La proprietà delle scorte vive e morte
Il regime delle scorte vive e morte di un fondo dato in usufrutto è contenuto tutto in questa lacunosa e assai discutibile disposizione. Secondo il codice del 1865 gli animali che costituivano la dotazione del fondo venivano acquistati in proprietà dall'usufruttuario con l'obbligo di restituzione dell'equivalente alla fine dell'usufrutto, dato che l'art. 514 estendeva espressamente alle scorte vive la disciplina delle cose consumabili. Invece per le scorte morte, per le quali mancava una specifica disposizione di legge, si riteneva dalla più autorevole dottrina che non si potesse estendere la disciplina delle cose consumabili, di modo che l'usufruttuario non ne acquistasse la proprietà ma potesse disporne o consumarle provvedendo alla sostituzione.
Naturalmente per quanto riguardava le scorte costituenti beni di
utilità semplice (fieno, paglia, concime, sementi ecc.) l'obbligo di sostituzione era simultaneo al godimento, per le scorte costituenti beni di
utilità ripetuta (macchinari, attrezzi, utensili) si ammetteva che l'usufruttuario potesse disporne provvedendo alla necessaria sostituzione. La conseguenza di ciò era che il proprietario acquistava la proprietà delle nuove scorte che l'usufruttuario sostituiva a quelle di cui si appropriava, e quindi alla fine dell'usufrutto riteneva senz'altro le scorte che si trovavano nel fondo senza che l' usufruttuario potesse appropriarsele neppure pagando l'equivalente. Inoltre ne discendeva l'obbligo dell'usufruttuario di conservare durante l' usufrutto la dotazione di scorte morte per lo meno nella consistenza esistente all'inizio dell'usufrutto.
Il Progetto preliminare continuava a tacere delle scorte morte ma innovava sul codice per le
scorte vive (art. 139), stabilendosi per esse che la proprietà non veniva attribuita senz'altro all'usufruttuario. II che avrebbe portato alla conseguenza che l'usufruttuario avrebbe potuto disporre dei singoli capi con l'obbligo della sostituzione allo scopo di mantenere sul fondo la dotazione esistente all'inizio dell'usufrutto la quale, come complesso, sarebbe continuata a spettare al proprietario. Peraltro anche la disposizione del Progetto era assai lacunosa, per quanto fosse opportuno assicurare in ogni momento il mantenimento della dotazione di scorte vive sul fondo e di assicurare che alla cessazione dell'usufrutto il proprietario riprendesse il fondo con le scorte senza che l'usufruttuario potesse appropriarsi delle scorte esistenti e liberarsi, in mancanza di una esplicita pattuizione al riguardo, con il pagamento del prezzo di stima (se la stima era stata fatta) o del valore al tempo della cessazione dell'usufrutto (se la stima non era stata fatta).
Non risultano dai lavori preparatori le
ragioni che hanno portato all' abbandono del principio accolto nel Progetto della Commissione reale e all' estensione alle scorte morte del principio accolto dal vecchio codice per gli animali costituenti la dotazione del fondo. Ma quel che appare più strano e che mentre pare che i compilatori abbiano voluto estendere alle scorte vive e morte del fondo la disciplina delle cose consumabili, in realtà la formulazione dell'art. 998 dimostra, come si vedrà subito, che quella disciplina non è stata integralmente riprodotta.
Sembra indubbio che l'art. 998, stabilendo che alla fine dell'usufrutto l'usufruttuario ha facoltà di restituire scorte in uguale quantità e qualità di quelle ricevute o di pagare l' equivalente, dispone implicitamente che
la proprietà delle scorte medesime spetti all'usufruttuario sin dal momento in cui sorge il suo diritto sul fondo. La conseguenza è un po' esorbitante rispetto all' esigenza che dovrebbe essere realizzata, che è in sostanza quella di far gravare sull'usufruttuario i rischi di un fortuito perimento delle scorte e di permettergli la libera disposizione degli elementi costitutivi delle scorte medesime. Infatti l' attribuzione della proprietà porta anche alla conseguenza che l' usufruttuario non avrebbe obbligo di sostituire le scorte che abbia consumate o di cui abbia disposto, ma solo quello di restituire l' equivalente alla fine dell'usufrutto, il che si potrebbe risolvere in un grave pregiudizio della coltivazione del fondo e dell'interesse della produzione.
Tuttavia l'obbligo che l'usufruttuario ha di godere della cosa con la diligenza del buon padre di famiglia potrebbe servire a evitare quella conseguenza, perchè violerebbe tale obbligo l'usufruttuario che non mantenesse sul fondo la dotazione di scorte necessarie per la buona e razionale coltivazione del fondo. In secondo luogo se l'attribuzione delle scorte in proprietà all'usufruttuario può anche spiegarsi per gli animali il cui rinnovamento è relativamente assai frequente e per le scorte morte che sono costituite da beni di utilità semplice e quindi possono essere trattate come le cose consumabili, invece non si spiega per le scorte fisse, come macchinari e attrezzi per cui la necessità del rinnovamento non si presenta frequentemente. Bisogna anzi a questo proposito avvertire che se nel fondo vi sono macchinari o impianti destinati alla trasformazione dei prodotti, e che costituiscono pertinenze del fondo, non si applica la disposizione del secondo comma dell'art.
996, ma quella dell'art. 998, anche se la soluzione contraria può sembrare ed è più razionale.
L'obbligo di restituzione delle scorte al termine dell'usufrutto
Ma le difficoltà più gravi riguardano l'
obbligo della restituzione: l'articolo in esame dispone che l'usufruttuario deve restituire le scorte in natura (nella medesima quantità e qualità) oppure deve corrispondere il valore delle scorte calcolato al termine dell' usufrutto. Se non ci fosse nella legge questa seconda alternativa si potrebbe sostenere che la proprietà delle scorte nel loro complesso non sia attribuita all'usufruttuario ma che questi abbia soltanto il potere di disporre dei singoli elementi con obbligo di sostituzione. Ma la facoltà di corrispondere in denaro il valore delle scorte dimostra in maniera decisiva che il pensiero è stato un altro.
Ma se la legge ha voluto attribuire la proprietà delle scorte all'usufruttuario, perchè non si è estesa puramente e semplicemente la norma relativa alle cose consumabili? Per queste la legge dispone anzitutto che se vi è stata stima l'usufruttuario non ha alcuna facoltà di scelta e deve corrispondere senz'altro alla fine dell'usufrutto il prezzo di stima. Ora, se le scorte sono state stimate, l'usufruttuario dovrà restituire il prezzo di stima oppure avrà la scelta fra la restituzione in natura e il pagamento del valore secondo il testuale disposto dell'art. 998? La lettera della legge impone questa
seconda conclusione, perché non si può argomentare dalla disposizione relativa alle cose consumabili per integrare la norma specifica relativa alle scorte che vorrebbe porre in essere una disciplina completa di queste. Parrebbe quindi che il semplice fatto della stima, se non viene accompagnato da una pattuizione che deroghi all'art. 998 e che disponga la restituzione del prezzo di stima, non abbia alcuna influenza sulla determinazione del contenuto dell'obbligo di restituzione, salvo nel caso in cui il fatto della stima insieme ad altre eventuali circostanze possa integrare una pattuizione tacita nel senso ora accennato. Ma il problema si complica se le scorte sono state consegnate all'usufruttuario senza indicazione della qualità e della quantità, e con la sola indicazione del valore: in tal caso non è assolutamente possibile applicare la disposizione dell' art. 998 e bisognerà necessariamente ritenere che l'usufruttuario dovrà restituire il valore determinato all'inizio dell'usufrutto.
La formulazione dell'art. 998 fa sorgere un altro problema l'obbligazione di restituire le scorte in natura o di corrispondere il valore
è una obbligazione alternativa o un'obbligazione facoltativa? In verità la questione non ha molta importanza pratica perchè, anche trattandosi di obbligazione facoltativa, il problema del rischio dell'impossibilità della prestazione dedotta
in obligatione (restituzione in natura) non ha quasi mai necessità di essere posto, ma comunque la lettera della legge farebbe nettamente propendere per l'esistenza di un'obbligazione facoltativa.
Se al termine dell'usufrutto l'usufruttuario intende
restituire in natura le scorte e quelle esistenti sono superiori o inferiori a quelle che esistevano all'inizio dell'usufrutto, si dovrà far luogo al conguaglio in denaro oppure l'usufruttuario dovrà prelevare in natura l'eccedenza o reintegrare pure in natura la differenza? I principi dell'obbligazione alternativa porterebbero alla seconda soluzione, ma probabilmente la soluzione esatta è la prima, non tanto perchè si tratterebbe qui di un' obbligazione facoltativa quanto in considerazione del fatto che spesso è assolutamente impossibile restituire in natura nella medesima quantità e qualità le scorte, specie quando si tratta del bestiame rispetto al quale entrano in considerazione anche l'età, il peso e cosi via.
È quasi superfluo avvertire che, in conseguenza dei criteri per determinare l'oggetto della restituzione accolti dall'art. 998, si è automaticamente risolta in senso sfavorevole all'usufruttuario la questione, spesso affrontata dalla giurisprudenza e variamente decisa, se spettasse al proprietario o all'usufruttuario
il maggior valore che il bestiame aveva assunto rispetto alla stima iniziale per l'aumento dei prezzi di mercato.