Chiusura obbligatoria negli abitati. Non è una disposizione d'ordine pubblico
È principio generale (
art. 951 del c.c.) che, mancando i termini tra fondi contigui, ciascuno dei proprietari ha diritto di chiedere che essi siano apposti a spese comuni. Ma negli abitati, oltre l'esigenza della certezza dei confini, vi è pure quella di tutelare la sicurezza delle persone e dei beni nonché di garantire una certa
reciproca libertà tra vicini. A ciò provvede la legge (art. 888) prescrivendo che ciascuno può costringere il vicino a contribuire per metà alla spesa di costruzione dei muri di cinta che separano le rispettive case, i cortili e i giardini posti negli abitati.
Si è discusso in Francia, e la questione si è ripetuta in Italia, se la disposizione dell'art. 888 sia
d'ordine pubblico, e la risposta, in un senso o nell'altro, può interessare per la soluzione di altre questioni in materia di chiusura obbligatoria. Si ritiene di no, altrimenti non si spiegherebbe come la legge ne lasci l'iniziativa ai privati; in secondo luogo, non si capirebbe come la misura dell' altezza del muro possa fissarsi, in mancanza di regolamenti particolari, d'accordo dalle parti (art. 888). E non sarebbe, infine, giustificabile la facoltà che l'art.
888 concede al vicino, che non vuol contribuire alle spese di costruzione del muro, di esimersene cedendo la metà del terreno su cui il muro di separazione deve essere costruito. Carattere di ordine pubblico deve invece riconoscersi alle disposizioni dei regolamenti edilizi che impongono la costruzione dei muri divisori, determinandone spesso anche l'altezza ed altre modalità di costruzione.
Accade spesso che, invece di procedere entrambi alla costruzione del muro di chiusura obbligatoria, i due proprietari confinanti pattuiscano che l'uno dei due addivenga alla costruzione del muro di cinta
a cavallo della linea di confine, col rimborso della metà della spesa da parte dell'altro. In tal caso si viene a costituire fra i due un rapporto meramente obbligatorio, a cui resta estraneo, nel caso di vendita di uno dei fondi, il nuovo acquirente. Tale rapporto obbligatorio può provarsi anche con testimoni, non trattandosi del regolamento di un rapporto di comunione del muro divisorio, che sorge in condominio
ope legis per diritto di accessione.
Modificazioni introdotte dal nuovo codice. Soppressione delle spese di riparazione. Variazione della antica locuzione « nelle città e sobborghi »
Il corrispondente art. 559 del vecchio codice parlava di spese di costruzione o di riparazione, mentre il nuovo codice parla solo di
spesa di costruzione. Il legislatore ha potuto fare a meno di accennare alle spese di riparazione poiché, quando il muro è stato costruito, essendo muro comune rientra sotto la regola generale dell'art.
882 che pone a carico dei condomini le spese di riparazione.
Un'altra modificazione merita di essere messa in rilievo. L'art. 559 del vecchio codice disponeva la chiusura obbligatoria «
nelle città e nei sobborghi », mentre il nuovo codice ha sostituito la locuzione «
negli abitati ». Con ciò sono venute a cadere tutte le questioni che si facevano per sapere quando un abitato potesse essere qualificato come città e a quali condizioni gli agglomerati di case suburbane assumessero carattere di sobborghi.
Fu deciso sotto la vigenza dell'art. 559 vecchio codice che non era censurabile in Cassazione l'apprezzamento del giudice di merito, fatto in base allo stato dei luoghi, sul fatto se la proprietà da recingere dovesse considerarsi in campagna anziché in citta o sobborgo. Anche sotto il nuovo codice il decidere se una data località costituisca o meno abitato agli effetti dell'applicabilità della norma di cui all ' art.
886 costituisce un apprezzamento di fatto.
Fondi elencati nell’art. 886: elencazione tassativa o esemplificativa?
La disposizione di cui all’art.
886 si limita ai muri di cinta che separano le case, i cortili e i giardini. Si reputa che l’elencazione
non sia tassativa. Senza dubbio la chiusura obbligatoria è un’eccezione alla libertà della proprietà, che costituisce la regola: ma le ragioni che hanno portato alla sua previsione convincono del fatto che essa deve trovare applicazione per tutti i fondi negli abitati, qualunque sia la loro specifica destinazione. La sicurezza delle persone e dei beni non sarà meno esposta se uno dei fondi è area fabbricabile invece di essere un cortile, o se è un opificio e non una casa di abitazione. Questa soluzione più larga eviterà anche molte difficoltà pratiche, dovute alla facilità con cui uno stesso fondo può essere adibito a più usi, sia simultaneamente che successivamente.
Con la soluzione adottata viene a maggior ragione esclusa l'opinione, ancora più restrittiva, di coloro che ritengono applicabile l’ art.
886 ai muri divisori fra case e case, giardini e giardini, cortili e cortili e non, per esempio a quelli divisori fra un cortile e un giardino. Questa
opinione restrittiva si fonderebbe soprattutto sulla diseguaglianza di interessi e di utilità: il proprietario di un cortile avrebbe un interesse maggiore, e conseguentemente una maggiore utilità, a stabilire la chiusura che non il proprietario del giardino vicino. Ma a prescindere dalla eccessiva sottigliezza dell' argomentazione, la possibile disuguaglianza di interessi e di utilità a vantaggio del proprietario del giardino non vuol dire nulla, una volta che anche fra i giardini sia obbligatoria la chiusura.
Modalità della chiusura: se vi sono compresi anche i muri a secco
Il
muro di cinta, ai sensi e agli effetti dell'art.
886 è quello costruito, o da costruire, sulla linea di confine dei due fondi, metà per parte e a spese comuni. Non si potrebbe quindi pretendere di costringere il vicino a costruire il muro interamente su di un terreno proprio e soltanto a sue spese.
La chiusura obbligatoria a cui un vicino può costringere l'altro è quella che consiste in un muro: quindi non può pretendersi la contribuzione per una chiusura di altra natura, come siepi, tavolati, cancellate e simili.
Ci si è chiesti se sotto la denominazione di muro possa comprendersi anche
il muro a secco: alcuni autori l’hanno escluso, fondandosi sulla locuzione della legge, la quale dà il diritto e correlativamente pone l'obbligo di costruire un muro, infatti quello a secco non potrebbe dirsi muro costruito, almeno nei termini dell'arte. Tale corrente dottrinaria aggiunge poi che esso non può portarsi regolarmente all'altezza di tre metri risulterebbe assai imperfetto per la chiusura.
Tali considerazioni, tuttavia, non convincono: il muro a secco, se costruito a regola d’arte, può benissimo portarsi ad una altezza di tre metri, con tali requisiti di solidità e con un tornaconto economico rilevante, tale da sostituire con maggiore vantaggio i muri a calce, specialmente quando si tratti di muri divisori tra giardini. Piuttosto sembra che in tali questioni relative al genere della costruzione, come alla quantità dei materiali, alla profondità delle fondazioni e alla grossezza del muro, si debba seguire la pratica dei luoghi in cui vengono eseguiti.
Altezza del muro. Se può essere soprassata con sopraelevazione a spese di uno dei condomini
L'altezza del muro è determinata dall’art.
886 in tre metri, cosi come nel vecchio codice. Si tratta però di una norma avente
carattere dispositivo: essa quindi può essere derogata sia dai regolamenti locali che determinino un'altezza differente, sia dalla convenzione dei due proprietari limitrofi. Quando in mancanza di regolamenti locali le parti abbiano convenuto una data altezza, si può essa modificare in più o in meno da uno dei condomini, senza il consenso dell'altro?
Non può certo pretendersi un
abbassamento, perché, trattandosi di muro comune, vi ostano le regole della comunione (
art. 1108 del c.c.): l’alzamento, invece, deve intendersi di regola permesso in base alla disposizione di cui all’art.
885. Infatti la limitazione dei tre metri di cui all’art.
886 si riferisce solo alla contribuzione obbligatoria: non può essere obbligato a contribuire per un'altezza superiore ai tre metri, ma ciò non impedisce che l'altro possa alzare a proprie spese il muro oltre quell'altezza. Certo è vero che in alcuni casi l'alzamento può riuscire dannoso al vicino togliendogli l'aria e la luce, ma in difetto di una corrispondente servitù ciò non basta ad impedire l'alzamento, perché nel nostro codice non c’è più una disposizione come quella del codice parmense che vietava di elevare i muri di cinta oltre una determinata altezza. Questo ragionamento vale anche net caso in cui l'altezza si fosse stabilita convenzionalmente: il vicino non potrà essere obbligato a contribuire oltre l'altezza convenuta, ma non potrà impedire che l'altro sopraelevi per conto suo. Si eccettua solo il caso in cui il contralto includa, anche in modo implicito, una
servitus altius non tollendi a favore di uno o di entrambi i condomini: caso possibile, per evitare gli inconvenienti a cui ii codice parmense aveva provveduto con una disposizione testuale.
Tale opinione, conforme a una vecchia sentenza della Cassazione di Napoli e alla dottrina dominante, è statao da qualche tempo oggetto di discussione: in senso contrario, si ricorda una notevole sentenza del Tribunale di Roma che fu confermata in appello e poi in Cassazione. Il Supremo Collegio ritenne che l'art. 559 codice del 1865, stabilì che in mancanza di regolamenti particolari o di una convenzione i muri di chiusura obbligatoria dovessero essere costruiti dell'altezza di tre metri, pertanto per i comproprietari del muro ciò costituiva una limitazione al loro diritto di comproprietà, in quanto che se non vi è l'accordo tra i due confinanti il muro non può essere elevato ad altezza maggiore di tre metri. E la massima fu ribadita in termini più decisi nella posteriore decisione 29 marzo 1938, nella quale si riteneva che la disposizione dell'art. 559 fosse una norma tassativa ed assoluta per quanto riguarda l'altezza dei tre metri, applicabile tanto al muro costruito a spese comuni, quanto al muro costruito a spese di uno dei confinanti, derogabile soltanto da regolamenti locali o da private convenzioni. Ma tale giurisprudenza fu poi modificata da successiva decisione 15 giugno 1938 della Corte di Cassazione, a Sezioni unite, la quale statuì che l'art. 559 non limitava a tre metri l'altezza dei muri di chiusura obbligatoria: tale altezza era soltanto fissata per il limite di obbligo dei vicini a contribuire alla relativa spesa, ma nel resto e per la maggiore elevazione di tali muri erano applicabili le disposizioni dei muri comuni in genere, poichè l'art. 559 non restringeva il diritto del comproprietario di innalzare il muro comune.
In realtà tale opinione si ritiene applicabile anche ora, nonostante la nuova locuzione adottata dal nuovo codice, che parrebbe aver rafforzato la limitazione dell'altezza a tre metri («
l'altezza deve essere di tre metri »). La limitazione deve intendersi riferita solo all'obbligo del contributo, ma lascia immutato il diritto di sopraelevazione sancito in generale, per tutti i muri comuni, dall'art.
885.
Chiusura dei fondi in dislivello
L'art.
886 non prevede il caso che i due fondi limitrofi siano di diverso livello.: in questa ipotesi, l'altezza legale del muro dovrà misurarsi sul fondo più alto o su quello più basso? E accogliendo la prima soluzione, a carico di chi sta la parte del muro che va dal fondo inferiore sino al livello del fondo più alto ?
Il codice francese non disponeva nulla in merito, pertanto la dottrina aveva deciso la prima questione nel senso che l'altezza deve misurarsi sul fondo alto e la seconda, addossando la spesa del tratto di muro inferiore a carico di entrambi i confinanti, perché trattasi di muro comune.
In Italia entrambe le questioni furono risolute testualmente dal vecchio codice (art. 560, la prima conformemente alla Dottrina francese, seconda in senso contrario. Quantunque non fossero mancati dubbi sulla opportunità della soluzione adottata dal codice del 1865 per la seconda questione, il nuovo codice ha riprodotto le disposizioni del precedente. Dispone pertanto l'art.
887 che se dei due fondi uno è superiore e l'altro inferiore, il proprietario del fondo superiore deve sopportare per intero le spese di costruzione e conservazione del muro dalle fondamenta all'altezza del proprio suolo ed entrambi i proprietari devono contribuire per tutta la restante altezza. Si ritiene che la disposizione sia applicabile non solo quando trattasi di dislivello naturale, ma anche quando il dislivello sia stato prodotto artificialmente, mediante la sopraelevazione del suolo da parte di uno dei due confinanti. Nel caso di sopraelevazione artificiale, una sentenza della Cassazione ha ritenuto che l’altezza dei tre metri si misuri dall’originario piano di campagna, e che il proprietario che ha sopraelevato il suolo non possa sorpassare, sia pure costruendo a sue spese, tale altezza, ove non ne abbia ottenuto il consenso del vicino.
La questione si ricollega all'altra, esaminata sotto il numero precedente, della
sopraelevabilità del muro oltre i tre metri, e avendo avallato la soluzione affermativa, anche nel caso di dislivello artificiale il proprietario che l'ha attuato ha il diritto di pretendere il contributo del vicino per la costruzione del muro di tre metri a cominciare dal suo suolo sopraelevato artificialmente, nonostante con ciò si venga a sorpassare l'altezza complessiva di tre metri.
Sotto la vigenza del vecchio codice ci si era chiesti se il muro dovesse fondarsi tutto sull’ area del fondo superiore, oppure se dovesse
porsi a cavallo della linea di confine, metà per parte: è prevalsa questa seconda soluzione. Ad essa non è di ostacolo il fatto che la parte inferiore del muro divisorio sia un muro di sostegno in esclusiva proprietà del proprietario superiore: è vero che, di regola, i muri di sostegno devono elevarsi per intero sull'area del fondo superiore, ma nel nostro caso non siamo di fronte a un muro che ha semplice funzione di sostegno, bensì ad un muro che ha per suo scopo diretto la chiusura a vantaggio di entrambi i fondi e quindi da erigersi sulla linea di confine. Siamo cioè, per quanto riguarda il suolo, esattamente nell’ambito di applicazione dell'art. 559 vecchio codice, perché l’ art. 560 non aveva modificato, per questa parte, la condizione di uguaglianza dei due proprietari di concorrere in comune alla costruzione del muro. E una conferma se ne aveva nell'art. 561, nel quale l'obbligo di cedere il terreno su cui il muro deve essere costruito è comune tanto alla ipotesi dell'art. 559 quanto a quella dell'art. 560.
Ad ogni modo, bene ha fatto il nuovo codice a togliere in proposito ogni dubbio, disponendo testualmente all'art. 887 capov. che i muro deve essere costruito per metà sul terreno del fondo inferiore e per metà sul terreno del fondo superiore.
Rifiuto di contribuire alle spese
Può uno dei proprietari dei fondi contigui sottrarsi all'obbligo di contribuire alla chiusura obbligatoria, e in che modo ?
La questione fu molto dibattuta in Francia, ma l'opinione dominante era per la tesi negativa. Il vecchio codice (art. 561) risolse testualmente la questione in
senso affermativo, e la stessa soluzione è stata adottata dal nuovo codice (art. 888). Il vicino si può esimere dal contribuire alle spese di costruzione del muro di cinta o divisorio, cedendo, senza diritto a compenso, la metà del terreno su cui il muro di separazione deve essere costruito.
In realtà con tale disposizione viene ad attenuarsi il concetto della
chiusura obbligatoria, la quale non è più, come parrebbe in base ai due articoli
886 e
887, l'obbligo di contribuire alle spese di costruzione del muro divisorio, ma solo l'obbligo di cedere la metà del terreno di fondazione. Il legislatore si è forse preoccupato della grave condizione in cui può essere messo il vicino, specialmente nel caso del proprietario del fondo superiore che è obbligato (
art. 886 del c.c.) alla costruzione a suo esclusivo carico del muro di sostegno: egli ha voluto dargli modo di sottrarsi ad una imposizione che avrebbe potuto essere per lui molto gravosa.
Anche se l'art. 888 non lo dice esplicitamente, come invece faceva l'art. 561 vecchio codice, tuttavia non è dubbio che la disposizione si riferisca ad entrambi i casi espressi nei due articoli precedenti, e cioè tanto al caso in cui i fondi da dividersi siano allo stesso livello, quanto se siano in dislivello. Nell'uno e nell'altro caso lt vicino che vuole esimersi dalle spese di costruzione deve cedere la metà del terreno su cui il muro deve essere costruito.
Se il muro fosse stato già costruito in comune e si trattasse quindi non più di sottrarsi alle spese di costruzione ma solo a quelle di riparazione il vicino potrebbe farlo in applicazione del principio generale contenuto nell'art.
882 per tutti i muri comuni in genere, con facoltà per il condomino di sottrarsi alle spese di riparazione rinunziando al diritto di comunione. Tale disposizione, che era ripetuta nel vecchio codice all'art. 561, è stata soppressa nel nuovo perché ritenuta una superflua ripetizione.
Contenuto della cessione dell’area: cessione dell’uso e non della proprietà. Conseguenze giuridiche
Erano sorte questioni sotto il vecchio codice per determinare il contenuto della cessione della metà del suolo prescritta dall'art. 561. Alcuni interpretavano la locuzione «
cedendo la metà del terreno su cui il muro dev'essere costruito » nel senso di abbandono
, con conseguente perdita della propriety del suolo. Secondo altri invece, quando il vicino, per esimersi dal contribuire alle spese della chiusura obbligatoria, avesse ceduto la metà del terreno su cui il muro doveva essere costruito, non veniva in conseguenza di ciò a perdere la proprietà della sua striscia di terreno, ma a subirvi solo una
servitus oneris ferendi.
La questione non aveva solo importanza teorica, infatti risolvendola nel primo senso non poteva sorgere dubbio che il cessionario, costruendo il muro divisorio su suolo diventato tutto di sua proprietà esclusiva, acquistasse anche per diritto di accessione la proprietà della costruzione fatta a sue spese. Mentre nel secondo caso, per poter attribuire al vicino la proprietà esclusiva del muro da lui costruito, su suolo contribuito a metà, doveva ricorrersi al concetto di una proprietà superficiaria spettante al costruttore per la metà del muro costruita sulla striscia di suolo del cedente.
Di più, risolvendola nel primo senso, poiché il cedente aveva abbandonato la proprietà della sua striscia di suolo, avrebbe dovuto pagarne il valore nel caso che, in secondo tempo, avesse voluto chiedere la comunione forzosa del muro. Mentre invece risolvendola nel secondo senso, conservando egli la proprietà della striscia di suolo ceduta, nulla avrebbe dovuto pagare pel suolo nel caso di comunione forzosa.
Il nuovo codice (art. 888) ha risolto testualmente quest'ultima questione, disponendo che nel caso di comunione forzosa il richiedente non ha l'obbligo di pagare la metà del valore del suolo su cui il muro è stato costruito. Da ciò si evince dunque che, secondo il nuovo codice, il cedente non perde la proprietà della striscia di suolo ceduta: perciò il contenuto della cessione è soltanto l'uso, non la proprietà del suolo.
D'altra parte, il nuovo codice riconosce testualmente al costruttore la proprietà esclusiva del muro costruito sul suolo contribuito a metà dai confinanti: il che, costituendo deroga al principio dell'accessione, che avrebbe portato alla comunione del muro costruito su suolo comune, importa la costituzione
ex lege di un rapporto di proprietà superficiaria a vantaggio del costruttore per la metà del muro costruito sull'area ceduta dal vicino.
Posteriore richiesta di comunione del muro da parte del vicino
L'art. 888, riproducendo l’ analoga disposizione del vecchio codice (art. 561), fa salva la facoltà al vicino di rendere comune il muro, alla cui costruzione non aveva voluto in un primo tempo contribuire, ai sensi dell'art.
874. Si rimanda pertanto per questa parte a quanto detto nel commento di questo articolo per le varie norme che regolano la comunione forzosa.
Va solo rilevato che, come già detto (sopra, n. 8), il nuovo codice, risolvendo testualmente la questione dibattuta nel vecchio codice, ha dichiarato che ove il vicino chieda l'acquisto della comunione, deve pagare la metà del valore della costruzione ma non pure del suolo su cui il muro e stato costruito, e ciò perché di tale metà di suolo egli ha ceduto solo l'uso e non la proprietà.
Rinuncia al diritto di obbligare il vicino a contribuire alla spese della chiusura
Si può rinunziare al diritto di obbligare il vicino a contribuire alle spese di chiusura, di cui agli artt.
886 e
887? Si è già visto (sopra, n. i) che le disposizioni di questi due articoli non si possono dire vere e proprie disposizioni d'ordine pubblico, e come per l'art. 888 non è impedito al vicino di sottrarsi, sotto certe condizioni, alle spese della chiusura obbligatoria, cosi anche la rinuncia deve ritenersi lecita.