542 del vecchio codice.