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Articolo 415 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 26/11/2024]

Persone che possono essere inabilitate

Dispositivo dell'art. 415 Codice Civile

Il maggiore di età infermo di mente, lo stato del quale non è talmente grave da far luogo all'interdizione [414], può essere inabilitato [166, 193, 429; 40; 712 c.p.c.](1).

Possono anche essere inabilitati coloro che, per prodigalità [776] o per abuso abituale di bevande alcooliche o di stupefacenti(2), espongono sé o la loro famiglia a gravi pregiudizi economici.

Possono infine essere inabilitati il sordo(3) e il cieco dalla nascita o dalla prima infanzia, se non hanno ricevuto un'educazione sufficiente, salva l'applicazione dell'articolo 414 quando risulta che essi sono del tutto incapaci di provvedere ai propri interessi.

Note

(1) L'inabilitazione è lo stato giuridicamente dichiarato di ridotta capacità di agire della persona maggiorenne che per le sue condizioni mentali o fisiche non è pienamente in grado di curare i propri interessi (Noventa). L'infermità mentale di cui si tratta non deve esser così grave da condurre alla fattispecie di cui all'articolo precedente, pur essendo comunque abituale ed attuale. Il curatore non si sostituisce, come il tutore, alla persona inabilitata: egli solamente assiste ma non rappresenta.
(2) La prodigalità deve poter condurre a gravi pregiudizi economici, anche potenziali se suffragati da elementi come frivolezza, ostentazione, tendenza allo sperpero (e non invece l'inettitudine negli affari).
Le altre cause (abuso di alcool e di stupefacenti) devono esser profonde e consolidate, tali quindi da aver alterato la sfera psico-volitiva del soggetto.
(3) L'espressione "sordo" è stata sostituita al termine "sordomuto" dall'art. 1 della L. 20 febbraio 2006 n. 95.

Brocardi

Expedit reipublicae, ne quis re sua male utatur
Imbecillitas mentis
Prodigi nulla voluntas
Prodigus est ille qui neque tempus, neque finem expensarum habet, sed bona sua dilapidando et dissipando profundit

Spiegazione dell'art. 415 Codice Civile

L'inabilitazione è una forma attenuata d'incapacità, che, salvo le diversità sancite per essa dalla legge, è in tutto perfettamente analoga all'interdizione, le cui norme vanno applicate per analogia all'inabilitazione.
Anche per la pronuncia di inabilitazione è necessaria la esistenza di infermità abituale di mente. Mancando l'estremo della abitualità, per quanto grave sia l'infermità, non può pronunciarsi nemmeno l'interdizione.
Il provvedimento protettivo della inabilitazione, per effetto di questa nuova norma, non si limita, come per innanzi, ai casi di meno grave infermità mentale e psichica ed ai casi di prodigalità, ma si estende ai casi dei perturbamenti prodotti in chi abusi abitualmente di bevande alcooliche o di stupefacenti, con ripercussione pregiudizievole, in ogni caso, nel campo patrimoniale proprio o della propria famiglia. Ripercussione decisiva anche in rapporto alla prodigalità, poiché "si può essere prodighi, senza essere pericolosi per la propria famiglia". II pericolo deve essere attuale, anche prima di esplicarsi nel patrimonio.
Riguardo a quelli che nel sistema del vecchio codice civile (art. #340#) erano gli inabilitati di diritto, cioè incapaci per dichiarazione di legge (sordomuto e cieco dalla nascita), vi è stata una inversione di criterio, che è poi un giusto ritorno, consigliato dai progressi della educazione e rieducazione scientifica moderna dei minorati, alla norma generale di presunta capacità, salvo a provocare provvedimenti protettivi ed integrativi ove occorra. Per ragioni di maggiore comprensività, alla qualifica di minorati "dalla nascita" si è aggiunta l'estensione: "o dalla prima infanzia". Se questi minorati, malgrado i moderni mezzi educativi, risultino rimasti ancora tanto deficienti da non potere assolutamente provvedere ai propri interessi, si ricorrerà addirittura alla interdizione.

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

206 Per quanto riguarda le persone che possono essere inabilitate, è stato modificato l'art. 410 del progetto per riferire anche al prodigo, in conformità della proposta pervenuta, l'estremo del pericolo di pregiudizio economico: con questo rimane chiarito e meglio precisato il concetto stesso di prodigalità, la quale è presa in considerazione dalla norma in esame in rapporto a chi con lo sperpero e la dilapidazione minacci di rovinare la famiglia. Secondo i voti espressi, nel terzo comma dello stesso articolo, si è parlato, anzichè di "cieco dalla nascita", di "cieco dalla nascita o dalla prima infanzia", consacrando così nel testo legislativo l'interpretazione estensiva che è stata data dalla giurisprudenza all'art. 340 del codice civile del 1865. Si è ritenuto superfluo aggiungere una disposizione per precisare, come fa l'art. 339 del codice predetto, di quali atti sia incapace l'inabilitato. Ciò risulta già chiaramente dal combinato disposto dell'art. 424 del c.c., che rende applicabile alla curatela degli inabilitati le norme riguardanti la curatela dei minori emancipati, e dell'art. 394 del c.c. sulla capacità dell'emancipato.

Massime relative all'art. 415 Codice Civile

Cass. civ. n. 786/2017

La prodigalità, cioè un comportamento abituale caratterizzato da larghezza nello spendere, nel regalare o nel rischiare eccessiva rispetto alle proprie condizioni socio-economiche ed al valore oggettivamente attribuibile al denaro, configura autonoma causa di inabilitazione, ai sensi dell'art. 415, comma 2, c.c., indipendentemente da una sua derivazione da specifica malattia o comunque infermità, e, quindi, anche quando si traduca in atteggiamenti lucidi, espressione di libera scelta di vita, purché sia ricollegabile a motivi futili (ad esempio, frivolezza, vanità, ostentazione del lusso, disprezzo per coloro che lavorano, o a dispetto dei vincoli di solidarietà familiare). Ne discende che il suddetto comportamento non può costituire ragione d'inabilitazione del suo autore quando risponda a finalità aventi un proprio intrinseco valore. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto insussistenti gli estremi della prodigalità nella condotta di un soggetto che, con la redistribuzione della propria ricchezza a persone a lui vicine, anche se non parenti, intendeva dare una risposta positiva e costruttiva al naufragio della propria famiglia).

Cass. civ. n. 6549/1988

La prodigalità, contemplata dall'art. 415 secondo comma c.c. quale causa d'inabilitazione (ove concorra un'esposizione dell'inabilitando o della sua famiglia a gravi pregiudizi economici), esprime una tendenza allo sperpero, per incapacità di apprezzare il valore del denaro, per frivolezza, vanità od ostentazione, e, pertanto, non è ravvisabile in relazione ad inettitudine negli affari, la quale indica spirito lucratico e ricerca di guadagno, ancorché senza le doti necessarie a conseguirle.

Cass. civ. n. 6805/1986

La prodigalità, cioè un comportamento abituale caratterizzato da larghezza nello spendere, nel regalare o nel rischiare, eccessiva rispetto alle proprie condizioni socioeconomiche ed al valore oggettivamente attribuibile al denaro, configura autonoma causa di inabilitazione, ai sensi dell'art. 415 secondo comma c c , indipendentemente da una sua derivazione da specifica malattia o comunque infermità, e, quindi, anche quando si traduca in atteggiamenti lucidi, espressione di libera scelta di vita, purché sia ricollegabile a motivi futili (ad esempio, frivolezza, vanità, ostentazione del lusso, disprezzo di coloro che lavorano, dispetto verso vincoli di solidarietà familiare). Ne discende che il suddetto comportamento non può costituire ragione d'inabilitazione del suo autore, quando risponda a finalità aventi un proprio intrinseco valore (nella specie, aiuto economico verso persona estranea al nucleo familiare, ma legata da affetto ed attrazione).

Cass. civ. n. 1680/1980

La prodigalità, giustificativa dell'inabilitazione della persona a norma dell'art. 415 secondo comma c.c., ricorre qualora il ripetersi di spese disordinate, nonché sproporzionate alla consistenza patrimoniale della persona medesima, sia ricollegabile non a mera cattiva amministrazione, ovvero incapacità di impostare e trattare vantaggiosamente i propri affari, ma bensì ad una alterazione mentale, che escluda o riduca notevolmente la capacità di valutare il denaro, di risolvere problemi anche semplici di amministrazione, di cogliere il pregiudizio conseguente allo sperpero delle proprie sostanze.

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Gastone B. chiede
mercoledì 09/06/2021 - Lazio
“Ho una figlia di 48 anni laureata in psicologia. Mia figlia ha avuto il T.S.O circa 8 anni fa ed è stata ricoverata in ospedale reparto psichiatrico due volte. Attualmente ha avuto un posto di lavoro presso il ministero degli affari esteri e sul posto di lavoro è stimata in quanto si impegna ed è sempre presente infatti è impiegata in segreteria svolgendo le sue mansioni con efficienza. Circa due anni fa ha conosciuto due fratelli a dir poco di facili costumi (entrambi sono stati detenuti per diversi reati gravi: droga, prostituzione e rapporti con minori ecc.) ed è stata fidanzata di entrambi ed infine si è sposata civilmente con uno dei due contro la la volontà mia e di mia moglie. Premetto che era già' stata sposata e divorziata con un altro ragazzo con problemi psichiatrici simili a quelli di mia figlia; da questo matrimonio ha avuto un figlio che attualmente ha 14 anni ed è affidato a me e mia moglie. Il figlio gli è stato tolto dai servizi sociali a seguito del matrimonio con questo avanzo di galera. Attualmente sta sperperando il suo stipendio ed ha contratto diversi debiti al punto tale che il suo stipendio è stato decurtato al quinto. Vivono in un mio appartamento e non sono neanche in grato di pagare il condominio e le utenze luce e gas e ricorrono in continuazione al mio aiuto per mangiare. Vorrei chiedere l'inabilitazione di mia figlia e richiedere l'amministrazione di sostegno. Ho altre due figlie e vorrei tutelare il mio patrimonio per entrambe oltre che per mia figlia malata.”
Consulenza legale i 18/06/2021
Il codice civile prevede tre tipologie di misure per la protezione delle persone che, per vari motivi e in misura diversa, non siano in grado di provvedere a se stesse.
La misura più drastica è sicuramente l’interdizione (art. 414 c.c.), che comporta una radicale privazione della capacità di agire del soggetto, anche se questa caratteristica è stata attenuata per effetto delle recenti modifiche legislative (le stesse che hanno introdotto l’amministrazione di sostegno). Infatti, ai sensi del primo comma dell’art. 427 c.c., il tribunale può consentire all’interdetto di compiere determinati atti di ordinaria amministrazione senza l'intervento ovvero con l'assistenza del tutore. L’interdizione presuppone una “abituale infermità di mente”, tale da rendere il soggetto incapace di provvedere ai propri interessi; tuttavia l’adozione della misura è subordinata alla sua effettiva necessità assicurare l’adeguata protezione del soggetto debole.
L’inabilitazione, prevista dall’art. 415 c.c., presuppone sempre una infermità di mente, ma non così grave da far luogo all'interdizione. Essa può altresì essere pronunciata nei confronti di “coloro che, per prodigalità o per abuso abituale di bevande alcoliche o di stupefacenti, espongono sé o la loro famiglia a gravi pregiudizi economici”, nonché nei confronti del sordo e del cieco dalla nascita o dalla prima infanzia, se non hanno ricevuto un'educazione sufficiente.
L’inabilitazione comporta, in linea di massima, l’incapacità di compiere gli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione; tuttavia sempre l’art. 427 c.c. stabilisce che l’inabilitato possa essere autorizzato a compiere taluni atti eccedenti l'ordinaria amministrazione senza l'assistenza del curatore.
Da ultimo, la misura di più recente introduzione è proprio l’amministrazione di sostegno (artt. 404 e ss. c.c.). Si tratta della misura che tende ad essere preferita, in quanto si vuole salvaguardare il rispetto della persona bisognosa di assistenza e valorizzare la sua eventuale residua autonomia. Per questo la legge non individua a priori le tipologie di atti che il beneficiario di questa forma di protezione può compiere, ma essi sono di volta in volta stabiliti nel decreto di nomina emesso dal giudice tutelare.
Inoltre l’amministrazione di sostegno non presuppone necessariamente una infermità di tipo psichico, ma richiede una “infermità ovvero [...] una menomazione fisica o psichica”, tale da causare l’impossibilità - che può essere anche parziale o temporanea - di provvedere ai propri interessi.
Quanto ai criteri di scelta tra le diverse misure, la giurisprudenza ormai consolidata afferma che “l'amministrazione di sostegno prevista dall'art. 3 della l. n. 6 del 2004 ha la finalità di offrire a chi si trovi nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi uno strumento di assistenza che ne sacrifichi nella minor misura possibile la capacità di agire, distinguendosi, con tale specifica funzione, dagli altri istituti a tutela degli incapaci, quali l'interdizione e l'inabilitazione, non soppressi, ma solo modificati dalla stessa legge attraverso la novellazione degli artt. 414 e 427 del c.c. Rispetto ai predetti istituti, l'ambito di applicazione dell'amministrazione di sostegno va individuato con riguardo non già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto carente di autonomia, ma piuttosto alla maggiore idoneità di tale strumento ad adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla sua flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa” (Cass. Civ., Sez. II, sentenza 04/03/2020, n. 6079). La relativa valutazione, prosegue la Cassazione, spetta al giudice competente, il quale dovrà tenere conto “del tipo di attività che deve essere compiuta per conto del beneficiario e considerate anche la gravità e la durata della malattia, ovvero la natura e la durata dell'impedimento, nonché tutte le altre circostanze caratterizzanti la fattispecie”.
Alla luce delle considerazioni che abbiamo svolto, vale la pena avviare la procedura per la nomina di amministratore di sostegno (che, tra l’altro, presenta una maggiore rapidità e una procedura più “snella” e normalmente meno costosa rispetto a interdizione e inabilitazione).

Mario chiede
venerdì 16/10/2015 - Lazio
“Mia nonna si trova in una residenza sanitaria riabilitativa e potrebbe non vivere a lungo. Mia madre non comunica informazioni sufficienti sul suo stato di salute a mio nonno, escludendo dalle decisioni, approfittando della non più giovane età, perché lo accusa di eccedere nel comunicare a terzi lo stato di salute confusionario della moglie e di non essere affidabile perché gioca eccessivamente ai gratta e vinci, dilapidando i risparmi. Vorrei capire in che modo aiutare e limitare il comportamento di entrambi.
Mio nonno é obbligato alla riservatezza? Ha diritto a essere informato e coinvolto nelle decisioni? Si può imporre una risoluzione coatta del problema g.a.p. (gioco d'azzardo patologico)?”
Consulenza legale i 19/10/2015
Il quesito proposto pone, in realtà, dei problemi di natura non interamente giuridica, ma si cercherà di tratteggiare comunque un quadro generale.

Ci si chiede se un marito abbia diritto a conoscere lo stato di salute della moglie (sono entrambi anziani), partecipando alle decisioni relative alle cure e terapie, e se debba tenere per sé le informazioni di sua conoscenza.

In generale, può dirsi che la legge molto dice su quel che devono o non devono comunicare medici e personale sanitario sui propri pazienti, ma ben poco su quelli che sono gli obblighi dei parenti stessi del paziente.
Ad esempio, l'art. 30 del codice deontologico dei medici prevede che il medico possa fornire informazioni sanitarie - anche ad un parente - solo se il paziente acconsente; è, quindi, necessario informare il paziente e richiedere il suo consenso a che i suoi parenti o alcuni di essi siano messi al corrente del suo stato di salute.
Anche il Codice della privacy (artt. 75 e seguenti) stabilisce che tali informazioni possono essere rese note ad un prossimo congiunto, ad un familiare, ad un convivente, solo col consenso dell'interessato.
Quindi, in primo luogo, può affermarsi che, poiché la volontà del paziente di non informare sul proprio stato di salute o sul proprio ricovero un certo familiare deve essere assolutamente rispettata, se la moglie ha dato indicazioni nel senso di non informare il marito sul suo stato di salute, il personale medico deve attenersi a questo desiderio. Ovviamente, ciò è possibile solo se l'anziana ha capacità di intendere e volere per prestare un consenso informato.

Per quanto riguarda la figlia della donna e la carenza di informazioni fornite al padre, non vi sono leggi che le "impongano" di informare il padre sullo stato di salute della moglie: solo il buon senso può essere invocato in questa situazione. Il marito, del resto, se non esiste un parere contrario della moglie stessa, può informarsi da sé presso la struttura sanitaria circa le condizioni del suo coniuge.

Molto dipende, però, anche dal fatto che l'anziana signora sia o meno beneficiaria di un amministratore di sostegno (art. 404 del c.c.) o rappresentata da un tutore (che si può ipotizzare sia la figlia stessa).
Se l'anziana è ancora - dinnanzi alla legge - responsabile per sé e per le sue azioni, il comportamento della figlia è legittimo fintanto che non contrario alla volontà di sua madre: per la legge, infatti, la figlia non può prendere decisioni al suo posto unilateralmente.

Se, invece, la figlia fosse amministratrice di sostegno o tutrice della madre, le sue facoltà sarebbero enormemente accresciute, in quanto a lei spetterebbero tutte le decisioni inerenti la persona inferma (più ampie nel caso di tutela, più ristrette e stabilite con precisione dal giudice, in caso di amministrazione di sostegno, v. art. 405): tra i poteri del rappresentante legale può essere compreso quello di limitare i rapporti dell'infermo con un congiunto che, ad esempio, possa turbarne la serenità.

Circa l'obbligo di riservatezza del padre, anche qui v'è una risposta che purtroppo non può essere molto puntuale, vista la delicatezza del tema che stiamo affrontando e i pochi dati di fatto a disposizione. Inoltre, sembra chiaro che nella vicenda in esame il ricorso alla tutela giudiziale non sembra l'approccio corretto per arginare il problema.
In generale, comunque, da un punto di vista giuridico, può dirsi che ogni persona ha diritto a vedere tutelata la propria dignità: quindi, fintantoché il nonno si limita a riferire a terzi qualche informazione sulla salute della moglie, non si possono ravvisare ipotesi particolari di illecito.
Il problema sorge quando egli leda la dignità della moglie, raccontando "in giro" dettagli che possono offendere il decoro e il pudore della donna: a questo punto si possono ipotizzare astrattamente un'azione civile per il risarcimento del danno all'immagine, nonché, dal punto di vista penale, un caso di diffamazione (art. 595 del c.p.). Naturalmente, non conoscendosi le circostanze concrete, non si può in questa sede dare una risposta più precisa. Si può pensare ad una diffida scritta nei confronti dell'uomo, chiedendogli di cessare i comportamenti illeciti, ma probabilmente la missiva non sortirebbe molti effetti.

Infine, concludendo sul problema di dipendenza del nonno, il consiglio è di rivolgersi ad un centro specializzato per la cura di questo tipo di problema mentale (i cosiddetti S.e.r.D.).
Sul piano giuridico, si può ipotizzare una richiesta di inabilitazione del soggetto. L'art. 415 del c.c. stabilisce che possono essere inabilitati coloro che, per prodigalità o per abuso abituale di bevande alcooliche o di stupefacenti, espongono sé o la loro famiglia a gravi pregiudizi economici. La prodigalità è proprio l'atteggiamento di chi sperpera i propri mezzi economici con spese sconsiderate, come quelle per il gioco d'azzardo. Il giudice interpellato attraverso un ricorso (di solito promosso dai parenti della vittima di dipendenza) nominerà un curatore, che dovrà gestire il patrimonio della persona inabilitata, evitando così che questa lo dilapidi.
Ogni caso è a sé, quindi il giudice può anche decidere, dopo aver periziato la persona, che la sua condizione imponga un provvedimento diverso (interdizione, art. 414 - misura più pesante - o amministrazione di sostegno - misura più lieve).
Il procedimento di inabilitazione, che va seguito da un avvocato, è descritto agli artt. 712 e seguenti del codice di procedura civile.