Questa norma, come anche i precedenti articoli che vanno dal 10 al 12 c.p.c., detta i criteri da osservare per stabilire il valore di una causa in materia di
prestazioni alimentari periodiche,
rendite temporanee, vitalizie o perpetue, nonché di
diritto del concedente.
Presupposto per la sua applicazione è che vi sia una
controversia sul
titolo, ovvero sul rapporto fondamentale nel suo complesso, non potendo di contro trovare applicazione allorché, ad esempio, la contestazione riguardi soltanto la rata della rendita o la singola prestazione alimentare periodica (può aversi controversia sul titolo a seguito della proposizione di una domanda di
annullamento,
risoluzione,
nullità, o
rescissione di esso).
Proprio perché vi è controversia sul titolo (sul cui accertamento occorre procedere incidentalmente), il computo del valore viene fatto in base a criteri temporali prestabiliti dalla norma stessa, dovendosi così distinguere:
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CAUSE PER PRESTAZIONI ALIMENTARI PERIODICHE
Sono prestazioni alimentari periodiche tutte quelle prestazioni volte a soddisfare i bisogni essenziali dell’alimentando e dovute per legge (cfr.
art. 433 del c.c.), per
contratto o per
testamento (cfr.
art. 660 del c.c.).
Il valore di tali cause dovrà essere determinato in base all’ammontare delle somme dovute per due anni.
Così, volendo fare un esempio, se Tizio dispone con testamento che il figlio Primo debba versare all’altro figlio Secondo euro 2000 ogni anno a titolo di prestazione alimentare e Secondo intende contestare giudizialmente il titolo in forza del quale è chiamato ad assolvere alla sua prestazione, il valore della causa ai fini della competenza verrà determinato in relazione all’ammontare delle somme dovute per due annualità (pari nell’esempio a 4000 euro).
Sotto un profilo pratico, potrebbe verificarsi che il rapporto fondamentale abbia ad oggetto un numero di annualità inferiore a due; in questo caso si ritiene che sia necessario coordinare l’art. 13 c.p.c. con il succesivo
art. 34 del c.p.c., con la conseguenza che i due anni di somme dovute costituiscono soltanto il limite massimo e che, se dal titolo risulta un valore inferiore, è da questo valore che si determina la competenza.
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CAUSE RELATIVE A RENDITE PERPETUE, TEMPORANEE O VITALIZIE
Di queste si occupa il secondo comma della norma in esame.
Si ha
rendita perpetua ogniqualvolta il vitaliziante, in cambio del trasferimento di un immobile o della cessione di un
capitale conferisce ad un’altra persona il diritto di esigere in perpetuo la prestazione periodica di una somma di denaro o di una determinata quantità di cose fungibili.
In questo caso, malgrado la rendita abbia una durata perpetua, per determinare il valore della causa e, dunque, la competenza del giudice, dovrà farsi riferimento al cumulo di venti annualità.
Sia la dottrina che la giurisprudenza ritengono che il medesimo criterio possa trovare applicazione per le cause in materia di
pensione, considerata la loro natura di rendite vitalizie.
Si ha, invece,
rendita temporanea o vitalizia, nel caso in cui il vitaliziante, in cambio dell’alienazione di un immobile o della cessione di un capitale, conferisce al beneficiario il diritto di esigere, per tutta la durata della sua vita, la corresponsione periodica di una somma di denaro o di una certa quantità di cose fungibili.
Per determinare il valore delle cause ad esse relative si procede ad un cumulo fino a dieci annualità
Dubbi interpretativi sono stati sollevati in ordine alla necessità che si debba controvertere sul titolo anche nel caso di rendite temporanee e vitalizie, e ciò in considerazione del fatto che la norma richiede che il titolo sia controverso solo con riferimento alle rendite perpetue.
La dottrina maggioritaria (tra cui Andrioli) è per la tesi negativa.
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CAUSE RELATIVE AL DIRITTO DEL CONCEDENTE
Lo stesso criterio dettato per le rendite perpetue, temporanee o vitalizie vale anche per il diritto del
concedente, dovendosi anche in questo caso procedere ad un cumulo di annualità.
Occorre intanto precisare che quando si parla di concedente ci si intende riferire a colui che, proprietario di un fondo, abbia convenuto di concederlo in
enfiteusi ad un altro soggetto, il quale, a sua volta, acquista un diritto reale di godimento sul fondo stesso, con l’obbligo di migliorare il fondo e di pagare un canone periodico al concedente stesso.
L’equiparazione del diritto del concedente ad una rendita si spiega per il fatto che tale suo diritto si sostanzia proprio nella percezione di un canone periodico.
Dall'assimilazione ad una rendita ne deriva che se l'enfiteusi è perpetua il valore della causa relativa al diritto del concedente è dato dalla somma di venti annualità del canone; se invece l'enfiteusi è temporanea, il valore è pari alla somma delle annualità che secondo la domanda sono dovute sino al termine del rapporto e con un massimo di dieci anni.
Si è sottolineato, tuttavia, che il terzo comma di questa norma si applica quando l'enfiteuta, in occasione della richiesta di canoni, contesti il rapporto di enfiteusi, e ciò perché, al fine di applicare la norma in esame, deve sussistere quell’altro presupposto che sia controverso il diritto del concedente nel suo complesso, non essendo sufficiente una contestazione limitata ai canoni richiesti.