Cass. civ. n. 6029/2014
La sopravvenuta chiusura del fallimento non determina l'improseguibilità delle azioni esercitate dal curatore che, come quelle di responsabilità spettanti alla società ed ai creditori sociali, sussistono anche al di fuori della procedura e non la presuppongono.
Cass. civ. n. 1879/2011
Il curatore del fallimento che proponga domanda giudiziale di risarcimento dei danni conseguenti ad un sinistro stradale verificatosi, in danno del fallito, in epoca antecedente al fallimento, non agisce in sostituzione dei creditori al fine della ricostruzione del patrimonio originario del fallito stesso, e cioè nella veste di terzo, ma esercita un'azione rinvenuta nel patrimonio di quest'ultimo, come suo avente causa, ponendosi, conseguentemente, nella sua stessa posizione sostanziale e processuale; ne consegue che, in caso di chiusura del fallimento per concordato, l'eventuale assuntore del concordato fallimentare che prosegua il giudizio iniziato dal curatore viene a trovarsi nella medesima posizione processuale di quest'ultimo.
Cass. civ. n. 9723/2010
La chiusura del fallimento di una società per ripartizione finale dell'attivo od insufficienza tale da impedire l'utile continuazione della procedura, disposta ai sensi dell'art. 118 legge fallimentare previgente, applicabile "ratione temporis", non ne determina l'estinzione, sia perché con essa non si produce indefettibilmente la definizione di tutti i rapporti che fanno capo alla società, sia perchè si verifica, con la fine dello "spossessamento", il riacquisto della libera disponibilità dei propri beni da parte del fallito. Ne consegue che quando la chiusura del fallimento sia avvenuta prima del passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio di insinuazione tardiva di un credito, l'accantonamento a tal fine disposto costituisce un residuo attivo del patrimonio sociale, da restituire alla società.
Cass. civ. n. 20947/2009
Il fallimento di una società e dei suoi amministratori non determina il venir meno di questi ultimi, perché la società rimane in vita ed essi restano in carica, salva la loro sostituzione; ne consegue che, ove detta società ritorni "in bonis" a seguito della chiusura del fallimento, essa riacquista la propria ordinaria capacità, con tutti i conseguenti poteri di rappresentanza degli organi sociali.
Cass. civ. n. 15934/2007
In tema di riassunzione, da parte del creditore, del giudizio di appello interposto avverso la sentenza di rigetto della originaria domanda di insinuazione tardiva al passivo fallimentare, dopo la sua interruzione per effetto della revoca del fallimento, la domanda con cui si chiede l'accertamento del credito verso i soci già falliti tornati in bonis e la condanna degli stessi anche al pagamento di quanto dovuto non riveste carattere di novità rispetto all'azione originariamente dedotta, trattandosi per entrambe di espressioni processuali diverse di un giudizio unico; infatti anche la domanda di insinuazione al passivo tende all'accertamento del credito e la sua deduzione in funzione esecutiva mira solo ad assicurarne, nel concorso con gli altri creditori, la collocazione utile. Così la revoca del fallimento importa, quale effetto proprio della interruzione del processo in cui era parte il curatore, il riacquisto della capacità processuale del fallito che può (o nei cui confronti appare ammissibile) promuovere la prosecuzione della medesima controversia (con salvezza degli atti legalmente compiuti dagli organi fallimentari ex art. 21 legge fall.), non potendo assumersi una generale diversità di regime probatorio, caratteristica attinente ai soli giudizi che presuppongono la esistenza stessa di una procedura fallimentare e riguardano interessi propri della massa dei creditori e non del soggetto fallito.
Cass. civ. n. 19394/2004
In tema di fallimento, il giudizio di ammissione (tempestiva o tardiva) al passivo è controversia che trova nella procedura fallimentare il suo necessario presupposto, e che quindi, con la chiusura del fallimento, viene inevitabilmente a perdere la propria ragion d'essere (onde la sentenza che, come nella specie, ne abbia definito il relativo giudizio d'appello deve ritenersi inutiliter data), poiché la chiusura del fallimento determina la inefficacia, per improseguibilità, di tutti i giudizi pendenti per insinuazione al passivo (nella specie, tardiva), sicché la previsione di una interruzione del processo ex art. 300 c.p.c., con subingresso al curatore del fallito tornato in bonis ha soltanto la funzione di provocare — con la pronuncia di improseguibilità — il regolamento delle spese processuali.
Cass. civ. n. 7563/2003
Tra gli effetti della chiusura del fallimento non è compresa la liberazione del fallito dalle obbligazioni non fatte valere o non soddisfatte nel corso della procedura fallimentare e, pertanto, ai sensi dell'art. 120 della legge fallimentare, i creditori riacquistano il libero esercizio delle azioni verso il debitore tornato in bonis per la parte non soddisfatta dei loro crediti, sia per capitale che per interessi. Ne consegue che l'amministrazione finanziaria può azionare il proprio credito tributario nei confronti del contribuente tornato in bonis (salvo che non ne sia decaduta ex art. 94 l. fall.), senza che — di per sé — la presentazione della dichiarazione dei redditi da parte del curatore (e del fallito) possa aver comportato l'onere per l'amministrazione di insinuarsi nel passivo del fallimento.
Cass. civ. n. 17261/2002
In tema di equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo, per “definitività” della decisione concludente il procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata, la quale segna il dies a quo del termine di decadenza di sei mesi per la proponibilità della domanda, s'intende (salvi i casi in cui il provvedimento del giudice che pone termine al processo in corso dinanzi a lui presupponga un'ulteriore fase attuativa, destinata a consentire l'effettiva realizzazione del diritto la cui tutela in quel processo era stata invocata) l'insuscettibilità di quella decisione di essere revocata, modificata o riformata dal medesimo giudice che l'ha emessa o da altro giudice chiamato a provvedere in grado successivo; ne deriva che, con riferimento alle procedure di fallimento giunte a compimento, il termine semestrale entro cui deve essere proposta, a pena di decadenza, la domanda di equa riparazione per irragionevole durata della procedura di fallimento decorre dalla data in cui, allo scadere dei quindici giorni dall'affissione del decreto di chiusura del fallimento, tale decreto non è più reclamabile in appello.
Cass. civ. n. 16380/2002
È manifestamente in fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 120, secondo comma, legge fall., nella parte in cui prevede che i creditori riacquistano il libero esercizio delle azioni verso il debitore per la parte non soddisfatta dei loro crediti per capitale ed interessi, sotto il profilo di una pretesa disparità di trattamento che detta disposizione determinerebbe, in violazione dell'art. 3 Cost., tra i soci di società di capitali, preservati dal fallimento per effetto della autonomia patrimoniale perfetta, e quelli di società di persone illimitatamente responsabili o gli imprenditori commerciali, la cui situazione sarebbe aggravata dal riacquistato esercizio del proprio diritto da parte dei creditori. Non ricorre, infatti, la omogeneità di situazioni postulata dal parametro invocato, avuto riguardo alla diversità di struttura ed alle caratteristiche peculiari delle società di capitali, rispetto alle società di persone con soci illimitatamente responsabili ovvero agli imprenditori commerciali individuali.
Cass. civ. n. 11718/1993
La chiusura del fallimento non implica la liberazione del fallito dalle obbligazioni non fatte valere o non soddisfatte nel corso della procedura fallimentare, come stabilito dall'art. 120 della legge fallimentare, il quale, prevedendo che i creditori riacquistano il libero esercizio delle azioni verso il debitore, anche per la parte dei loro crediti che non abbia trovato soddisfazione, sia per capitali che per interessi, implica la possibilità di far valere i crediti stessi nei confronti del debitore ritornato in bonis.