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Articolo 828 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 26/11/2024]

Condizione giuridica dei beni patrimoniali

Dispositivo dell'art. 828 Codice Civile

I beni che costituiscono il patrimonio dello Stato, delle province e dei comuni [826] sono soggetti alle regole particolari che li concernono e, in quanto non è diversamente disposto, alle regole del presente codice [11](1).

I beni che fanno parte del patrimonio indisponibile [826] non possono essere sottratti alla loro destinazione, se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano [830, 1145].

Note

(1) I beni patrimoniali indisponibili non sono inalienabili, ma, comunque, non possono essere sottratti alla finalità che è loro propria, se non con le modalità stabiliti previste in materia dalla legge.

Spiegazione dell'art. 828 Codice Civile

Il regime dei beni patrimoniali: regola generale

Come nell'art. 822 è stato definito il regime giuridico dei beni demaniali, così nel presente art. 828 viene stabilito quello dei beni patrimoniali. Il regime di questi ultimi è determinato in via principale dalle leggi particolari che li riguardano; solo qualora queste ultime non dispongano in merito si applicano ai suddetti beni le regole del codice civile relative al diritto di proprietà.

Questo rinvio è decisivo per definire il carattere del diritto spettante agli enti pubblici sui loro beni patrimoniali: mentre il diritto sui beni demaniali ha carattere di proprietà pubblica, quello sui beni patrimoniali deve definirsi una proprietà privata. Solo ammettendo questa conclusione può spiegarsi come, nel silenzio delle leggi speciali, siano applicabili le norme del diritto civile: queste leggi costituiscono un diritto privato speciale, che costituisce una parziale deroga al diritto privato comune, al fine di regolare i rapporti delle pubbliche amministrazioni. Questi principi sono stati affermati costantemente dalla dottrina e trovano oggi precisa conferma nella esplicita dichiarazione del legislatore.

Per quanto riguarda il patrimonio dello Stato, le fonti speciali richiamate dal codice sono principalmente le seguenti: il decreto legislativo 18 novembre 1923, n. 2440, sull'amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato; il regolamento per la sua esecuzione 23 maggio 1924, n. 827; il regolamento sul servizio del Provveditorato generale dello Stato, approvato con R. D. 20 giugno 1929, n. 1058. Queste disposizioni riguardano principalmente l'acquisto, la conservazione, l'amministrazione dei beni, i relativi inventari e i controlli sulla gestione. Le norme relative all'alienazione dei beni stessi sono contenute nella legge 24 dicembre 1908, n. 783, modificata col decreto luogotenenziale 26 gennaio 1919, n. 123, e con le leggi 2 ottobre 1940 n. 1406, e 14 giugno 1941, n. 617. Circa i beni dei comuni e delle province, sono da tenere presenti la legge comunale e provinciale, T. U. marzo 1934, n. 383 (art. 84-89, 132, 289, 29o, etc.), e la legge sulla finanza locale, T. U. 14 settembre 1931, n. 1175 (art. 13-19).


Regole particolari per i beni indisponibili

Il secondo comma dell'art. 828 contiene una norma particolare relativamente ai beni del patrimonio indisponibili. Già dall'art. 826 c.c. risulta che questi sono beni caratterizzati dalla loro destinazione, in quanto sia per la loro natura sia per la volontà dell'ente a cui appartengono, devono servire come mezzo per conseguire un suo fine determinato; i beni disponibili, in mancanza di tale destinazione, sono utilizzati per la loro attitudine a produrre altri beni, ossia come beni redditizi.

Quale sia il contenuto giuridico di questa distinzione prevalentemente economica è detto nel secondo comma del presente art. 828: “i beni che fanno parte del patrimonio indisponibile non possono essere sottratti alla loro destinazione se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano”. Con ciò il codice, pur accogliendo la distinzione contenuta nei regolamenti sull'amministrazione del patrimonio dello Stato, ne ha notevolmente modificato il contenuto giuridico. II ricordato art. 9 del regolamento 23 maggio 1924 stabiliva, infatti, che « si considerano non disponibili quei beni che, per la loro destinazione a un servizio pubblico o governativo, oppure per indisposizione di legge, non possono essere alienati o comunque tolti dal patrimonio dello Stato ». L'espressione "beni indisponibili", era, perciò, equivalente a quella di "beni inalienabili".

La dottrina discuteva in proposito se l'inalienabilità rispetto a questi beni avesse lo stesso contenuto e le stesse conseguenze tipiche dei beni demaniali: l'opinione più diffusa sembrava non ammettere differenze tra le due situazioni, anche se qualche autore giustamente riteneva che per i beni demaniali si dovesse riconoscere una vera incapacità a formare oggetto di negozi di alienazione, affermando pertanto la nullità di qualsiasi atto che avesse per oggetto il trasferimento di tali beni, mentre escludeva che lo stesso principio potesse valere per i beni indisponibili, rispetto ai quali l'atto traslativo non sarebbe stato che annullabile.

Il codice ha abbandonato, per i beni indisponibili, ogni restrizione alla facoltà di alienare ed ha posto come loro caratteristica il divieto della sottrazione alla destinazione ricevuta, se non in quanto previsto dalle leggi speciali. Da ciò ne consegue che l'alienazione di questi beni è possibile e lecita sempre che essa non comporti un cambiamento della destinazione. Questa condizione restringe praticamente la stessa facoltà di alienare: l'alienazione fatta con cambiamento di destinazione si reputa viziata e annullabile. D'altra parte, l'alienazione senza cambiamento di destinazione non può avvenire se non a favore di soggetti che curino gli stessi fini pubblici curati dall'ente cui il bene appartiene, ossia a favore di un altro ente pubblico o di un privato al quale l'ente proprietario conceda l'esercizio del servizio pubblico per cui il bene serve quale mezzo. L'alienazione non incontra, invece, alcuna limitazione quando avviene successivamente a un atto dell'amministrazione che abbia sottratto la cosa alla destinazione che ne determina l'indisponibilità: si tratta, in tal caso, dell'alienazione di un bene disponibile.

Il cambiamento di destinazione deve, in ogni caso, aver luogo nei modi stabiliti dalle leggi speciali: ciò importa non solo la necessità di osservare le forme e le procedure stabilite in queste leggi per il cambiamento, ma anche il divieto di far luogo a quest'ultimo quando ciò risulti escluso, in modo indiretto, dalle leggi stesse. Quanto detto vale in particolare per le miniere, non consentendo la loro natura e il complesso stesso delle disposizioni che le riguardano altra destinazione se non lo sfruttamento attraverso coltivazione fatta dallo Stato direttamente o per mezzo di concessionari.


La questione della possibilità dell’usucapione a favore di privati

L'esplicito assoggettamento di tutti i beni patrimoniali al re­gime del diritto privato e l'abolita identificazione della condizione di quelli indisponibili con una vera inalienabilità facilita la soluzione del problema relativo alla possibilità di per i privati di usucapire tali beni.
II vecchio codice, con l'art. 2114, disponeva che « lo Stato, pei suoi beni patrimoniali, é soggetto alla prescrizione e può opporla ai terzi ». Si discuteva se questa disposizione fosse applicabile anche ai beni del patrimonio indisponibile: la soluzione non poteva essere che affermativa, perché i beni indisponibili non sono, a differenza di quelli demaniali, sottratti al possesso e agli effetti giuridici di esso. Il nuovo codice ha omesso di riprodurre tale disposizione, in quanto ritenuta superflua: la usucapibilità dei beni patrimoniali, compresi quelli indisponibili, risulta però dalle regole generali di cui agli artt. 1158 e 1161 c.c. e dalla mancanza, nel regime dei beni stessi, di elementi che ostano all'applicazione di tali regole.

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

399 Nel disciplinare la condizione giuridica dei beni patrimoniali dello Stato, delle provincie e dei comuni, l'art. 828 del c.c., secondo comma, sancisce la limitazione che caratterizza il regime dei beni patrimoniali indisponibili: questi non possono essere sottratti alla loro destinazione se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano. Coerentemente all'identità della destinazione, la stessa limitazione domina il regime di quei beni degli enti pubblici non territoriali che sono destinati a un pubblico servizio (art. 830 del c.c., secondo comma).

Massime relative all'art. 828 Codice Civile

Cass. civ. n. 36907/2022

Ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 830 e 828, secondo comma, c.c., i beni del patrimonio indisponibile di un ente pubblico non territoriale possono essere sottratti alla pubblica destinazione soltanto nei modi stabiliti dalla legge, e quindi certamente non per effetto di usucapione da parte di terzi, non essendo usucapibili diritti reali incompatibili con la destinazione del bene dell'ente al soddisfacimento del bisogno primario di una casa di abitazione per cittadini non abbienti.

Cass. civ. n. 17308/2020

Le aree comprese nei piani approvati a norma della l. n. 167 del 1962 hanno, in virtù di quanto previsto dall'art. 35 della l. n. 865 del 1971, la qualifica di patrimonio indisponibile del Comune, in vista dell'attuazione di un progetto volto a soddisfare di edilizia economica e popolare esigenze e sono, pertanto, sottoposte al regime degli artt. 826 e 828 c.c.. Ne consegue che, non potendo tali beni essere sottratti alla loro destinazione "se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano", ex art. 828, comma 2, c.c., la relativa declassificazione non può trarsi da una condotta concludente dell'ente proprietario ma, derivando la destinazione all'uso pubblico di siffatte aree da una determinazione legislativa, deve avvenire in virtù di atto di pari rango. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che, relativamente ad alcuni terreni entrati a far parte del patrimonio indisponibile del Comune, ex art. 35 cit., siccome espropriati ed inclusi in un piano di zona finalizzato alla realizzazione di un progetto residenziale economico o popolare, ne aveva escluso la declassificazione per il sol fatto di non essere stati, poi, utilizzati in concreto dall'ente locale e, conseguentemente, l'usucapiblità).

Cass. civ. n. 3773/2016

L'art. 2, comma 85, della legge n. 662 del 1996 - nel disporre che le somme ed i crediti derivanti dai canoni di locazione e dall'alienazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica di spettanza degli istituti autonomi case popolari, in quanto destinati a servizi e finalità di istituto, non possono essere sottratti alla loro destinazione se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano, ai sensi dell'art 828 c.c. - impone direttamente un vincolo di impignorabilità di tali somme e crediti, come tale integrante un caso di limitazione della responsabilità patrimoniale di detti enti, ai sensi dell'art. 2740, comma 2, c.c., occorrendo al fine dell'insorgenza del vincolo soltanto l'iscrizione nei capitoli di bilancio o in contabilità speciale, senza che sia impressa alcuna specifica destinazione.

Cass. civ. n. 5158/2006

I beni facenti parte del patrimonio disponibile dello Stato, in quanto assoggettati alle comuni regole di diritto privato, sono usucapibili e, perciò, tale forma di acquisto può essere riconosciuta in favore di privati che si siano pubblicamente impossessati di essi, occupandoli, per sopperire alle loro esigenze abitative in seguito ad eventi bellici (nella fattispecie, fin dal 1946), comportandosi "uti domini", provvedendo ad installarvi gli impianti di cui erano privi, ad effettuare le opere necessarie a renderli abitabili, senza che la P.A. abbia manifestato in proposito alcuna opposizione per un periodo continuativo di circa cinquanta anni (di gran lunga superiore a quello necessario ad usucapire), con la conseguenza che il potere di fatto dagli stessi esercitato corrispondente all'esercizio del diritto di proprietà (presumendosi l' "animus possidendi", indipendentemente dall'effettiva esistenza del relativo diritto o dalla conoscenza del diritto altrui) non può considerarsi viziato per contrasto con la volontà della P.A., dal momento che il comportamento accondiscendente della stessa Amministrazione, tenuto durante tutto il lungo periodo trascorso del possesso esercitato, in relazione ad un bene del suo patrimonio disponibile, è idoneo a dimostrare, per "facta concludentia", la volontà di non opporsi all'altrui possesso.

Cass. civ. n. 1694/2006

La norma dell'art. 25, terzo comma, della legge n. 513 del 1977, là dove impone agli istituti autonomi per le case popolari di destinare le somme ad essi dovute per canoni di locazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica, al netto delle spese di cui all'art. 19, lettere b) e c) del d.P.R. n. 1035 del 1972, alle finalità indicate dalle lettere da a) ad e), non costituisce norma di legge direttamente impositiva di un vincolo di impignorabilità di tali somme, come tale integrante un caso di limitazione della responsabilità patrimoniale di detti enti, ai sensi del secondo comma dell'art. 2740 cod. civ., occorrendo al fine dell'insorgenza di tale vincolo la concreta individuazione da parte dell'ente delle somme e la specifica e concreta destinazione di esse ad una (o più) delle particolari finalità fra quelle rientranti nelle lettere da a) a e) citate. (Cassa con rinvio, App. Bari, 7 Giugno 2001).

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Consulenze legali
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SEBASTIAQNO C. chiede
mercoledì 12/07/2017 - Campania
“Nel 1975 Il Consorzio per lo Sviluppo dell’Area Industriale di ...omissis... espropriava con Decreto Prefettizio a danno del sottoscritto per la costruzione di una strada e quindi a scopo di pubblica utilità una superficie di terreno. All'epoca viene costruita la strada e una fascia del terreno espropriato è costituita dalla scarpata della strada che finisce con un fosso di scolo per la regimentazione delle acque piovane provenienti da detta strada. Questa condizione rimane invariata fino all’anno 2015. Improvvisamente nel 2015 un nuovo proprietario del terreno confinante con detta striscia di terreno si impossessa della fascia di terreno espropriato costituente una parte della scarpata ed il fosso di scolo delle acque piovane. L’impossessamento avviene con una donazione a mezzo di atto pubblico da parte di una anziana signora di 90 anni, che niente aveva avuto mai a che vedere con quella fascia di terreno, in favore del proprietario confinante. L’anziana signora nell’atto di donazione dichiara che ella è proprietaria di quella fascia di terreno, oggetto di donazione, per possesso ultraventennale.
Dalle successive azioni compiute da quel donatario ci si rende conto che egli mira a realizzare ed in parte realizzato una strada sul fosso di scolo eliminando quest’ultimo. Tale situazione risulta lesiva dei miei interessi, in quanto in seguito all’ esproprio la mia proprietà viene divisa in due parti ma l’Ente espropriante ne assicurava il collegamento con la costruzione di un sottopasso a cui si accede da una piccola porzione di terreno, facente parte della striscia di terreno, oggetto della donazione, con la conseguenza che il sottoscritto, non essendo più l’Ente espropriante proprietario di quella piccola porzione di terreno, può essere privato da un momento all’altro dell’accesso al sottopasso, che costituisce collegamento con la mia proprietà a monte. Si precisa che la piccola porzione di terreno da cui si accede al sottopasso è delimitata da una recinzione realizzata dall’Ente espropriante per non consentire la possibilità di accesso a terzi sulla strada, che ha la caratteristica di essere una strada a scorrimento veloce.
Tenuto conto che il sottoscritto ha provveduto a segnalare la situazione all’Ente espropriante senza ricevere alcuna risposta e che l’Ente espropriante non ha messo in atto alcuna azione a tutela del diritto di proprietà su quella fascia di terreno prima espropriata e nel 2015, oggetto di donazione tra privati, e nella considerazione che gli atti sia di quel donatario, sia dell’Ente espropriante hanno oggi fatto venire meno, a mio avviso, lo scopo dell’esproprio per pubblica utilità si chiede a codesto Studio Legale se il sottoscritto oggi può richiedere all’Ente espropriante la restituzione del bene espropriato, essendo venuto meno lo scopo della pubblica utilità che costituiva l’unica motivazione e condizione a supporto del diritto di esproprio di quell’Ente.”
Consulenza legale i 17/07/2017
Costituisce principio generale in materia di espropriazione per pubblica utilità quello sancito dall’art. 42 comma 3 della Costituzione, per effetto del quale il diritto di proprietà può essere sacrificato nella misura in cui il bene sottratto al privato sia destinato al perseguimento di un interesse generale.
Ne consegue che la mancata utilizzazione da parte dell’autorità espropriante dei beni privati per la realizzazione di un’opera pubblica o di pubblica utilità, comporta la possibilità del suo ritrasferimento a favore dell’ex proprietario.

Il DPR 327/2001, confermando la normativa previgente di cui agli artt. 60 – 63 L. n. 2359/1865, contempla due ipotesi di c.d. retrocessione: la retrocessione totale e la retrocessione parziale.

La prima è disciplinata dall'art. 46 TU e presuppone la mancata esecuzione o il mancato inizio dell’opera pubblica entro il termine di dieci anni (la posizione del proprietario, in questo caso, è quella di un diritto soggettivo perfetto ed i soggetti espropriati hanno il diritto di domandare al giudice la pronuncia di retrocessione dei beni, previa declaratoria di decadenza della dichiarazione di pubblica utilità).

La retrocessione parziale invece è disciplinata dall'art. 47 TU (ex art. L. n. 2359/1865) e presuppone che l'opera pubblica o di pubblica utilità sia stata realizzata ma che una parte del bene non sia stata utilizzata (in questo caso l'espropriato può chiedere la restituzione di quella parte di bene).
In ogni caso il diritto del privato alla restituzione del bene è condizionato all'emanazione di un atto amministrativo che dichiari l’opera inservibile (Cass. Sez. Un. n. 23823 del 11 novembre 2009; Tar Toscana Sez. I n. 1470 del 23 settembre 2009; Tar Roma Sez. I ter n. 7552 del 27 luglio 2009; Tar Lombardia Sez. II Milano n. 196 del 23 gennaio 2009) e si prescrive nell'ordinario termine decennale (Cass. 26 giugno 1990, n. 6492; 30 novembre 1985, n. 5979; 30 gennaio 1985, n. 575).

Ciò porta indubbiamente ad escludere che nel caso di specie ci si possa avvalere di tale istituto giuridico, e questo sia perché risulta prescritto il relativo diritto sia perché non si potrà mai conseguire un atto amministrativo che dichiari l’opera inservibile; infatti, come chiaramente detto nel testo del quesito, l’area di cui si vorrebbe in realtà riacquisire la proprietà risulta utilizzata a servizio della strada già realizzata, essendo stata destinata a fosso di scolo per la regimentazione delle acque piovane provenienti dalla strada e risultando peraltro recintata.

In casi del genere si rende necessario che il beneficiario dell'espropriazione manifesti una sua valutazione discrezionale sulla utilizzabilità delle aree che si assumono non utilizzate in funzione dell'opera pubblica, con la conseguenza che le stesse potrebbero essere retrocesse solo se la P.A. dichiari formalmente la loro inservibilità per i fini per i quali furono oggetto del procedimento ablativo (cfr. S.U. n. 14826/2008); a fronte di una simile valutazione sussistono solo interessi legittimi del privato a ottenere la retrocessione, non potendo peraltro l'autorità giudiziaria sostituirsi alla P.A. nella valutazione dell'utilizzabilità dei beni.

A questo punto, dunque, il problema che si pone è quello di cercare di capire come ci si possa tutelare dalle azioni che il donatario ha posto in essere e che potrebbero giungere ad ostacolare o eliminare del tutto il passaggio da quel sottopasso che lo stesso Ente espropriante aveva realizzato, risultando questo in fondo l’interesse principale dell’espropriato.

Intanto va precisato che il donatario può avere validamente acquistato quella striscia di terreno per usucapione, ai sensi degli articoli 1158 e seguenti del Codice civile, solo qualora questa faccia parte del cosiddetto "patrimonio disponibile".
Se, invece, la striscia di terreno appartiene al "patrimonio indisponibile", per essa valgono regole differenti; in particolare, si applica l’articolo 828, comma 2, c.c., il quale dispone che i beni indisponibili non possono essere sottratti alla loro destinazione, se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano.

A tal proposito va detto che la giurisprudenza ha escluso che possa verificarsi usucapione da parte di terzi di quei terreni che siano stati acquisiti, a seguito di espropriazione forzata, al patrimonio degli enti di sviluppo, e ciò per la ragione che detti beni vengono così destinati a un pubblico servizio e non possono essere sottratti alla loro destinazione se non nei modi stabiliti dalla legge.

Pertanto, considerato che l’ente espropriante ha finora dimostrato disinteresse per la situazione, ciò che può nell’immediato consigliarsi è di recarsi presso la locale Caserma dei Carabinieri o autorità di pubblica sicurezza e sporgere denuncia per invasione di terreni ed edifici ex art. 633 c.p., a cui potrebbe aggiungersi l’integrazione del reato di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico ex art. 483 c.p..
Questa seconda ipotesi di reato sarebbe dimostrabile per la semplice circostanza che l’anziana signora di 90 anni, donante del terreno, non ha mai posseduto quella striscia di terreno, il che potrebbe anche dedursi da una semplice ispezione dello stato dei luoghi, la quale consentirebbe agevolmente di verificare che il terreno che si sarebbe voluto usucapire di fatto è delimitato da una recinzione realizzata dall’Ente espropriante per non consentire la possibilità di accesso a terzi sulla strada (e di conseguenza l’impossibilità di esercitarne il possesso utile all’usucapione).

Sotto il profilo prettamente civilistico, invece, si potrà inibire al donatario di porre in essere atti che possano impedire l’uso del sottopasso attraverso le ordinarie azioni apprestate dal nostro ordinamento a tutela delle servitù.
In particolare, il riferimento va fatto all’art. 1079 c.c., la c.d. "vindicatio servitutis", detta anche "azione confessoria".
In base a tale norma il proprietario del fondo dominante è legittimato ad utilizzare tale strumento ogni qual volta abbia interesse a far riconoscere in giudizio l'esistenza del proprio diritto, contro chi ne contesta l'esercizio.

Inoltre, il titolare della servitù, nel caso in cui abbia subito o stia subendo impedimenti o turbative di qualunque tipo, consistenti non necessariamente in alterazioni fisiche dello stato di fatto ma anche in comportamenti che pongano in dubbio o in pericolo l'esercizio della servitù (cfr. Cass. n. 1214/1999), potrà chiedere contestualmente la cessazione di questi ostacoli al legittimo godimento del suo diritto.

Per quanto concerne la legittimazione passiva, va detto che, mentre per la giurisprudenza più risalente legittimato passivamente è chiunque abbia posto in essere turbative o impedimento al diritto di servitù, quindi sia il proprietario del fondo servente che un terzo (Cass. N. 1383/1994), l'orientamento più recente adotta un atteggiamento più rigoroso, ritenendo che l'actio confessoria e quella negatoria possano essere promosse esclusivamente nei confronti del proprietario del fondo gravato che ne contesti o impedisca l'esercizio (Cass. N. 12479/2013).

Nel nostro caso, dunque, l’azione andrà proposta contro chi risulta proprietario della striscia di terreno dai pubblici registri, ossia il donatario, dovendosi escludere la qualità di litisconsorte necessario del Consorzio per lo Sviluppo dell’Area Industriale, ente di diritto pubblico espropriante, che aveva realizzato il sottopasso e delimitato la porzione di terreno interessata con una recinzione.

Massimiliano chiede
mercoledì 06/10/2010
“Volevo sapere perche' se la provincia mi concede il suolo pubblico per costruire un chiosco per la somministrazione, e il comune nn vuole concedermi l'autorizzazzione amministrativa all'esercizio della medesima. Il comune e catania.”
Consulenza legale i 08/10/2010

Si tratta di due autorizzazione dal diverso contenuto. Occorre rispettare i requisiti specifici necessari all'ottenimento dell'una e dell'altra. Il fatto che la provincia abbia rilasciato l'autorizzazione all'occupazione di suolo pubblico non obbliga il comune a rilasciare autorizzazione per la somministrazione di bevande.