L'usufrutto su cose deteriorabili
Non è stata cambiata la norma del vecchio codice relativa all'usufrutto su cose che si deteriorano con l'uso, alla quale si è aggiunta una disposizione relativa agli impianti, opifici, macchinari che abbiano una destinazione produttiva.
A rigore tutte le cose sono deteriorabili per effetto dell'uso, ma nel senso in cui è accolta dalla disposizione in oggetto l' espressione «
cose deteriorabili » vuole indicare le cose che subiscono per effetto dell'uso un necessario, progressivo deterioramento e in un tempo relativamente breve finiscono col distruggersi. Anche se è stata sopressa l' indicazione esemplificativa dell'art. 484 (biancheria, mobilia) che serviva a rendere il concetto più chiaro, non vi è dubbio che esso è rimasto sostanzialmente immutato: a differenza delle cose consumabili per cui il perimento consegue ad un solo atto di godimento, le cose deteriorabili periscono dopo una serie di atti di godimento ognuno dei quali deteriora la cosa.
L'usufruttuario non assume quindi
nessuna responsabilità per il deterioramento derivante dall'uso e neppure del perimento dovuto al protrarsi dell'uso. Secondo la lettera dell'art. 996 egli infatti è tenuto a restituire la cosa nello stato in cui si trova alla fine dell'usufrutto, ma non v'è dubbio che egli sia liberato anche dall'obbligo di restituzione se prima della cessazione dell'usufrutto la cosa è perita. Quest'ultima conseguenza era disposta espressamente nel codice del 1865 (art. 512) a proposito dell'usufrutto su animali singoli (che rientrano certamente nella categoria delle cose deteriorabili), norma che non è stata riprodotta nel codice, ma è ugualmente sicura per il nuovo sistema, dato che essa discende necessariamente dal principio posto nell'art. 996. Dato che infatti non si può eliminare il diritto dell'usufruttuario al godimento e non si è ritenuto di dover attribuire a lui la proprietà della cosa con l'obbligo di restituzione dell'equivalente, è chiaro che il perimento della cosa ricade necessariamente sul proprietario.
Naturalmente perchè l'usufruttuario non sia responsabile nè del deterioramento nè dell'eventuale perimento occorre che egli abbia osservato i
limiti del suo godimento e abbia adempiuto gli
obblighi che la legge pone a suo carico. Occorre anzitutto che l'usufruttuario si sia servito della cosa secondo la destinazione che ad essa aveva data il proprietario: la riaffermazione che di questo limite generale del godimento dell'usufruttuario fa l'art. 996 a proposito delle cose deteriorabili è un indice dell' importanza che qui assume quel limite. Infatti il grado della deteriorabilità può variare moltissimo a seconda del modo in cui la cosa venga impiegata, e quindi l'usufruttuario deve attenersi rigorosamente all' obbligo di rispettare la destinazione della cosa e di servirsene secondo tale destinazione. In secondo luogo occorre che il deterioramento o eventualmente il perimento sia una conseguenza esclusiva dell'uso per cui la cosa è legittimamente impiegata: se, perciò, pur rispettando la destinazione, l'usufruttuario non usa la cosa con la diligenza del buon padre di famiglia, non adempie all' obbligo di ordinaria manutenzione che la legge pone a suo carico, o in definitiva produce o aggrava il deterioramento col suo fatto doloso o colposo, egli sarà responsabile secondo i principi generali.
La persistenza del diritto di proprietà nel costituente importa che l'usufruttuario vada incontro a responsabilità se aliena la cosa o comunque ne dispone come proprietario anche qualora offra al costituente la restituzione dell' equivalente. Naturalmente questa responsabilità per abuso deve essere valutata meno rigorosamente che nei casi normali, perché la restituzione dell'equivalente di una cosa deteriorabile si risolve di regola in un vantaggio per il proprietario, sì che sarebbe spesso eccessivo comminare all' usufruttuario la sanzione dell' estinzione dell'usufrutto o quelle minori stabilite pure dall'
art. 1015 del c.c..
L'usufrutto su impianti, opifici, macchinari
In aggiunta alla norma tradizionale relativa alle cose deteriorabili, i1 codice pone una disposizione che per la sede in cui è collocata sembra che sia stata pensata come una deroga alla prima. Essa riguarda gli opifici, i macchinari e
.gli impianti aventi una destinazione produttiva e impone all'usufruttuario di
riparare e sostituire durante l' usufrutto le parti che si logorano, in modo da assicurare il regolare funzionamento delle cose suddette.
Va subito rilevato che la sede della norma non è stata opportunamente scelta e che essa
non rappresenta affatto una deroga al principio posto nel primo comma dell'art. 996. Un opificio o un impianto industriale non possono essere considerate come cose deteriorabili nel senso in cui di queste parla la legge: essi infatti sono complessi di cose (normalmente vere e proprie universalità di fatto) destinati a un certo scopo produttivo, per i quali è ovvio che l'usufruttuario abbia l'obbligo di riparare o sostituire le parti logore e guaste, altrimenti egli mancherebbe al suo obbligo fondamentale di conservare la destinazione economica della cosa.
In verità la norma in oggetto ha un'altra funzione e cioè quella di derogare al principio secondo cui le riparazioni straordinarie sono a carico del proprietario (
art. 1005 del c.c.) e che l' usufruttuario, in caso di rifiuto di quello, ha la facoltà ma non l' obbligo di compierle (
art. 1006 del c.c.). Infatti la sostituzione o la riparazione deve essere fatta dall'usufruttuario, anche se si tratti di spese che eccedono la manutenzione ordinaria e sono invece relative a riparazioni straordinarie. Inoltre, ancora in deroga all'art.
1006 che stabilisce la misura del rimborso dovuto all'usufruttuario che esegua le riparazioni straordinarie, il capov. dell'art. 996 attribuisce all'usufruttuario il diritto a una congrua indennità invece che al rimborso delle spese per le riparazioni straordinarie. Ora, a parte la questione se tali deroghe siano o meno giustificate, è certo che il contenuto della norma non ha rapporti con il regime dell'usufrutto su cose deteriorabili e può servire, nella sua collocazione attuale, a intorbidare più che a chiarire il senso della prima parte dell'articolo.