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Articolo 1355 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 26/11/2024]

Condizione meramente potestativa

Dispositivo dell'art. 1355 Codice Civile

(1)È nulla [1418] l'alienazione di un diritto o l'assunzione di un obbligo subordinata a una condizione sospensiva che la faccia dipendere dalla mera volontà dell'alienante o, rispettivamente, da quella del debitore [645](2).

Note

(1) La condizione può essere, oltre che meramente potestativa: casuale, se il suo avverarsi viene fatto dipendere dalla volontà di terzi o dal caso; potestativa se dipende dalla volontà da una delle parti la quale, però, ha un interesse al suo realizzarsi ovvero ne subisce un sacrificio (altrimenti sarebbe meramente potestativa); mista, se dipende in parte dal volere di un contraente ed in parte dal caso o da terzi.
(2) Se, invece, la volontà è quella dell'acquirente o del creditore il negozio è valido: ciò accade, ad esempio, nella vendita con patto di riscatto (v. 1500 c.c.).

Ratio Legis

La norma si giustifica con la considerazione per cui non è affidabile un impegno la cui esecuzione dipende dalla mera scelta di chi lo assume.

Brocardi

Stipulatio non valet, in rei promittendi arbitrium collata condicione

Spiegazione dell'art. 1355 Codice Civile

Requisiti per l'esistenza della clausola condizionale. A) Caratteri oggettivi dell'evento dedotto in condizione

La definizione della clausola condizionale è contenuta nell’art. 1353 del nuovo cod., che ne mette, contemporaneamente, in evidenza il carattere di accidentalità rispetto alla struttura normale del negozio giuridico e gli elementi che ne consentono la identificazione.

Una simile definizione mancava nel codice civile del 1865, che, come si è già osservato, costruiva la condizione come una modalità della obbligazione (conseguenza), trascurando sostanzialmente l'aspetto del fenomeno attinente alla struttura del negozio condizionale.

Una descrizione dei requisiti oggettivi della condizione e della sua funzione si aveva tuttavia negli articoli #1157#, che dava la definizione della obbligazione condizionale, #1158# e #1164#, che specificavano la rilevanza della condizione sospensiva e risolutiva sulla vita dell'obbligazione.

Tali norme sono state sintetizzate nella definizione contenuta nell’art. 1353 della clausola condizionale, che viene identificata nella intenzione delle parti di subordinare la efficacia o la risoluzione del contratto o di un singolo patto ad un avvenimento futuro o incerto.

Gli elementi che consentono la identificazione della clausola sono pertanto:
1) il riferimento ad un evento futuro ed incerto, e perciò i caratteri oggettivi dell'evento previsto dalle parti;
2) la funzione assegnata dalle parti all'evento stesso.

A) Caratteri oggettivi dell'evento dedotto in condizione.
L'evento dedotto in condizione deve essere futuro ed incerto. Entrambi tali caratteri sono essenziali. Tuttavia, come si vedrà, il carattere decisivo è i1 secondo.

In quanto al primo, la collocazione nel futuro dell'evento dedotto in condizione significa che il verificarsi dello stesso deve essere posteriore al momento della formazione del negozio. E perciò non si ha condizione in senso tecnico nelle ipotesi delle condizioni in praesens vel in praeteritum relatae, quando cioè le parti facciano riferimento ad un evento il cui avveramento si presenti come contemporaneo o precedente alla formazione del negozio. Non sarebbe sufficiente in questo caso la sola incertezza delle parti circa l’avveramento dell'evento. Se anche, contro la convinzione delle parti, l'evento si fosse verificato contemporaneamente o prima della conclusione del negozio, questo sarebbe puro e semplice e avrebbe prodotto tutti i suoi effetti (nel caso di condizione sospensiva), oppure sarebbe irrilevante ab origine (nel caso di condizione risolutiva) anche se l'incertezza delle parti circa l'avveramento dell'evento possa creare uno stato di pendenza analogo a quello che si verifica nel caso di vera e propria condizione.

Quando manca la collocazione nel futuro dell'evento dedotto in condizione, questo non rappresenta in realtà che una circostanza preliminare, un presupposto, dall'accertamento del cui avveramento dipende l’accertamento dell'efficacia o inefficacia immediata del negozio.

Non basta tuttavia la sola collocazione nel futuro dell’evento previsto dalle parti a rivelare la clausola condizionale, perché il riferimento al futuro è comune anche ad un altro elemento accidentale del negozio giuridico, cioè al termine. Il carattere decisivo, che individua la clausola condizionale, è, come si è accennato, la incertezza circa il verificarsi dell’evento, incertezza che,in linea di principio, deve riguardare il sia se che il quando del verificarsi stesso. Basterebbe infatti, che essa riguardasse il secondo solo di tali momenti, perché si fosse non più in presenza di una condizione, ma ancora una volta di fronte ad un termine, il quale è appunto caratterizzato dalla certezza del suo sopraggiungere che non viene toccata dalla incertezza relativa soltanto alla data della sua scadenza.

Se però il riferimento dell'evento futuro presentasse incertezza soltanto sul se, ma non sul quando, dovrebbe ammettersi l'esistenza di una vera e propria clausola condizionale, perché l'incertezza sul primo momento non può non riflettersi anche sul secondo: la certezza sul quando sarebbe infatti soltanto apparente. Poiché non è certo che l'evento si verificherà, il giudizio di certezza sul quando è meramente relativo e presuppone a sua volta, un giudizio che risolva in senso affermativo la probabilità che accompagna il se, e tale giudizio a priori, non è logicamente possibile.

Circa l'incertezza dell'evento, si discute, come è noto, se debba trattarsi di una incertezza oggettiva, assoluta o relativa ovvero se sia sufficiente che essa sia soltanto soggettiva. Prevale tuttavia la tesi intermedia, secondo cui non può bastare un semplice dubbio dei soggetti del negozio circa il verificarsi dell'evento a concretare il requisito dell'incertezza, richiesto per l'esistenza della condizione, quando tale dubbio non si giustifichi in base alle normali possibilità di conoscenza
e valutazione proprie della generalità dei soggetti.

E l’esattezza di questa soluzione non sembra poter essere negata, se si vuol mantenere il fenomeno condizionale entro limiti ben definiti e non togliere all’attività negoziale quella sicurezza che è necessaria per il regolare svolgimento dei rapporti giuridici.


Segue: funzione dell’evento dedotto in condizione

Insieme ai caratteri dell'evento previsto dalle parti, serve ad identificare la clausola condizionale la funzione che all'evento stesso le parti intendono assegnare.

In linea generale può dirsi che l'avverarsi dell'evento condizionante deve essere previsto come decisivo per l'esistenza del rapporto conseguenziale tipico, ma in modo che tale nesso di dipendenza di questo da quello sia automatico. A seconda dei casi la nascita, la risoluzione o la cessazione del rapporto conseguenziale — che, come si dirà subito, sono i tre aspetti della influenza dell'evento condizionale sull'esistenza degli effetti tipici del negozio — debbono essere previsti come necessariamente conseguenti all'avverarsi dell'evento. Esse, in altri termini, debbono verificarsi automaticamente, ope legis, in virtù della volontà originariamente manifestata, senza bisogno che il soggetto interessato debba esplicare alcuna ulteriore attività allo scopo.

Per questa ragione il nuovo codice ha giustamente eliminato dal capo riservato alla condizione (in senso tecnico) nel contratto, la disciplina della cosiddetta condizione risolutiva tacita, o per inadempimento, nei contratti con prestazioni corrispettive, già regolata dal codice del 1865 nella stessa sede riservata alle obbligazioni condizionali (art. #1165#). E per la stessa ragione non trova posto nello stesso capo, la regolamentazione della clausola o condizione risolutiva espressa, che, come quella tacita, per produrre l'effetto previsto, implica sempre un'attività ulteriore dell'interessato (vedi infatti articoli 1453, 1456 ultimo cpv. e relazione n. 618).

L'art. 1353 indica due degli aspetti sotto cui si può specificare la funzione dell'evento condizionante.

A questo infatti può essere, secondo la formula dell'art. 1353, anzitutto, subordinata l'efficacia del contratto. Si ha in tal caso quella che suole essere definita come condizione sospensiva. L'art. #1158# del codice abrogato definiva tale la condizione «che fa dipendere l'obbligazione da un avvenimento futuro ed incerto». Con la nuova formula si è voluto mettere in evidenza che l'influenza della condizione sospensiva si esaurisce sugli effetti (tipici), ma non tocca l'esistenza del negozio, risolvendo così legislativamente una questione che, come si è accennato (v. sopra n. 2 e segg.), la formula della corrispondente norma del codice del 1865 lasciava aperta.

Per effetto della condizione sospensiva si ha, pertanto, che il negozio sebbene perfetto in tutti i suoi elementi non produce il rapporto conseguenziale, che normalmente produrrebbe, ma la nascita di questo resta sospesa sino al verificarsi dell'evento condizionante, producendosi soltanto se e quando questo si verifichi.

Condizione sospensiva è, quindi, quella dal cui avveramento dipende la nascita del rapporto conseguenziale.

Si ha invece la condizione risolutiva quando, secondo la formula dell'art. 1353, le parti subordinino all'avverarsi dell'evento « la risoluzione del contratto». In tale formula sono sintetizzate le norme degli articoli #1158# cpv., #1164# del codice del 1865, che contenevano una descrizione particolareggiata del fenomeno, specificando che la condizione risolutiva non influisce sulla attualità della obbligazione, ma ne tocca l'esistenza a posteriori, provocandone, con il suo verificarsi, la caduta ab origine, e rimettendo le cose «nello stato in cui erano, come se l'obbligazione non avesse mai avuto luogo». Tale descrizione è sembrata superflua essendo chiaro il concetto di risoluzione e bastando pertanto il richiamo generico ad esso. La formula adottata dall'articolo 1353 non può dirsi tuttavia tecnicamente felice: la risoluzione infatti non tocca mai il contratto in quanto atto (negozio in senso proprio), ma soltanto gli effetti dello stesso, cioè il rapporto conseguenziale. E non diversamente della condizione sospensiva, quella risolutiva si riflette soltanto sugli effetti, non sulla esistenza del negozio.

Alla funzione meramente estintiva della condizione non accenna invece l'art. 1353. Essa tuttavia si ricava dall'art. 1360, che ammette la possibilità che la condizione non abbia efficacia retroattiva.

Nell'ipotesi che la condizione sia prevista come decisiva per la persistenza del rapporto conseguenziale, la sua irretroattività, infatti, fa sì che il rapporto conseguenziale, piuttosto che risolversi, venga a cessare, restando salvi gli effetti prodottisi tra la costituzione del negozio e l'avverarsi della condizione.

In questo caso la condizione funziona nello stesso modo di un termine finale dal quale sostanzialmente differisce per l'incertezza sull’an e sul quando della scadenza.

L'identificazione della funzione sospensiva, risolutiva o estintiva della condizione in pratica può non essere facile. A priori non è possibile stabilire alcun criterio sicuro. Si tratta di interpretare caso per caso la volontà delle parti per ricavare se esse abbiano inteso far dipendere dall'avverarsi dell'evento la nascita, la risoluzione o la cessazione del rapporto conseguenziale. Vi è però chi sostiene che debba, in linea generale, affermarsi nel dubbio l'esistenza della condizione sospensiva, perché in genere quando si parla di condizione s'intende fare riferimento alla sospensiva e perché la legge ha dimostrato di dar maggior risalto alla stessa, disponendo in un caso specifico dubbio (vendita a prova articoli #1453# cod. civ. del 1865, 1521 nuovo cod.) che il negozio deve intendersi accompagnato da condizione sospensiva e non risolutiva.

Non sembra tuttavia che tale opinione possa ritenersi sicura. Potrebbe infatti farsi richiamo all'art. 1367 nuovo cod. (art. #1132# cod. civ. del 1865), per giungere alla conclusione contraria. Se è vero infatti che, nel dubbio, il contratto deve intendersi nel senso pia favorevole alla produzione dell'effetto, dovrebbe darsi la preferenza alla condizione risolutiva che non impedisce l'immediata produzione dello stesso, anziché alla sospensiva che tale produzione impedisce.


Altri requisiti per la validità della clausola condizionale

Per essere valida la clausola condizionale deve inoltre essere lecita.

Tale è la clausola quando non è contraria a norme imperative all'ordine pubblico o al buon costume. Questa specificazione si ricava dall'art. 1354 nuovo cod. che determina gli effetti della presenza di una condizione illecita nella esistenza del contratto. Essa è sostanzialmente più ampia di quella contenuta nel corrispondente art. #1160# del codice del 1865 che faceva riferimento soltanto alla legge e al buon costume. La nuova formula che richiama più genericamente le «norme impera­tive» ha risolto positivamente una questione dibattuta sotto il vecchio codice, chiarendo che, all'effetto della liceità della condizione, può venire in considerazione non la sola legge in senso formale, ma ogni altra norma imperativa contenuta in decreti, regolamenti e ordinanze dell'autorità competente.

Si afferma anche che la condizione deve essere oltre che lecita anche possibile (arg. ex art. 1354 cpv. I), nel senso cioè che l'evento dedotto in condizione, oltre che futuro ed incerto, deve entrare nella sfera delle possibilità naturali.

In realtà, tuttavia, affermando che l'evento previsto deve essere possibile, nulla si aggiunge al requisito della incertezza, che può sussistere solo in quanto vi sia una certa probabilità che l'evento si verifichi. E così come la necessarietà dell'evento, anche la sua impossibilità fa cadere l'incertezza sul se del suo verificarsi che è decisiva per l'esistenza della condizione.


Illiceità e impossibilità della condizione. Effetti

A) La illiceità della condizione può presentarsi, secondo l'articolo 1354 nuovo cod. (#1160# cod. civ. del 1865), sotto un duplice aspetto: in quanto contrarietà alla legge o alla morale, o, come con termine più limitato dice l'art. citato, al buon costume.

Nell'illiceità giuridica è da comprendere anche iò riferimento al contrasto della condizione con l'ordine pubblico, specificazione che in realtà rappresenta un mero pleonasrno, quando si ammetta che, all'effetto della valutazione della liceità o illiceità del fenomeno, possono venire in considerazione tutte le norme, qualunque sia la loro veste formale, che pongono un limite insuperabile alla attività dei soggetti.

L'illiceità giuridica della condizione si ha non solo quando sia dedotto in condizione un fatto contrario alla legge — la cui previsione in sè e per sè, come fatto che possa verificarsi oggettivamente, può non inficiare la validità della condizione — ma particolarmente quando, attraverso essa, si tende a raggiungere uno scopo che è contrario alla legge. E’ perciò che la illiceità della condizione deve essere ricavata da tutto il complesso dell'atto, potendo in sè, essere la clausola condizionale oggettivamente lecita, ma apparire illecita nel caso concreto in relazione alla natura e, quindi, alla causa del negozio al quale è apposta.

Lo stesso vale, in sostanza, anche per la illiceità morale della condizione, la quale, naturalmente, si ha, non quando essa importi in sè stessa una violazione di norme di legge — nel qual caso si rientrerebbe nella ipotesi precedente, — ma quando la condizione che sarebbe lecita, in relazione allo scopo che i soggetti si prefiggono di raggiungere col negozio, si configuri come moralmente riprovevole. Si ha in questo caso, in definitiva, una ipotesi in cui il motivo che determina la volontà negoziale si riflette sulla validità di questa e quindi del negozio.

L'illiceità della condizione compromette decisamente la validità del negozio. L'art. 1354 stabilisce infatti, come del resto faceva l'articolo #1160# del cod. civ. del 1865, la nullità assoluta del negozio, al quale accede una condizione illecita, qualunque sia la funzione che alla stessa le parti abbiano assegnato, sia cioè essa sospensiva ovvero risolutiva.

Un caso in cui espressamente la condizione è dichiarata illecita è quello contemplato dall'art. 636 del nuovo codice (art. #350# codice del 1865), che considera tale la condizione che impedisce le prime nozze e le ulteriori. Si ha invece un caso di condizione moralmente illecita nell'ipotesi prevista dall'art. 635 nuovo cod., che stabilisce gli effetti della apposizione alla disposizione di ultima volontà della condizione di reciprocità.

E’ tuttavia da tener presente che la norma dell'art. 1354 si applica soltanto ai negozi tra vivi, nei quali soltanto esse «vitiantur et vitiant».

Per gli atti di ultima volontà invece, l'art 634 applica il principio per cui le condizioni illecite «vitiantur sed non vitiant»: esse cioè si hanno come non apposte, e la disposizione relativa si ritiene pura e semplice; con questo di particolare però che, se attraverso l'illiceità della condizione,viene messo in evidenza il motivo illecito, unico determinatore della disposizione di ultima volontà, questa è nulla (art. 636 in relaz. art. 626). Ma allora la nullità non è tanto conseguenza diretta della illiceità della condizione quanto del motivo, di cui quella è un semplice elemento rivelatore.

Un caso in cui si applicano questi principi è quello appena citato della condizione di reciprocità, che, per l'art. 635, rende nulla la disposizione alla quale accede.

Qualcuno ritiene che la stessa regola che si applica agli atti di ultima volontà, valga anche per la donazione, come dovrebbe dedursi dall'articolo 794 nuovo cod. Tale opinione tuttavia non sembra accettabile. L'art. 794 applica, invero, la stessa regola all'onere illecito nelle donazioni. Ma a parte il fatto che una cosa è l'onere (modo), un'altra la condizione, la ragione che potrebbe giustificare il principio posto dall'art. 636 per il testamento (conservazione dell'ultima volontà, c. d. favor testamenti), non sussiste più nel caso della donazione che è un atto tra vivi. E perciò non può farsi ricorso alla «analogia tra la disciplina delle donazioni e quella delle successioni testamentarie» per applicare alle prime una regola valida per il testamento e che ha, più che altro, ragioni puramente storiche e deve, perciò, essere applicata in limiti molto ristretti.

B) L'impossibilità della condizione si ha quando l'evento previsto dalle parti non può in nessun caso verificarsi. Essa può essere naturale o giuridica. Ma la condizione giuridicamente impossibile è diversa da quella contraria alla legge (vedi sopra sub A). Tale specie di impossibilità si ha, infatti, non quando il fatto o l'atto dedotto in condizione importerebbe una violazione di legge, ma quando lo stesso per un ostacolo posto dalla legge, non potrebbe in nessun caso raggiungere un effetto determinato.

A nulla importa che la impossibilità sia assoluta o soltanto relativa, che cioè nessuno e in nessun caso possa provocare l'evento previsto, o che questo invece non possa essere provocato solo da determinate persone e in certe circostanze. Poiché la legge non distingue, le due specie di impossibilità hanno la stessa rilevanza. L'impossibilità però deve essere effettiva e non semplicemente putativa, ritenuta cioè dalle parti.

L'art. #1160# del codice civile del 1865 accomunava in generale le condizioni impossibili alle illecite, stabilendo che anche esse, senza distinzione di funzione, rendessero nulla l'obbligazione.

L'art. 1354 cpv. 1 del nuovo codice ha invece, più razionalmente, distinto a seconda che alla condizione impossibile le parti abbiano assegnato funzione sospensiva ovvero risolutiva (o estintiva) del rapporto conseguenziale. Ed ha stabilito che nel primo caso il contratto è nullo, nel secondo invece è irrilevante la clausola condizionale, che si ha come non apposta, e il contratto s'intende come puro e semplice.

Tale differenza di trattamento si spiega agevolmente se si tiene presente il contenuto di volontà del negozio. Chi vuole, purché si verifichi un evento impossibile in realtà non vuole; manca una volontà seria e i1 negozio è nullo per il difetto del suo substrato materiale. Invece chi vuole che l'effetto cada (o cessi), se si verifichi un evento impossibile, in realtà vuole che l'effetto non solo si produca, ma permanga: onde la irrilevanza della condizione.

Quanto già detto per le condizioni illecite in rapporto al testamento vale, per l'art. 634, anche per le condizioni impossibili che a quelle sono pienamente accomunate: esse, pertanto, in tal caso vitiantur sed non vitiant, anche se sospensive, salvo però che attraverso esse non venga messo in evidenza il motivo illecito unico determinante della disposizione. Nel qual caso la disposizione stessa è nulla.

Occorre però avvertire che, indipendentemente, da quanto già detto, l'apposizione di una condizione impossibile, anche se soltanto risolutiva, può spesso palesare l'inesistenza di una volontà seria e,
la inesistenza del negozio.

C) Infine è da tener presente che, se il fatto illecito o impossibile è dedotto in condizione in previsione di un eventuale mutamento della legge che ne determina l'attuale illiceità, ovvero dello stato di fatto che ne fa prevedere l'impossibilita, e, quindi, del sopravvenire di condizioni che lo rendano possibile, la condizione è da ritenere valida.


Aspetti del riferimento delle parti all’evento condizionante

Il riferimento delle parti all'evento futuro ed incerto dedotto in condizione, può aver luogo in vario modo. Esso può essere, ad esempio, positivo o negativo, a seconda che le parti considerino come decisivo per l'esistenza del rapporto conseguenziale l'avverarsi ovvero il non avverarsi dell’evento. Si ha nella prima ipotesi quella che suole essere definita condizione affermativa e nella seconda la condizione negativa. Con la prima, in sostanza, l'effetto viene voluto in conseguenza del mutamento dello stato di fatto originario, con la seconda invece in previsione della permanenza dello stesso. La differenza delle due specie si manifesta, come si vedrà, quando occorre giudicare circa l'avveramento dell'evento nei due casi. A tale proposito il codice civile del 1865 poneva le norme degli articoli #1167# e #1168#, specificando quando si dovesse ritenere mancata la condizione affermativa ed avverata quella negativa. Tali norme non hanno corrispondenti nel nuovo codice civile, che ha lasciato alla dottrina il compito di chiarirne le vicende in base ai principi generali (infra n. 29 e 39).

Nel diritto italiano, sia affermativa che negativa, la condizione può essere posta indifferentemente come decisiva sia per la nascita che per la permanenza del rapporto conseguenziale, mentre per il codice napoleonico alla negativa veniva riconosciuta soltanto la prima funzione (art. #1168#).

Le parti poi possono fare riferimento a più fatti futuri ed incerti e in vario senso; in quanto cioè esse leghino la sorte del rapporto conseguenziale all'avveramento dell'uno o dell'altro fatto indifferentemente, e si ha in tal caso la condizione alternativa: o in quanto richiedano, invece, l'avverarsi di tutti i fatti previsti, nel qual caso la condizione si dice indivisibile, così come quando, dedotto un fatto che presenti una natura complessa, esso si debba verificare integralmente. Si ha invece la condizione divisibile quando basta che il fatto previsto si verifichi solo parzialmente.


Condizioni dipendenti dal caso o dalla volontà di una delle parti

L'avverarsi dell'evento dedotto in condizione può essere totalmente indipendente dalla volontà delle parti, ovvero più o meno legato a quella di alcuna di esse.

A seconda dei casi si hanno così le condizioni casuali, potestative e miste, le cui caratteristiche essenziali venivano messe in evidenza dall’art. #1159# del codice civile del 1865. Tale norma non ha corrispondenti nel nuovo codice, essendosi ritenuto compito della dottrina l'elaborazione delle caratteristiche delle tre specie (rel. n. 618). A queste può tuttavia ritenersi che le definizioni contenute nel citato art. #1159# pienamente rispondano. Quindi può continuarsi a dire casuale «la condizione il cui avveramento dipenda da un avvenimento futuro, il quale non è in potere di alcuno dei soggetti» del negozio, in quanto il suo avveramento prescinde da qualsiasi atti vita diretti o indiretta di alcuno di essi; potestativa, al contrario, «quella il cui adempimento dipende dalla volontà di uno dei contraenti»; mista infine quella in cui si riscontrano insieme elementi delle due specie precedenti, in quanto l'evento «dipende ad un tempo dalla volontà di una delle parti contraenti e dalla volontà di un terzo» o, il che è lo stesso «dal caso».

La prima e l'ultima specie non danno luogo a particolari rilievi relativamente al problema della loro influenza sulla esistenza del negozio. Ne presenta invece notevoli la condizione potestativa.

Se infatti si tiene presente la definizione appena citata che di questa dà l’art. #1159# del codice civile del 1865, risulta che essa lascia sostanzialmente l'avveramento della condizione, e quindi l'esistenza degli effetti del negozio, in potere di una delle parti. Orbene, se, come si è detto, il negozio condizionale, in quanto perfetto, impegna le parti ab origine a subire gli effetti subordinati all'avveramento della condizione, il fatto che questo sia dipendente dalla volontà di una delle parti, potrebbe significare che questa non ha voluto impegnarsi fin da principio, ma si è invece riservata di decidere successivamente se addivenire o meno alla costituzione del rapporto. E questa mancanza di una volontà iniziale si tradurrebbe nella inesistenza attuale del negozio.

A) — Ciò può verificarsi quando l'avveramento della condizione sia rimesso alla «sola» volontà di uno dei soggetti, o in altri termini a un atto puramente arbitrario (si volam) dello stesso. In tal caso, in cui la condizione si dice meramente potestativa, occorre pere distinguere, perché può essere considerata decisiva la sola volontà del soggetto, a cui favore, in virtù dell'avveramento della condizione, sorge un diritto; ovvero quella, del soggetto, per cui dall'avveramento della condizione, sorge un obbligo. La condizione meramente potestativa provoca la nullità del negozio soltanto quando sia a parte debitoris: soltanto in tal caso infatti può dirsi che ci sia una riserva circa la effettività del vincolo negoziale, proprio perché questo non dipende da una volontà originaria di colui che deve subire i1 vincolo, ma da una sua eventuale arbitraria decisione successiva. Se invece la stessa condizione fosse a parte creditoris, poiché i1 soggetto che deve subire il vincolo ha già dimostrata la sua volontà di subirlo, il negozio sarebbe valido e ne sarebbero incerti soltanto gli effetti.

Per questo l'art. 1162 stabiliva la nullità dell'obbligazione soltanto quando la sua esistenza dipendesse da una condizione il cui avveramento fosse rimesso alla mera volontà di colui che si fosse obbligato.

Tale norma tuttavia era in sè stessa eccessiva, non distinguendo se la condizione meramente potestativa a parte debitoris fosse sospensiva ovvero risolutiva (o estintiva). In ogni caso essa, per l’art. 1162 del codice abrogato, aveva la stessa rilevanza. In realtà però quanto sopra si è osservato si applica alla sola ipotesi di condizione sospensiva meramente potestativa a parte debitoris non a quella risolutiva (o estintiva). Poiché in questo caso, infatti, prima di volere che gli effetti si risolvano (o cessino) occorre volere che essi si producano, la volontà negoziale è quella che mette in essere l'evento condizionante (risolutivo o estintivo), sono nettamente distinte, sia logicamente che cronologicamente. Vi è, pertanto, sempre una volontà originaria di subire il vincolo e il negozio, sorge regolarmente.

La riserva del debitore, non riguarda l'attualità del vincolo, quanto l'eventuale scioglimento (o l'eventuale estinzione) del rapporto conseguenziale.

Per questa ragione l’art. 1355 del nuovo codice ha limitato più esattamente la nullità del negozio alla sola ipotesi di condizione meramente potestativa sospensiva a parte debitoris.

Tale regola si applica a tutte le categorie di negozi, sia diretti a costituire un rapporto puramente obbligatorio, sia diretti al trasferimento di diritti. L'art. 1355 ha specificato tale punto esplicitamente, per togliere il dubbio — che poteva sorgere della dizione dell'art. 1162 del codice abrogato in cui si parlava genericamente di nullità della obbligazione, — che la regola valesse soltanto per la prima categoria di negozi. In quanto ai secondi, perché si abbia la nullità, occorre che la condizione meramente potestativa sospensiva sia a parte dell'alienante.

B) — Quanto appena si è detto, non si può verificare in nessun caso, qualunque sia la funzione della condizione e qualunque sia la posizione del soggetto dalla volontà del quale dipenda il suo avveramento, quando tale volontà sia determinata da motivi seri ed apprezzabili che rappresentino un interesse giustificato del soggetto al compimento dell'atto, in cui si concreta l'evento condizionante. In tal caso viene meno il carattere di arbitrarietà della volontà; giacché, come ben si è osservato, al compimento o all'omissione dell'atto condizionante debbono concorrere dei motivi di fatto non sempre dipendenti dalla volontà. Nel meccanismo di produzione dell'evento si inserisce pertanto una certa dose di casualità e perciò la condizione si suole chiamare potestativa impropria o semplice. Essa non influisce in nessun modo sulla esistenza del negozio; perché anche se sospensiva a parte debitoris, non rappresenta mai, come invece può accadere per la meramente potestativa, una duplicazione della volontà negoziale incerta, in quanto non ha per motivo determinante la costituzione del vincolo ma un motivo autonomo, del tutto particolare, che da quella nettamente la distingue. La struttura della volontà negoziale nei due casi si può figuratamente descrivere come segue: voglio a, se voglio a; voglio a, se voglio x.

La distinzione tra condizione potestativa semplice e meramente potestativa è spesso facile, perché nel primo caso, in genere, si fa riferimento alla volontà della parte, puramente e semplicemente, quanto al compimento di un atto, la cui estrinsecazione basta da sola a palesare i particolari motivi che determinano la volontà dell'agente. Ma se si tiene presente che la tendenza della dottrina e della giurisprudenza è indirizzata nel senso più favorevole alla validità della clausola, affermando la presenza di una condizione potestativa semplice anziché meramente potestativa anche quando sia sostanzialmente dedotto in condizione un semplice stato soggettivo o una valutazione esclusiva della parte, apparirà subito chiaro come la distinzione possa essere in pratica ardua.

Due esempi tipici, espressamente previsti dal codice, si hanno nella vendita ad assaggio (art. #1453# cod. civ. del 1865; art. 1521 nuovo cod.) nella vendita con riserva di gradimento (art. 1520 nuovo cod.). In entrambi i casi viene dedotto in condizione il fatto che l'oggetto venduto, piaccia al compratore (si placuerit), cioè uno stato puramente soggettivo, un sentimento, un piacere della parte, ma, ciò nonostante, il negozio è valido. Questa stessa validità, tuttavia, deve far pensare che la libertà di valutazione dell'oggetto riservata al compratore, non possa ritenersi illimitata, sino a coincidere con l'arbitrio o col capriccio, poiché in tal caso si avrebbe la nullità, del negozio per le ragioni già messe in evidenza. Deve quindi trattarsi di una discrezionalità di valutazione che non esuli dai limiti della normalità, e la eventuale decisione negativa del compratore va appunto giudicata secondo tale normalità. Entro questi limiti, il motivo autonomo che giustifica la condizione si placuerit, viene appunto rappresentato dalla valutazione delle qualità dell'oggetto.

Si ritiene, d'altra parte, che la stessa condizione si volam, perda il carattere della arbitrarietà, e sia perciò valida, anche se sospensiva a parte debitoris, quando essa sia apposta ad un contratto sinallagmatico. In tal caso infatti non potrebbe mai darsi che la parte dalla cui sola volontà dipende l'avveramento della condizione, manchi di un apprezzabile interesse al compimento del fatto previsto, essendo tale interesse racchiuso, per lo meno, nel vantaggio di ricevere la contro prestazione dell’altro contraente. Sarebbe sostanzialmente la stessa causa del contratto sinallagmatico e la corrispettività delle obbligazioni delle parti ad impedire di giudicare meramente potestativa la condizione. Il sinallagma non verrebbe meno, per effetto della condizione si volam, perché una delle parti ha inteso vincolarsi immediatamente, e tale suo vincolo fa da corrispettivo al vincolo eventuale dell'altra.

L'esattezza di questa affermazione è tuttavia assai dubbia, non sembrando che si possa giustificare l'esistenza del doppio vincolo che è caratteristica dei contratti onerosi, dalla sola volontà attuale di una delle parti di subire il proprio vincolo, quando invece sia dubbio, come nel caso di una condizione si volam, se l'altra parte voglia attualmente addivenire alla costituzione del negozio. Né potrebbe giustificarsi la indipendenza della volontà, attraverso cui deve essere messo in essere l'evento previsto, dalla volontà originaria ad negotium, col riferimento all'interesse alla controprestazione dell'altra parte, poiché tale motivo sarebbe comune anche alla volontà negoziale, rappresentandone anzi uno dei fattori che la determinano.

Comunque, se dovesse ritenersi esatta l'opinione accennata, la norma dell'art. 1355 finirebbe con l'applicarsi soltanto agli atti unilaterali e ai contratti onerosi, solo quando fosse condizionata una sola delle obbligazioni e non quelle di entrambi le parti.

C) — Occorre infine avvertire che la condizione potestativa, a volte, difficilmente può distinguersi da un altro elemento accidentale, cioè dal modo che può accompagnare gli atti di liberalità, e, rappresentando l'imposizione di un obbligo a carico del soggetto onorato, può presentarsi come una condizione il cui avveramento sia fatto dipendere dalla volontà dello stesso. E la distinzione è importantissima, perché assai diversi sono la funzione e il meccanismo della condizione, dalla funzione e dagli effetti del modo. Basti accennare che, mentre la prima, se sospensiva, impedisce sino a che non sia adempiuta la nascita dell'effetto, e se risolutiva o estintiva, col suo verificarsi, importa automaticamente la cessazione dell'effetto stesso, il modo non solo non impedisce l'effetto del negozio, ma anche se inadempiuto, non fa cadere l'effetto, se non in certi casi e attraverso l'esperimento dell'azione di risoluzione da parte dell'interessato (articoli 648-793, 1° e 2° cpv.). E mentre qualunque interessato può agire per l'adempimento del modo, che è un atto obbligatorio, nessuno può agire per l'adempimento della condizione potestativa, che per sua natura è sempre un atto il cui compimento è lasciato alla discrezione della parte, e perciò, puramente libero.

In pratica non è sempre agevole accertare, sopratutto quando si tratti di disposizioni di ultima volontà, se una clausola rappresenti una condizione o un modo, perché le medesime espressioni vengono adoperate per indicare l'uno o l'altro dei due elementi. I criteri proposti sono tutti, più o meno, approssimativi, e, in realtà, non resta che tentare di interpretare caso per caso la volontà negoziale, per vedere se si sia voluto far dipendere la sussistenza dell'effetto da un avvenimento futuro ed incerto, o invece ottenere immediatamente l'effetto stesso, salva l'imposizione di un obbligo al soggetto beneficiario. Nell’incertezza, tuttavia, si ritiene che debba darsi la preferenza al modo e non alla condizione, in quanto il primo, a differenza della seconda, non ostacola l'efficacia del negozio (art. 1367 nuovo cod.).


Negozio interamente e parzialmente condizionale

Secondo l'art. 1353 nuovo cod. la clausola condizionale può interessare tutto il contenuto del negozio ovvero un singolo patto. Ciò naturalmente è possibile quando la negoziazione riguardi più punti non indissolubilmente collegati, ma che siano tra loro o indipendenti o nel rapporto di principale ad accessorio..
Nella prima ipotesi, poiché in realtà, si hanno tanti negozi quanti sono i singoli punti su cui cade la determinazione dei soggetti, la condizione che accede a un singolo patto logicamente non ha alcuna influenza sugli altri, i quali trovano attuazione indipendente e possono, singolarmente, essere accompagnati da condizioni anche diverse. Nella seconda ipotesi, invece, giusta i principi generali in tema di accessorietà, la condizione che tocca la parte principale si estende al patto accessorio ma non viceversa.

L’art. 1354 ult. cpv. estende le regole dettate dai commi precedenti, a proposito delle condizioni illecite e impossibili all'ipotesi che la condizione riguardi solo una parte del contenuto del negozio.

L'illiceità o l'impossibilita. (della condizione sospensiva) pregiudica soltanto la volontà del singolo patto condizionato, lascia però integra la rimanente parte del negozio, a meno che non risulti che i contraenti non avrebbero concluso il contratto senza quel patto (art. 1354 ult. comma in relaz. art. 1419). Ma in questo caso non si avrebbe una condizionalità puramente parziale. Il patto condizionale non potrebbe essere scisso dal resto del contenuto del contratto, e la condizione quindi riguarderebbe in realtà tutto il negozio. Per tutti gli altri casi di nullità parziale dovuta a nullità della clausola condizionale si applica la norma dell'art. 1419.


Apponibilità della clausola condizionale ai negozi giuridici

Il codice non segna alcun limite alla apponibilità della condizione. (l’inapponibilità della condizione può tuttavia essere conseguenza della natura e della funzione tipica (val quanto dire della causa, sopra, I n. 5) del negozio, che, sorgendo sul fondamento di una situazione di fatto attuale, ed escludendo la contemplazione di un mutamento sopravvenuto di questa, produce un effetto immediato e definitivo, la sicurezza della cui esistenza rappresenta una esigenza che non può essere compromessa dai privati, mediante la subordinazione dell'effetto stesso al verificarsi di un avvenimento futuro ed incerto.

I casi in cui è espressamente prevista dalla legge la inapponibilità della clausola condizionale riguardano tutti negozi unilaterali, o negozi bilaterali che non sono contratti: essi sono i seguenti: 1) matrimonio (art. 108); 2) accettazione dell'eredità (art. 475) e rinunzia alla medesima (art. 520); 3) disposizione testamentaria relativa alla sola quota di riserva (articoli 549, 734, 735 cpv.); 4) accettazione dell'incarico di esecutore testamentario (art. 702); 5) girata dei titoli all'ordine (articolo 2010), e, in particolare, della cambiale (art. 16 R. D. 21 dicembre 1933, n. 1736); 6) abbandono all'assicuratore della cosa assicurata contro i rischi della navigazione (art. 535 cod. nav.).

Ma oltre che in questi casi espressamente previsti, l’inapponibilità della condizione, spesso, per ragioni sostanzialmente identiche, vale anche 7) per tutti i negozi che tendono a creare uno stato della persona, cioè oltre il matrimonio, riconoscimento e legittimazione dei figli naturali, adozione, affiliazione, emancipazione, 8) per la nomina di protutori e curatori, per cui sotto il vecchio codice, accanto all'opinione che negava in modo assoluto l'opponibilità della condizione, si era affermata quella che limitava la inapponibilità alla sola condizione sospensiva. Va però avvertito che col nuovo codice la questione può ancora farsi relativamente alla nomina di curatore (v. ad es. art. 396), poiché quella di tutori e protutori è ormai opera esclusiva del giudice tutelare (art. 346), e la nomina da parte dell'esercente la patria potestà, vale come semplice designazione che non vincola il magistrato (art. 348).

D'altra parte per la nomina di curatori, ad escludere che essa possa comunque essere condizionata, sembra decisivo il rilievo che la funzione di costoro, come quella dell'esecutore testamentario, non può tollerare sospensioni o incertezze e che di essa sono ammissibili interruzioni, solo per motivi gravi, quali incompatibilità o materiali ostacoli al suo svolgimento da parte di un determinato soggetto, nel quale caso occorre provvedere alla sostituzione di questo. 9) Le stesse esigenze della circolazione e della tutela dei terzi che giustificano la incondizionalità della girata dei titoli all'ordine, e dell'accettazione cambiaria, consigliano di estendere tale norma a tutte le fasi di esistenza dei titoli di credito in genere.

La condizione si ritiene inoltre incomputabile con la natura (causa): 10) della nota di sottoscrizione di azioni di società, poiché la società non può dirsi legalmente costituita se non dopo che sia sottoscritto per intero il capitale sociale (art. 2329 n. 1, nuovo cod.), il che non potrebbe affermarsi qualora la nota fosse condizionata; 11) di tutti gli atti unilaterali, che colpiscono direttamente la sfera patrimoniale di un altro soggetto, i legittimi interessi del quale sarebbero pregiudicati dalla situazione di incertezza creata dalla condizione. Tali ad es. il recesso unilaterale (art. 1373); la rinunzia al legato (articoli 640, 65o), la scelta nel legato di scelta (articoli 664, 665); la scelta nelle obbligazioni alternative (art. 1286), l'esercizio del diritto di riscatto (art. 1503), la richiesta di scioglimento della comunione (art. 1111); l'offerta di pagamento (art. 1208 e segg.) ; la disdetta di locazione, etc.

Accanto a questi negozi per i quali la inapponibilità di condizione è assoluta, ve ne sono altri, per cui essa e relativa, nel senso che la condizione è esclusa in uno soltanto dei suoi aspetti.

Così ad es. si ritiene che la condizione sospensiva non sia compatibile con la separazione consensuale dei coniugi, che tollera invece quella risolutiva. Ed essa deve essere esclusa da tutti i contratti reali, dei quali non impedirebbe soltanto l'effetto, bensì il perfezionamento che avviene con la consegna della cosa. Essendo qui infatti perfezionamento ed efficacia del negozio contemporanei, e dipendendo entrambi dalla consegna della cosa, per impedire l'effetto del negozio occorrerebbe non eseguire la consegna e quindi non perfezionare il contratto. Ciò posto, la condizione sospensiva non influirebbe soltanto sulla efficacia del negozio, bensì sulla sua esistenza. Perciò l'apposizione della clausola condizionale al contratto reale opera una conversione del contratto stesso in promessa di contratto, la cui attuazione è subordinata al verificarsi della condizione.

Si deve invece escludere l'ammissibilità della condizione risolutiva per i negozi familiari a carattere patrimoniale, e, in particolare, per la costituzione di dote e di patrimonio familiare, istituti entrambi la cui esistenza concreta è indissolubilmente legata alla durata del vincolo familiare, di cui essi devono servire a sostenere gli oneri. Se d'altra parte, tali negozi ammettessero la condizione risolutiva, attraverso la clausola condizionale potrebbe facilmente eludersi la inalienabilità dei beni costituiti in dote o in patrimonio familiare, che è un corollario logico della funzione che essi sono destinati ad esplicare (cfr. articoli 187-190, 169-170 nuovo cod.).

La stessa condizione risolutiva non sarebbe inoltre applicabile alla concessione di enfiteusi, perpetua o temporanea, e non solo perché essa verrebbe a eliminare il diritto di affrancazione che spetta all'utilista (art. 971), ma anche perché avendo l'enfiteusi la funzione di promuovere il miglioramento del fondo essa deve protrarsi logicamente nel tempo, tanto che la legge espressamente stabilisce che il termine minimo stabilito per la sua durata (20 anni) non può essere limitato dalle parti (articoli 957 cpv, 958 nuovo cod.). Tanto meno, pertanto, essa può essere soggetta ad un improvviso troncamento per effetto di una condizione risolutiva.

In altri casi l'apponibilità di condizioni è ancor più relativa, perché la condizione è o meno apponibile non solo in considerazione della sua funzione, quanto anche tenuto conto del contenuto dalla previsione e del fatto dedotto in condizione. Così ad es. non era apponibile, secondo il codice del 1865 alla donazione, la condizione meramente potestativa risolutiva, la quale, facendo venir meno il carattere di irrevocabilità dell'atto, avrebbe snaturato l'essenza di questo (articoli #1050#-#1066# cod. civ. del 1865). Essendo stato dal nuovo codice soppresso il carattere di irrevocabilità della donazione (v. art. 769 nuovo cod. e relazione n. 372), la questione può dirsi dubbia.

Alcuni casi particolari in cui l'inapponibilità è dichiarata dal codice sono stati richiamati sopra (n. 4) a proposito degli articoli 635 e 636 del nuovo cod. In tali casi tuttavia si hanno ipotesi di condizioni illecite, che quindi seguono la sorte generale di queste.


Effetti della presenza di clausole condizionali inapponibili

Salvo che la legge disponga altrimenti, stabilendo che la condizione inapponibile debba ritenersi come non apposta e il negozio puro e semplice (cfr. articoli 108, 634, 2010 nuovo cod.; art. 16 R. D. 21 dicembre 1933, n. 1699 ; art. 18 R. D. 21 dicembre 1933, n. 1736), la presenza di una clausola condizionale contraria alla natura del negozio, importa necessariamente la nullità di questo. Ciò discende logicamente dal principio della uniicità del contenuto di volontà del negozio condizionato, contenuto del quale la clausola condizionale è parte integrante e perciò, inscindibile.

Forma della clausola condizionale

Il negozio condizionale deve presentare gli stessi requisiti formali del negozio puro e semplice. Se per questo è richiesta ad substantiam una determinata forma (art. 1350 e segg. nuovo cod.), anche la clausola condizionale deve essere espressa nella medesima forma.

Qualora ciò non avvenga, il negozio è da ritenersi sostanzialmente nullo a sensi degli articoli 1418 cpv I, 1325 n. 1, nuovo cod., poiché essendo la clausola condizionale parte inscindibile del contenuto della volontà negoziale, l'espressione formale di questa, non comprendente la clausola negoziale, non corrisponde alla vera volontà delle parti. Tale nullità tuttavia, mentre può essere fatta valere e dimostrata con tutti i mezzi, se la forma necessaria e sufficiente sia la scrittura privata, la quale, se sia riconosciuta, fa fede soltanto della provenienza delle dichiarazioni in essa contenute, ma non della vera entità delle stesse (art. 2702), non può esserlo invece quando sia stato redatto atto pubblico, per disconoscere il quale occorrerebbe la querela di falso (art. 2700).

Quando non sia richiesta una forma particolare, la clausola condizionale, può essere espressa anche tacitamente, purché risulti da fatti concludenti attraverso le circostanze preliminari alla formazione del negozio. Ond'è che si parla di condizione espressa e tacita. Dalle condizioni tacite, nel senso appena accennato, occorre distinguere quelle che accompagnano normalmente il negozio perché previste da una norma di legge (condiciones iuris) e quelle che, pur non derivando da una disposizione normativa, risultano implicite nelle circostanze in cui si concreta la fattispecie negoziale (condizioni supervacuae). Un esempio di quest'ultima specie si ha nell'ipotesi di donazione in riguardo di matrimonio (art. 785 nuovo cod.), la cui efficacia resta appunto sospesa sino a quando non segua il matrimonio.

Trascrizione del negozio condizionale

Come non influisce sulla forma del negozio, così la clausola condizionale non esclude in nessun caso la necessità della trascrizione, quando questa sia prescritta, affinché gli effetti si producano validamente anche nei confronti dei terzi (arg. ex art. 2655 nuovo cod.).

Occorre però avvertire che perché nei confronti dei terzi si verifichino gli effetti dell'avveramento della condizione, di tale fatto occorre altresì fare annotazione in margine alla trascrizione dell'atto. L'articolo 2655 1° comma, in realtà, prescrive l'annotazione esclusivamente con riferimento al negozio con condizione risolutiva; ma essa si palesa tanto più necessaria nella ipotesi di condizione sospensiva, tenuto conto, che in questa ipotesi gli effetti tipici del negozio si verificano soltanto al momento dell'intervento dell'evento condizionante, anche se poi retroagiscono eventualmente al momento della conclusione del negozio. La semplice trascrizione di questa invero, non basterebbe a rendere certo il rapporto conseguenziale. Né potrebbe farsi carico ai terzi di accertare di volta in volta l'avveramento oil mancato avveramento della condizione sospensiva che accompagna l'atto trascritto, e quindi, la sussistenza o la insussistenza del rapporto conseguenziale.

Particolarmente evidente poi si rende la necessità della annotazione dell'avveramento della condizione sospensiva, quando questa non abbia efficacia retroattiva.

Prova della clausola condizionale

La prova della clausola condizionale deve essere data, secondo le regole generali, da chi, ad essa fa appello, sia che si tratti di condizione sospensiva, sia che invece, si tratti di condizione risolutiva o estintiva.

Nel diritto italiano non sembra ammissibile la cosiddetta teoria della negazione, prevalente nella dottrina tedesca secondo la quale, se il convenuto pur ammettendo l'esistenza del negozio, affermi che questo è avvenuto con condizione sospensiva, spetta all'attore di dimostrare che il negozio è puro e semplice, perché l'eccezione relativa alla condizione equivale sostanzialmente alla negazione della domanda dell'attore.

Allo stesso risultato giungeva, sotto il vecchio codice, la dottrina italiana sulla base della inscindibilità della confessione resa dal convenuto nell'ammettere l'esistenza del negozio, ma con l'aggiunta della condizione (arg. ex art. 1360).

In quanto a quest'ultimo punto, è da osservare che nel nuovo codice la inscindibilità della confessione è assai relativa, perché per l’art. 2734 le dichiarazioni riguardanti «fatti e circostanze tendenti ad infirmare l'efficacia del fatto confessato ovvero a modificarne o a estinguerne gli effetti fanno piena prova nella loro integrità» soltanto nella ipotesi, piuttosto rara, che l'altra parte non ne contesti la verità. In caso di contestazione, spetterà al giudice di apprezzare, secondo le circostanze, l'efficacia probatoria delle dichiarazioni stesse.

Ora nell'ipotesi dell'affermazione di una condizione sospensiva da parte del convenuto, se il giudice, in base alle circostanze che l'accompagnano, ritiene che essa basti a provare l'esistenza della condizione nulla quaestio, perché in realtà sarà stato il convenuto a dare la prova richiesta. Ma in caso contrario, poiché affermando la condizione sospensiva, il convenuto eccepisce l’inefficacia (attuale) del fatto (negozio) costitutivo del diritto dell’attore, egli, ai sensi dell’art. 2697 cpv., deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda, e cioè l'esistenza della condizione sospensiva.

Per lo stesso art. 2697 cpv. se il convenuto afferma l'esistenza di una condizione risolutiva, a lui spetta di dame la prova, perché egli afferma un fatto che attualmente limita il diritto dell'attore e ne rappresenta una causa estintiva potenziale.

La prova della clausola condizionale soggiace in ogni caso ai limiti generali stabiliti dagli articoli 2721 e segg., sia per quanto riguarda quelli derivanti dal valore dell'oggetto, sia per quanto riguarda quelli connessi con la forma del negozio, cui essa si riferisce.

Relazione al Libro delle Obbligazioni

(Relazione del Guardasigilli al Progetto Ministeriale - Libro delle Obbligazioni 1941)

205 E' stata mantenuta la norma dell'art. 1162 cod. civ. quanto alla condizione potestativa ex parte debitoris (articolo 224).
Essa non è in contrasto, come si è sostenuto da qualcuno, con i principi che regolano la vendita con assaggio: in questa ultima ipotesi la legge non ravvisa un caso di negozio sub condicione, ma piuttosto un'ipotesi di negozio non ancora perfetto nel suo meccanismo di formazione.

Massime relative all'art. 1355 Codice Civile

Cass. civ. n. 21111/2022

Il lodo, promosso dal promittente venditore ai sensi dell'art. 2932 c.c., per l'inadempimento del promittente acquirente, che abbia disposto il trasferimento di un immobile in favore di quest'ultimo, subordinatamente al pagamento da parte sua del corrispettivo pattuito, è soggetto a imposta in misura fissa, in applicazione dell'art. 27, comma 1, del d.P.R. n. 131 del 1986, ove venga accertato che il lodo abbia subordinato l'efficacia del trasferimento alla volontà di una parte che è sempre rimasta inadempiente non avendo mai voluto, né potuto, adempiere l'obbligazione assunta con il contratto preliminare, sicché tale condizione sospensiva non può qualificarsi come meramente potestativa.

Cass. civ. n. 31319/2021

In tema di locazione tra persone giuridiche, ove le parti stipulino un negozio di accertamento per eliminare la "res dubia" relativa ai crediti da essa nascenti, la clausola di tale negozio che ne subordini l'esigibilità alla condizione sospensiva di carattere negativo che un nuovo contratto di locazione, con cui la locatrice abbia concesso il godimento della "res locata" ad altro conduttore di cui essa sia socia di maggioranza, "non giunga a buon fine", è meramente potestativa, poiché dà luogo ad una ipotesi di abuso della personalità giuridica, e deve pertanto ritenersi nulla ai sensi dell'art. 1355 c.c.

Cass. civ. n. 30143/2019

La condizione è "meramente potestativa" quando consiste in un fatto volontario il cui compimento o la cui omissione non dipende da seri o apprezzabili motivi, ma dal mero arbitrio della parte, svincolato da qualsiasi razionale valutazione di opportunità e convenienza, sì da manifestare l'assenza di una seria volontà della parte di ritenersi vincolata dal contratto, mentre si qualifica "potestativa" quando l'evento dedotto in condizione è collegato a valutazioni di interesse e di convenienza e si presenta come alternativa capace di soddisfare anche l'interesse proprio del contraente, soprattutto se la decisione è affidata al concorso di fattori estrinseci, idonei ad influire sulla determinazione della volontà, pur se la relativa valutazione è rimessa all'esclusivo apprezzamento dell'interessato. (Nella specie, la S.C. ha reputato potestativa la condizione sospensiva apposta ad un contratto di compravendita di un terreno, avente ad oggetto la conclusione di un contratto di locazione sui fabbricati da costruire, entro un certo termine, con un terzo conduttore non identificato, sussistendo un apprezzabile interesse ed essendo il suo avveramento alla volontà di un terzo).

Cass. civ. n. 9879/2018

La costituzione di una servitù volontaria ben può essere subordinata a condizione risolutiva, che non è incompatibile con la costituzione di una servitù poiché non incide sul requisito della permanenza, connaturale al contenuto reale dell'asservimento tra due fondi, ma si risolve in un modo convenzionale di estinzione della servitù stessa. Tale condizione è valida anche se meramente potestativa, in quanto l'art. 1355 c.c. limita la nullità, nell'ambito delle condizioni meramente potestative, a quelle sospensive. (Rigetta, CORTE D'APPELLO GENOVA, 13/08/2013).

Cass. civ. n. 17770/2016

In tema di contratto di agenzia, la clausola contrattuale che prevede la facoltà della società mandante di tenere l'agente vincolato al divieto di concorrenza nei suoi confronti ed il correlato obbligo della medesima società di corrispondere un corrispettivo in caso di esercizio di tale facoltà, non integra una condizione meramente potestativa, in quanto l'efficacia dell' obbligazione non dipende dalla volontà dello stesso debitore, ossia dell'agente sul quale grava l'obbligo di non-concorrenza, bensì da quella della parte creditrice, ovvero della casa mandante, sicché tale patto non rientra nella previsione di nullità di cui all'art. 1355 c.c., ma va qualificato come patto di opzione ex art. 1331 c.c.

Cass. civ. n. 19045/2015

In tema di lavoro pubblico negli enti locali, il riferimento alla futura adozione di un atto organizzativo attuativo del contratto collettivo regionale di lavoro, contenuto nel provvedimento di originario conferimento di incarico dirigenziale, è qualificabile non come condizione risolutiva meramente potestativa (da ritenersi nulla e non apposta), ma come indicazione, ove il Comune non abbia ancora dato attuazione alle disposizioni collettive (nella specie, gli artt. 31-34 del c.c.r.l. Enti locali biennio 2000/2001), di un termine incerto nel "quando" ma certo nell'"an" dovendo l'ente locale provvedervi, sicché gli incarichi dirigenziali conferiti anteriormente, a norma dell'art. 109, comma 2, del d.lgs. n. 267 del 2000, sono destinati a perdere ogni effetto dal momento dell'adozione dei nuovi provvedimenti organizzativi.

Cass. civ. n. 20735/2014

In materia di pubblico impiego, il bando di concorso per l'assunzione di personale ha duplice natura giuridica di provvedimento amministrativo e di atto negoziale (offerta al pubblico) vincolante nei confronti dei partecipanti al concorso. Ne consegue che l'atto di approvazione della graduatoria è illegittimo qualora si ponga in contraddizione con la delibera di indizione e con il bando ("lex specialis" del concorso), mentre la clausola con cui la P.A. si riservi la facoltà di non procedere all'assunzione è nulla perché integra una condizione meramente potestativa ai sensi dell'art. 1355 cod. civ. Né, in assenza di un "contrarius actus", è possibile attribuire efficacia alcuna alla volontà della P.A. di annullare o revocare il bando, risultando l'autotutela esercitata in carenza di potere e con atti illegittimi per difetto di forma.

Cass. civ. n. 18239/2014

La condizione è "meramente potestativa" quando consiste in un fatto volontario il cui compimento o la cui omissione non dipende da seri o apprezzabili motivi, ma dal mero arbitrio della parte, svincolato da qualsiasi razionale valutazione di opportunità e convenienza, sì da manifestare l'assenza di una seria volontà della parte di ritenersi vincolata dal contratto, mentre si qualifica "potestativa" quando l'evento dedotto in condizione è collegato a valutazioni di interesse e di convenienza e si presenta come alternativa capace di soddisfare anche l'interesse proprio del contraente, soprattutto se la decisione è affidata al concorso di fattori estrinseci, idonei ad influire sulla determinazione della volontà, pur se la relativa valutazione è rimessa all'esclusivo apprezzamento dell'interessato.

Cass. civ. n. 11774/2007

La condizione è «meramente potestativa» quando consiste in un fatto volontario il cui compimento o la cui omissione non dipende da seri o apprezzabili motivi, ma dal mero arbitrio della parte, mentre si qualifica «potestativa» quando la volontà del debitore dipende da un complesso di motivi connessi ad apprezzabili interessi che, pur essendo rimessi all'esclusiva valutazione di una parte, agiscano sulla sua volontà determinandola in un certo senso.

Cass. civ. n. 17859/2003

Poiché le parti possono, nell'ambito dell'autonomia privata, prevedere l'adempimento o l'inadempimento di una di esse quale evento condizionante l'efficacia del contratto sia in senso sospensivo che risolutivo, non configura una illegittima condizione meramente potestativa la pattuizione che fa dipendere dal comportamento — adempiente o meno — della parte l'effetto risolutivo del negozio, e ciò non solo per l'efficacia (risolutiva e non sospensiva) del verificarsi dell'evento dedotto in condizione ma anche perché tale clausola, in quanto attribuisce il diritto di recesso unilaterale dal contratto — il cui esercizio è ramoso a una valutazione ponderata degli interessi della stessa parte — non subordina l'efficacia del contratto a una scelta meramente arbitraria della parte medesima. Ne consegue che l'avveramento della condizione di fatto non costituisce atto illecito e non è perciò fonte di obbligazione risarcitoria.

Cass. civ. n. 8390/2000

La condizione meramente potestativa e la conseguente sanzione di nullità di cui all'art. 1355 c.c. non sussistono quando l'impegno che la parte si assume, non è rimesso al suo mero arbitrio ma è collegato ad un gioco di interessi e di convenienza e si presenta come alternativa capace di soddisfare anche il proprio interesse, mentre la condizione potestativa invalidante il negozio è quella che dipende dal mero arbitrio del soggetto obbligato, cosa da presentarsi come effettiva negazione di ogni vincolo con la conseguenza che essa deve escludersi quando l'evento dedotto dipenda anche dal concorso di fattori estrinseci che possono influire sulla determinazione della volontà pur se la relativa valutazione sia rimessa all'esclusivo apprezzamento dell'interessato.

Cass. civ. n. 5631/1985

Nell'ambito delle condizioni meramente potestative, l'art. 1355 c.c. commina la nullità soltanto per le condizioni sospensive e non anche per le condizioni risolutive, delle quali pertanto va riconosciuta la validità anche se meramente potestative.

Cass. civ. n. 2504/1974

La differenza fra il recesso dal contratto e la condizione potestativa risolutiva, la cui validità si desume dall'art. 1355 c.c., consiste nell'effetto retroattivo di quest'ultima rispetto a quello del recesso. Deve pertanto ravvisarsi la ipotesi della condizione risolutiva potestativa solo se risulti che la caducazione della efficacia di un contratto sia stata accettata, al momento della pattuizione, da entrambe le parti con efficacia ex tunc.

Cass. civ. n. 624/1974

La norma dell'art. 1355 c.c. limita la nullità del negozio alla sola ipotesi della condizione sospensiva meramente potestativa a parte debitoris, il cui avveramento è rimesso alla volontà di uno dei soggetti, e cioè ad un suo atto puramente arbitrario, tale da implicare l'effettiva negazione del vincolo. Nel caso, invece, della condizione potestativa semplice, la volontà dei contraenti è determinata da elementi estrinseci, onde, pur se la loro valutazione è sempre riservata all'interessato, vien meno ogni carattere di arbitrio e conseguentemente essa, operando secondo il meccanismo descritto dagli artt. 1356 e ss. c.c., non influisce in alcun modo sulla validità del negozio.

Cass. civ. n. 170/1972

Per aversi condizione meramente potestativa è necessario che l'efficacia del negozio sia rimessa al mero arbitrio di una delle parti, indipendentemente da ogni fattore obiettivo o subiettivo capace di orientare la scelta in un determinato senso. Tale situazione, che si risolve praticamente nella effettiva negazione di ogni vincolo, non ricorre quando, a carico di colui che abbia impedito l'effetto finale del negozio (e che si pretenda titolare della potestà di disporre di detto effetto) sia previsto il pagamento di una penale avente funzione di liquidazione forfettaria del danno.

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