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Articolo 733 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 26/11/2024]

Norme date dal testatore per la divisione

Dispositivo dell'art. 733 Codice Civile

Quando il testatore ha stabilito particolari norme per formare le porzioni [727 c.c.], queste norme sono vincolanti per gli eredi, salvo che l'effettivo valore dei beni non corrisponda alle quote stabilite dal testatore(1)(2) [718 c.c.].

Il testatore può disporre che la divisione si effettui secondo la stima di persona da lui designata che non sia erede o legatario: la divisione proposta da questa persona non vincola gli eredi, se l'autorità giudiziaria, su istanza di taluno di essi, la riconosce contraria alla volontà del testatore o manifestamente iniqua [1349 c.c.](3).

Note

(1) Si parla in proposito di assegni divisionali semplici che, a differenza dei c.d. assegni divisionali qualificati (v. art. 734 del c.c.), non impediscono il sorgere della comunione ereditaria.
(2) Gli assegni divisionali sono validi anche se riferiti a taluno dei legittimari (v. art. 536 del c.c.) in quanto la quota loro riservata per legge costituisce un vincolo solo quantitativo e non anche qualitativo per il testatore.
(3) Si ritiene che il terzo svolga la funzione di arbitratore (v. art. 1349 del c.c.).
Il terzo può essere chiamato a compiere la stima dei beni, la formazione delle porzione e la predisposizione di un piano di divisione. Non gli è consentito determinare la quota ereditaria spettante a ciascun erede in quanto questa è una prerogativa che compete esclusivamente al de cuius (v. art. 631 del c.c.).

Ratio Legis

Il testatore gode della più ampia autonomia in ordine alla disposizione dei propri beni per il tempo successivo alla propria morte.
Da un punto di vista quantitativo è libero di determinare l'entità delle singole quote, da quello qualitativo gli è consentito individuare i beni da assegnare a ciascun coerede in sede di divisione.

Spiegazione dell'art. 733 Codice Civile

Già nel vecchio codice del 1865 esisteva l’istituto della divisione di ascendente; il nuovo libro, oltre a mantenerlo in vita, ha attribuito al testatore altre facoltà, e propriamente:
a) La facoltà di stabilire particolari norme per formare le porzioni. La formula è assai ampia: il testatore può stabilire, ad esempio che una porzione sia costituita esclusivamente da immobili, un’altra esclusivamente da mobili, da crediti o da contanti, ecc. Il solo limite è quello che, in questo modo, il testatore non venga a svalutare o a sopravvalutare i beni, così da alterare il valore delle quote (anche se ciò avvenga indipendentemente dalla sua volontà, ad esempio per effetto del tempo trascorso tra la redazione del testamento e la divisione).
b) La facoltà di designare un estraneo alla successione per la stima dei beni e per proporre la divisione. La divisione proposta da questa persona non vincola gli eredi, qualora l’autorità giudiziaria la riconosca contraria alla volontà del testatore o manifestamente iniqua. La manifesta iniquità può riferirsi tanto alla stima quanto alla formazione delle quote che possono risultare capricciose, arbitrarie, ecc. La contrarietà alla volontà del testatore, cioè alle direttive da lui fissate, va riferita essenzialmente alle quote; giacché la stima, come fatto oggettivo, non può dipendere dalla volontà del testatore. In ogni caso, la stima è impugnabile per lesione oltre il quarto, ma potrebbe aversi manifesta iniquità anche se la lesione fosse di entità minore.
c) La facoltà di far procedere alla divisione dall’esecutore testamentario la cui opera è sottoposta al sindacato dell’autorità giudiziaria nei limiti sub b).

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

353 Era stato suggerito d'invertire l'ordine degli articoli 271 e 272 del progetto, sembrando strano che il progetto si occupasse prima delle norme date dal testatore per la formazione delle porzioni e per la stima dei beni e dopo della divisione effettuata direttamente dal testatore. Ma va pure tenuto presente che, da un lato, le norme dell'art. 271 del progetto si collegavano più direttamente alle norme precedenti che trattavano della formazione delle porzioni, e che, d'altro lato, la norma dell'art. 272 del progetto costituiva l'antecedente logico dei successivi articoli 273 e 274. Ho pertanto preferito mantenere immutato l'ordine dei due articoli, ma ho modificato la dizione iniziale dei due commi dell'art. 733 del c.c., corrispondente all'art. 271 del progetto, in modo che le facoltà del testatore ivi previste siano enunziate incidentalmente. Cosi la contrapposizione con la norma dell'articolo successivo è fortemente attenuata. Quanto al contenuto dei due articoli, debbo osservare che nell'art. 733 del testo ho mantenuto la formula del progetto a proposito della divisione che deve essere effettuata secondo la stima della persona designata dal testatore. E' stato rilevato che il compito di tale persona non è tanto quello di fare la stima, quanto di fare la divisione vera e propria. Tale rilievo peraltro non mi è sembrato fondato, perché questo articolo prevede che il testatore detti solo norme particolari per la formazione delle porzioni, il che presuppone o che le quote siano eguali o che siano già state predisposte dal testatore. Ho mantenuto perciò il ricorso all'autorità giudiziaria contro la stima fatta dal terzo, quando questa sia contraria alla equità. Non sarebbe infatti sufficiente la previsione che la stima sia contraria alla volontà del testatore, ma occorre anche contemplare l'ipotesi della sua manifesta iniquità, secondo un principio che ha già varie applicazioni nel diritto positivo, perché nell'ipotesi in cui il testatore si fosse rimesso al mero Arbitrio del terzo senza enunziare alcun criterio direttivo per a stima dei behi, sarebbe vano invocare la violazione della volontà del testatore, se non fosse prevista l'impugnazione per iniquità manifesta.

Massime relative all'art. 733 Codice Civile

Cass. civ. n. 27377/2021

Le norme date dal testatore per formare le porzioni, ai sensi dell'art. 733 c.c., devono inquadrarsi nella categoria dei legati obbligatori, i quali impongono agli altri coeredi di lasciare che il bene, o la categoria di beni, indicati dal testatore siano inclusi nella porzione ereditaria dell'onorato, anziché ripartiti tra tutti i condividenti o assegnati a sorte. Tuttavia, nel caso in cui la cosa legata sia trasformata in modo tale da aver perso la sua individualità, si applica la presunzione di revoca, ex art. 686 c.c..

Cass. civ. n. 3675/2021

Qualora il testatore, ai sensi dell'art. 733 c.c., fissi regole per la formazione delle porzioni dei coeredi (ovvero legittimamente attribuisca tale facoltà ad un erede), benché venga meno il diritto di costoro di conseguire, per quanto possibile, una parte dei vari beni relitti dal "de cuius", secondo quanto previsto dall'art. 727 c.c., permane in ogni caso il diritto degli stessi di ottenere beni di valore corrispondente a quello della quota che ad essi compete.

Cass. civ. n. 15501/2011

Quando il testatore provvede alla ripartizione in quote tra gli eredi del suo patrimonio immobiliare, individuando i beni destinati a far parte di ciascuna di esse, non si configura l'ipotesi della cosiddetta divisione regolata (art. 733 cod. civ.), che ricorre se il "de cuius" si limita a dettare norme per la formazione delle porzioni nello scioglimento della comunione ereditaria, in previsione del sorgere di tale status per effetto dell'apertura della successione, bensì si verte in tema di cosiddetta "divisio inter liberos" (art. 734 cod. civ.), ossia di divisione fatta dal testatore attraverso la specificazione dei beni destinati a far parte di ciascuna quota, che, avendo effetto attributivo diretto dei beni al momento dell'apertura della successione, impedisce il sorgere della comunione ereditaria ed il conseguente compimento di operazioni divisionali. Ne consegue che l'erede escluso dall'assegnazione del cespite cui si riferisce la controversia nel corso della quale si è verificato il decesso del dante causa versa in una situazione di carenza di legittimazione passiva per estraneità all'oggetto del giudizio.

Cass. civ. n. 18561/2009

In tema di divisione ereditaria, la "divisio inter liberos", regolata dall'art. 734 c.c., ricorre quando la volontà del testatore è quella di effettuare direttamente la divisione dei suoi beni fra gli eredi, distribuendo tra questi le sue sostanze mediante l'assegnazione di singole quote concrete, con effetti reali ed immediati: ricorre, invece, l'ipotesi di cui all'art. 733 c.c. quando il testatore non divide, ma si limita a dettare le regole per la futura divisione. L'accertamento della ricorrenza in concreto dell'una o dell'altra fattispecie costituisce indagine di fatto sulla volontà del testatore, non sindacabile in sede di legittimità se sorretta da corretta motivazione. (Nella specie è stata cassata la sentenza di merito che aveva escluso l'applicabilità dell'art. 733 c.c. alla clausola testamentaria con la quale veniva espressamente raccomandato ad uno degli eredi, attributario di un gruppo di poderi, di lasciare tali beni "conservati uniti ed intatti finché possibile", senza però indagare sulla possibilità di ricondurre la anzidetta clausola nell'ambito di operatività della "divisio inter liberos", ai sensi dell'art. 734 c.c.).

Cass. civ. n. 16216/2006

La disposizione testamentaria con cui un determinato bene viene destinato ad uno dei coeredi, comprendendolo nella quota di sua spettanza, ha natura di norma volta a regolare la futura divisione, ai sensi dell'art. 733 c.c., e, esprimendo una mera preferenza in favore dell'erede, ha efficacia obbligatoria e non reale, effetto che invece si verificherebbe se il testatore, procedendo immediatamente alla divisione, assegnasse direttamente il bene.

Cass. civ. n. 9905/2004

In tema di divisione ereditaria, l'art. 733 — il quale stabilisce che le particolari norme poste dal testatore per la formazione delle porzioni sono vincolanti per gli eredi, salvo che l'effettivo valore dei beni non corrisponda alle quote stabilite dal testatore — va interpretato alla luce del favor testamenti e cioè nel senso che la volontà del testatore rimanga vincolante ove sia compatibile con il valore delle quote, compatibilità riscontrabile tutte le volte che il perfetto equilibrio possa raggiungersi con l'imposizione di un conguaglio.

Cass. civ. n. 8049/1990

È valida la clausola testamentale che attribuisce ad uno degli eredi la facoltà di scelta dei beni per la formazione delle varie porzioni, rientrando detta facoltà nella previsione del primo comma dell'art. 733 c.c. e prescindendo dalla stima dei cespiti ereditari e dalla formazione delle varie porzioni da assegnare ai condividenti, facoltà, queste ultime, non delegabili dal testatore ad un erede o legatario, ai sensi del secondo comma del citato art. 733.

Qualora il testatore ai sensi dell'art. 733 c.c. fissi regole per la formazione delle porzioni dei coeredi, ovvero legittimamente attribuisca tale facoltà ad un erede, viene meno il diritto degli altri eredi, nel soddisfacimento delle loro spettanze ereditarie sancito dall'art. 727 c.c., di conseguire, per quanto possibile, una parte dei vari beni relitti dal de cuius, rimanendo ad essi soltanto il diritto di ottenere beni di valore corrispondente a quello della quota che ad essi compete.

Cass. civ. n. 1403/1970

Il primo comma dell'art. 733 c.c. riconosce al testatore il potere di dettare norme per la composizione delle porzioni, i cosiddetti assegni obbligatori divisionali, attribuendo all'assegnatario il diritto di pretendere che nella futura divisione il bene o i beni assegnati siano imputati alla propria quota a titolo di apporzionamento. Il secondo comma dell'art. 733 c.c., invece, riconosce al testatore il potere di designare una persona, che non sia erede o legatario, affidandole (analogamente a quanto può fare nei confronti dell'esecutore testamentario, ex art. 706 c.c.) non solo il compito di procedere alla stima, ma anche quello di effettuare la divisione dei beni, ossia di compiere tutti gli atti necessari per giungere allo scioglimento della comunione ereditaria. Il potere del testatore di cui al primo comma dell'art. 733 c.c. importa quello di attribuire ad altri, ed anche all'erede istituito nella disponibile, la facoltà di scegliere, con effetto vincolante per i legittimari, il bene o i beni da includere nella propria quota, così determinandone la composizione qualitativa (nella specie: una persona, testando, aveva attribuito al proprio figlio la facoltà di «indicare e scegliere l'eredità spettantegli su uno o più cespiti dell'intero asse» e la Corte di cassazione ha ritenuto che tale disposizione rientrasse, sotto il profilo di una delega del potere di cui al primo comma dell'art. 733 c.c., nell'ipotesi ivi prevista e non già in quella di cui al comma secondo dello stesso articolo).

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Consulenze legali
relative all'articolo 733 Codice Civile

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

M. S. chiede
domenica 13/06/2021 - Friuli-Venezia
“Il mio compagno è deceduto nel testamento ha scritto:" voglio che il mio patrimonio sia diviso in parti non uguali. A mio primo figlio lascio la legittima, il resto sia diviso fra mia figlia in prevalenza e la mia compagna a cui lascio in ogni caso il mio appartamento in città." Volevo sapere sono legatario o erede? Questo mio interesse nasce dal fatto che voglio sapere cosa sono per conoscere le mie responsabilità visto le differenze fra erede e legatario.

Cordiali Saluti”
Consulenza legale i 17/06/2021
Il codice civile contempla espressamente all’art. 733 questa particolare ipotesi di disposizione testamentaria, prevedendo che il de cuius possa, nel suo testamento, stabilire particolari norme per formare le porzioni, le quali saranno vincolanti per gli eredi, salvo il caso in cui l’effettivo valore dei beni non corrisponda alle quote stabilite dal testatore.

In questo caso si ritiene che il testatore abbia inteso nominare eredi sia la compagna che i figli, disponendo che, nella formazione delle porzioni (e dunque nella divisione del suo patrimonio), al figlio debbano essere assegnati beni per un valore pari alla quota di legittima, mentre il resto debba essere diviso tra la figlia e la compagna, facendo sì che nella quota della compagna sia in ogni caso incluso l’appartamento in città e che alla figlia vada una quota maggiore.

Ora, per rispettare la volontà del testatore e far sì che dall’esecuzione di tale testamento non possano sorgere contestazioni tra gli eredi, si ritiene che il modo più corretto di interpretare la volontà testamentaria sia quello di rispettare le quote che il legislatore, agli artt. 536 e ss. c.c., ha stabilito debbano essere riservate in favore dei legittimari.
Nel caso di specie, stando a quanto disposto dall’art. 536 c.c., rivestono quest’ultima posizione soltanto i figli, mentre colei che nel testamento viene definita come compagna (ovvero la convivente c.d. more uxorio), non può vantare per legge alcun diritto successorio nei confronti del de cuius, in quanto i conviventi, non essendo legati da alcun vincolo di coniugio o di parentela, sono considerati estranei tra loro.
Non sussistendo lo status giuridico di coniuge, il convivente more uxorio potrà ottenere una quota di eredità soltanto a seguito di una espressa manifestazione di volontà da parte del testatore, proprio come è accaduto nel caso di specie.

Facendo applicazione di quanto appena detto, dunque, si avrà che per i figli (unici legittimari) varrà quanto disposto dall’art. 537 del c.c., il quale al secondo comma statuisce che se il de cuius lascia più figli, agli stessi è riservata la quota di due terzi, da dividersi in parti eguali tra tutti i figli.
Ciò che resta, ossia il rimanente terzo, invece, dovrà essere assegnato alla compagna, facendosi sì che in detta quota sia ricompreso l’appartamento in città.
Qualora, però, il valore di detto appartamento dovesse superare il valore che ha il terzo del patrimonio relitto del de cuius, tale disposizione non sarà vincolante per gli eredi, e ciò in conformità a quanto disposto dalla norma a cui si è fatto cenno all’inizio, ossia l’art. 733 c.c.
Al contrario, se dopo aver soddisfatto il terzo di entrambi i figli ed assegnato alla convivente l’appartamento, dovessero residuare dei beni (ipotesi che può realizzarsi allorchè il valore dell’appartamento sia inferiore al valore della quota di un terzo dell’intero patrimonio), ciò che residua andrà ad accrescere la quota della figlia (in questo senso si ritiene che possa trovare attuazione la volontà del de cuius nella parte in cui dice “…sia diviso tra mia figlia in prevalenza…”).

La conferma che anche la disposizione fatta in favore della compagna debba intendersi a titolo di istituzione di erede la si ricava dalla lettura dell’art. 588 c.c., norma che, nel distinguere tra disposizioni a titolo universale ed a titolo particolare, stabilisce che sono a titolo universale e attribuiscono la qualità di erede, quelle disposizioni che comprendono l'universalità o una quota dei beni del testatore (in questo caso il testatore ha inteso assegnare alla compagna una quota del suo patrimonio, disponendo che in detta quota dovesse in ogni caso essere ricompreso l’appartamento in città, pur se con le limitazioni viste sopra).
Tutti i beni che compongono il patrimonio ereditario, infatti, cadono in comunione ereditaria ma in sede di formazione delle porzioni si devono rispettare le indicazioni del testatore; peraltro, a differenza di ciò che accade nel caso di divisione fatta dal testatore, disciplinata dal successivo art. 734 c.c., il testatore in questo caso non divide, ma si limita a dettare le regole per la futura divisione con efficacia obbligatoria per gli eredi.

In giurisprudenza è stata espressamente attribuita efficacia obbligatoria alla disposizione testamentaria in forza della quale un determinato bene viene destinato ad uno dei coeredi, comprendendolo nella quota di sua spettanza.
In particolare, si vuole qui segnalare la sentenza della Corte di Cassazione, Sez. II civ., n. 16216 del 17/07/2006, in cui la S.C. afferma quanto segue:
La disposizione testamentaria con cui un determinato bene viene destinato ad uno dei coeredi, comprendendolo nella quota di sua spettanza, ha natura di norma volta a regolare la futura divisione, ai sensi dell'art.733 cod. civ., e, esprimendo una mera preferenza in favore dell'erede, ha efficacia obbligatoria e non reale, effetto che invece si verificherebbe se il testatore, procedendo immediatamente alla divisione, assegnasse direttamente il bene”.


FEDERICO D. chiede
domenica 19/04/2020 - Campania
“QUESITO
LEGENDA
DF e DA unici eredi della madre RP

PREMESSA
Il 1° numero tra parentesi rappresenta l’ordine e il 2° l’anno, es. (05-97) = documento n. 05 dell’anno 1997.
Si riassumono cronologicamente i seguenti atti.
Testamento olografo del 1997 (O5-97) col quale RP attribuisce parte del terreno p. 135 a DA e parte a DF, successiva permuta (con riservato dominio) dell’intero terreno p. 135 (74-04) alla ditta ...omissis..., successiva morte di RP 1/01/2006, pubblicazione ed accettazione del testamento in data 17/07/06, nel 2008 citazione degli eredi DF e DA c/ la ditta ...omissis... per la risoluzione della permuta e relativa sentenza di scioglimento della permuta del 2014 (10-14).
Si fa presente che RP, dopo la permuta, ha firmato le richieste del PdC al comune e la denuncia dei lavori al Genio Civile.
Avendo inoltre Ella dato incarico ai tecnici per la progettazione, DL ecc, questi hanno emesso nel 2011 Decreto ingiuntivo contro gli eredi DF e DA per il pagamento delle spettanze tecniche (causa in corso).
Nel 2010 DA ha operato con false dichiarazioni il frazionamento della p 5140 (ex 135) nelle p 5198 e 5199 (98-10).
Nel 2017 DA ha trascritto a suo favore la parte del terreno a Lui attribuita nel testamento (p. 5198) e tutti i sub del fabbricato rustico ivi insistente (100-17).
A seguito della interruzione dei lavori della permuta, la ditta costruì al rustico uno solo dei due fabbricati promessi e cioè quello ricadente sulla parte di terreno della p. 135 attribuita a DA nel testamento e che Lui reclama ora come di sua esclusiva proprietà.
Successivamente DA ha effettuato irregolari operazioni catastali ed ipotecarie per cui risulta attualmente unico proprietario del fabbricato.
Il sottoscritto DF citò il fratello DA per la divisione della p. 5198 e del fabbricato ivi insistente, richiesta che poi ha esteso a tutti i beni caduti in successione.
Nell’udienza del 26/01/18 (ALLEGATA) il GI elencò i documenti preliminari occorrenti e di questi il sottoscritto inviò nel termine prescritto (Udienza successiva) al proprio difensore solo il N. 1(Trascrizione della domanda giudiziale) e il N. 3 (Relazione notarile).
La causa si concluse con la Sentenza del 3/12/18 (ALLEGATA) di rigetto della domanda per la tardiva trasmissione da parte del difensore della Relazione notarile (p. 9) e dei titoli di provenienza in capo a G. S. (p.11), erroneamente indicato dal GI anziché in capo a R. P.

RICHIESTA
Precisato che la sentenza non fu appellata, si chiede di conoscere il Vs parere
1) Sulla possibilità di ripresentazione della domanda di divisione o di accertamento giudiziale della comproprietà;
2) Se DA che si è attribuito la proprietà per successione e trascrizione RR.II. può legalmente alienarla e come evitarla.

ALLEGATI:
SENTENZA DEL 3/12/18
VERBALE UD DEL 26-01-18”
Consulenza legale i 07/05/2020
La sentenza di primo grado non appellata e che avrebbe dovuto decidere sullo scioglimento della comunione ereditaria tra i fratelli DA e DF va innanzitutto presa in considerazione con riferimento alla natura giuridica attribuita alla volontà testamentaria in forza della quale la de cuius ha disposto del terreno identificato in origine con la particella 135.
Afferma il giudice che, dalle espressioni usate dalla testatrice, se ne deve desumere la natura di disposizione a titolo particolare di tali attribuzioni, e più precisamente di veri e propri prelegati, ai quali va applicata la disposizione di cui all’art. 686 del c.c..
Stabilisce tale norma che l’alienazione che il testatore fa della cosa legata o di parte di essa, anche mediante vendita con patto di riscatto, deve intendersi come revocadel legato stesso, anche se in un successivo momento la cosa dovesse tornare in proprietà dello stesso testatore.
Aggiunge il secondo comma che il legato deve intendersi revocato anche se il testatore abbia trasformato la cosa legata in un’altra, perdendo la precedente forma e denominazione.

In effetti, nel caso di specie ricorrono tutti i presupposti richiesti dalla predetta norma al fine di potersi dire integrata la revoca tacita di quella disposizione a titolo particolare, ciò che risulta dal fatto che la madre ha concluso il contratto di permuta con la ditta costruttrice, manifestando altresì la volontà di voler trasformare quel bene di cui aveva inteso disporre nel suo testamento in un altro bene.
Di non minore importanza è anche la considerazione secondo cui, anche se si volesse ammettere che la volontà della testatrice integrasse una institutio ex re certa, ai sensi del secondo comma dell’art. 588 del c.c., gli atti dispositivi di quel bene, compiuti successivamente alla redazione del testamento, avrebbero pur sempre il medesimo effetto indiretto di revocare la disposizione, dovendosi applicare analogicamente l’art. 686 c.c. (e ciò secondo la tesi affermata da autorevole dottrina e da una risalente giurisprudenza).

Tali considerazioni si ritengono di estrema rilevanza al fine di dimostrare che sia su questo bene che su tutti gli altri beni costituenti il compendio ereditario della de cuius continua a sussistere una situazione di comunione ereditaria, non essendo stata sciolta neppure a seguito del procedimento giudiziario conclusosi con la sentenza del 3 dicembre 2018.
Nessuna posizione il giudice prende in ordine alla attuale titolarità dei beni, lamentando al contrario che le parti processuali non hanno adempiuto all’onere di fornire tutta una serie di documenti e atti ritenuti indispensabili dallo stesso organo giudicante al fine di accertarne la contitolarità e, conseguentemente, il loro diritto di procedere a divisione.

Ciò induce ad affermare che è possibile instaurare un nuovo giudizio volto ad ottenere lo scioglimento di quella comunione ereditaria, considerato che nel corso del precedente giudizio l’organo giudicante non è stato posto in condizioni di pronunciarsi sulle domande avanzate dalle parti esclusivamente per ragioni procedurali (le lamentate preclusioni istruttorie).
Nella riproposizione di tale domanda, però, occorre tenere conto di un dato di fatto particolarmente importante che, stando a ciò che è stato esposto nel quesito, appare trascurato.
Si dice che alla morte di RP, avvenuta a gennaio 2006, i fratelli DA e DF, unici eredi, hanno provveduto alla pubblicazione del testamento ed alla accettazione dell’eredità, e si legge anche nella sentenza trasmessa (pag. 7) che la testatrice, con riferimento al terreno, “ha allegato le planimetrie colorando diversamente le parti che ha inteso attribuire ai due figli”, mentre alla successiva pag. 8 si legge “non appaiono i cespiti indicati costituire per la testatrice una quota del patrimonio ereditario, ma beni specifici che ha inteso direttamente attribuire singolarmente all’uno o all’altro figlio allo scopo (non conseguito) di evitare discussioni e cause, deve ritenersi che le disposizioni testamentarie siano a titolo particolare e precisamente dei prelegati soggetti alla revocazione per effetto di alienazione o trasformazione ai sensi dell’art. 686 c.c.”.

Dal tenore di tali passaggi della sentenza ciò che può, con una certa immediatezza, evincersi è che la volontà manifestata dalla testatrice non può farsi rientrare nella previsione dell’art. 734 del c.c., norma che configura la divisione fatta dal testatore o c.d. assegno divisionale qualificato, ma che deve piuttosto ricondursi alla fattispecie disciplinata dall’art. 733 c.c., rubricato “Norme date dal testatore per la divisione”.
La differenza è di particolare rilevanza per il caso di specie, in quanto mentre nel caso di divisione fatta dal testatore si realizza una attribuzione diretta dei beni ai coeredi sin dal momento dell’apertura della successione, senza che si instauri una comunione ereditaria (così Cass. n. 4826/1983; Appello di Roma 15.03.2011; Appello di Firenze 14.09.2011), nel caso previsto dall’art. 733 c.c. il testatore non divide, ma si limita a dettare le regole per la futura divisione.

L’esclusione di una divisione fatta dal testatore rende illegittimi e privi di alcun valido titolo tutti i successivi atti posti in essere da DA, ed in particolare la trascrizione in suo favore della porzione di terreno ritenuta a lui attribuita in via diretta ed immediata in forza del testamento redatto dalla madre, nel frattempo frazionata e identificata con autonoma particella catastale.
Del resto, un tale stato di cose si pone peraltro in contrasto con la volontà della testatrice, sulla cui base deve essere condotto ogni ragionamento giuridico, ossia quella di far sì che ai figli giungesse un porzione di eguale valore (così si legge nel primo capoverso di pag. 7 della sentenza).

Né potrebbe DA invocare il disposto dell’art. 590 del c.c., norma che vieta di far valere la nullità di una disposizione testamentaria, da qualunque causa dipenda, nell’ipotesi in cui, colui che abbia interesse a farla valere (in questo caso DF), abbia, dopo la morte del testatore, dato ad essa volontaria esecuzione (ciò che potrebbe ravvisarsi nel non essersi opposto alla trascrizione in favore del solo DA).
Costituisce opinione pacifica quella secondo cui la norma si riferisce ai soli vizi formali del testamento, e pertanto non può estendersi ad ipotesi come quella in esame, nella quale il testamento è pienamente valido sotto il profilo formale, ma se ne vogliono da esso far discendere effetti non propri, per assenza di un assegno divisionale qualificato e ignorando, oltretutto, quanto fatto proprio dalla sentenza già intervenuta tra le parti, ossia che quella disposizione deve in ogni caso intendersi tacitamente revocata ex art. 686 c.c. per effetto della successiva alienazione e trasformazione.
Per tale ipotesi, infatti, solo una successiva manifestazione di volontà della testatrice avrebbe potuto far rientrare quel bene nella successione testamentaria, evitando per lo stesso l’apertura della successione legittima.

Si afferma oltretutto in giurisprudenza (così Cass. 1269/1958; Cass. n. 1794/1965; Cass. n. 535/1968; Cass. n. 1403/1970) che l’esecuzione volontaria deve consistere in un’attività positiva del soggetto interessato a far valere l’invalidità, diretta all’attuazione concreta della disposizione testamentaria e tale da determinare, rispetto ai beni ereditari, lo stesso mutamento della situazione giuridica che si sarebbe prodotto se il testamento fosse stato valido; pertanto, non può riconoscersi efficacia convalidante né alla pubblicazione del testamento né alla presentazione della denuncia di successione, in quanto la prima è solo condizione necessaria perché il testamento diventi eseguibile e la seconda ha natura e finalità meramente fiscali.

Per quanto concerne, infine, la domanda relativa a quali possibilità si hanno per evitare che DA trasferisca nel frattempo a terzi l’immobile per il quale ha ottenuto la trascrizione in suo favore, l’unica soluzione che può suggerirsi è quella di agire in giudizio oltre che per chiedere nuovamente lo scioglimento della comunione ereditaria, anche per contestare il fondamento di quell’acquisto a causa di morte che DA si è inteso attribuire e la validità della trascrizione in virtù di tale acquisto operata.
Tali domande giudiziali risultano espressamente contemplate dal legislatore ai nn. 3 e 4 dell’art. 2690 del c.c., e la loro trascrizione sarà opponibile alle eventuali trascrizione successive, comprese quelle in favore di terzi potenziali acquirenti da DA.


A.P. chiede
lunedì 01/11/2021 - Trentino-Alto Adige
“QUESITO:
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In una questione ereditaria l'unico coerede mette in atto delle condotte reiterate apparentemente illogiche e prive di senso che fanno pensare all'esistenza di un ulteriore testamento (dall'unico testamento, finora pubblicato dal coerede, datato maggio 2017, lasciato dalla madre deceduta nel corso dell'anno 2020, entrambi i figli risultano eredi al 50 %) nettamente a favore del coerede che mette in atto nei miei confronti pressioni di vario tipo. Vista questa situazione difficile e considerato che sono iniziate le trattative per la divisione della proprietà immobiliare (mio fratello insiste sulla vendita della mia quota a lui, in alternativa insiste sulla vendita della proprietà immobiliare indivisa a terzi), gradirei tutelarmi da un'eventuale "misteriosa scoperta" di un ulteriore testamento a favore di mio fratello.

Vi chiedo quindi una risposta al seguente quesito:
E' NULLA UNA CLAUSOLA DI UN CONTRATTO DI DIVISIONE CHE PREVEDE L'ESPLICITA RINUNCIA, DA PARTE DELLE DUE PARTI, DI AVVALERSI DI UN'ULTERIORE TESTAMENTO RITROVATO.”
Consulenza legale i 08/11/2021
L’ammissibilità di un patto di tale tipo può trovare fondamento sia nello stesso dettato legislativo che nella giurisprudenza di legittimità.
Sotto il primo profilo la sua liceità può indirettamente trarsi dall’art. 458 c.c., norma che disciplina il c.d. divieto dei patti successori.
Tale divieto costituisce logico corollario della regola, dettata dall’art. 457 del c.c., secondo la quale la delazione può avere come fonti solo la legge e il testamento; la volontà privata, pertanto, non può disporre, in relazione a beni che fanno parte di una successione non ancora apertasi, se non attraverso il testamento del futuro de cuius, unico negozio mortis causa ammesso nel nostro ordinamento.
Qualunque altro atto con il quale il futuro de cuius o terzi dispongano di una successione che non si è ancora aperta viene espressamente considerato affetto da nullità.

La giurisprudenza, peraltro, ricalcando quanto è dato desumere dal chiaro tenore letterale dell’art. 458 c.c., ritiene che si sia in presenza di un patto successorio ove siano contemporaneamente presenti i seguenti requisiti:
1) che si tratti di negozio giuridico stipulato prima dell'apertura della successione alla quale si riferisce;
2) che il bene o i beni oggetto del patto facciano parte della successione futura;
3) che, con particolare riferimento al c.d. patto istitutivo, l'acquisto avvenga successionis causa, e non ad altro titolo.

Dall’esame di tali requisiti ci si può agevolmente rendere conto del fatto che nel caso di specie manca il presupposto essenziale perché possa considerarsi nullo il patto che si intende inserire nel negozio di divisione, ovvero la sua anteriorità rispetto all’apertura della successione.
I figli, infatti, stanno disponendo, mediante divisione, di beni facenti parte di una successione che si è già aperta e, pertanto, nessuna norma impedisce loro, qualora ne ricorra il relativo consenso, di dividere come si vuole il patrimonio ereditario.

L’unico limite potrebbe ravvisarsi nella eventuale violazione della quota di riserva a taluno di loro spettante, ma anche questo limite può essere agevolmente superato facendosi applicazione del secondo comma dell’art. 557 del c.c., norma che legittima la rinuncia all’azione di riduzione.
Tale rinuncia, infatti, costituisce esercizio di un diritto potestativo il cui effetto è quello di rendere definitive e intangibili le situazioni giuridiche che si vengono a determinare sia per effetto della volontà del de cuius che per successivo accordo tra i coeredi.

In giurisprudenza, peraltro, si afferma che mentre la rinuncia di eredità, a differenza dell’accettazione, non può avvenire tacitamente, e, quindi, nessuno, inconsapevolmente può rinunciare all’eredità nella quale sia stato chiamato in forza di legge o di un testamento, al contrario è possibile che un comportamento concludente del legittimario leso o pretermesso gli possa precludere l’esercizio in giudizio dell’azione di riduzione (cfr. Cass. Civ. Sez. II, 5 gennaio 2018 n. 168).
Nel caso di specie tale comportamento concludente può individuarsi nell’aver prestato in atto pubblico il proprio consenso alla divisione, pur se quell’atto dovesse risultare potenzialmente lesivo della quota di riserva di uno dei condividenti.

A confermare, infine, la legittimità del patto che si vorrebbe inserire nell’atto di divisione, soccorre una pronuncia della Corte di Cassazione, e precisamente Cass. civ., Sez. II, 15/07/1997, n. 6471, nella quale la S.C. ritiene che sia perfino valido ed efficace l’accordo transattivo concluso fra coeredi per dividere un bene ereditario in modo difforme dalle indicazioni date dal de cuius nel testamento, affermando peraltro il ricorso al rimedio previsto dall'art. 2932 del c.c. in tutti i casi in cui sussista un obbligo a contrarre e quindi non solo nell'ipotesi di contratto preliminare ma in relazione a qualunque fattispecie dalla quale sorga un obbligo di prestare consenso per la conclusione di un negozio.