La fiducia testamentaria ha sempre dato e sempre darà luogo a gravi questioni teoriche e pratiche, per il fatto che le soluzioni legislative dei problemi che vi si riferiscono non possono ispirarsi unicamente a princìpi astrattamente logici. È questo un campo nel quale le esigenze pratiche si impongono con insolita energia; non solo, ma provengono da direzioni diverse, e spesso opposte, tanto che le soluzioni seguite riflettono quasi sempre dei compromessi.
L’art. 627 differisce dal tormentatissimo testo dell’art. #829# del vecchio codice del 1865 per riflessi formali e per riflessi sostanziali. Le disposizioni concernenti la fiducia hanno rapporti con diverse disposizioni di indole generale e con vari istituti, e non è facile, quindi, adottare un criterio decisivo che aiuti a risolvere senza residuo di dubbi ogni quesito; pertanto, ai fini della presente trattazione, è più indicato l’esame del testo legislativo.
Una prima differenza, che però solo in un certo senso può dirsi di ordine formale, dà un’impronta particolare al nuovo testo legislativo, rispetto a quella che aveva il testo consacrato nell’art. #829# codice 1865. “Non è ammessa azione in giudizio per accertare” (dice l’art. 627), “non è ammessa alcuna prova” (diceva l’art. #829# codice 1865): tanto l'azione in giudizio dell’art. 627, quanto la prova dell’art. #829# codice 1865, non si ammettono per dimostrare “che le disposizioni fatte a favore di persona dichiarata nel testamento sono soltanto apparenti e che in realtà riguardano altra persona” (questa la formula dell’art. 627, quasi del tutto identica a quella dell’art. #829# codice 1865).
Insomma, per raggiungere un fine pratico rimasto immutato, si sarebbe scelto un mezzo diverso: mentre prima si negava la prova, ora si nega l’azione (per l’accertamento) in giudizio.
Tra i due mezzi, però, non esiste completa autonomia; anzi, in un certo modo, essi sono funzionalmente collegati: la prova, infatti, è destinata a spiegare in giudizio la sua efficacia pratica, mentre l’azione in giudizio trova nella prova il suo sostegno. Cosicché, in astratto, se non è ammessa la prova per un determinato fine, il giudizio che si instauri per quel fine medesimo è sterile, perché le domande dell’attore, non potendo essere sostenute dalla prova, per legge inammissibile, sono destinate ad essere rigettate. Ora, un giudizio rispetto al quale si conosce a priori, e senza possibilità di dubbio, l'esito nullo, non è un giudizio. Tuttavia, se si ammette, in astratto, la possibilità che la domanda dell’attore si sostenga sulla base di elementi che non possono qualificarsi tecnicamente come prove, si spezza il legame di dipendenza di uno dei due mezzi (l’azione in giudizio) rispetto all'altro (la prova), pur se rimane integro il vincolo di questo rispetto a quello (poiché la prova sarà sempre destinata a spiegare la sua efficacia in giudizio).
Per l’appunto, tale possibilità teorica venne identificata in relazione alla confessione, che si voleva escludere dal novero delle prove. In tal modo si sarebbe trovato nella confessione un sostegno all'azione di accertamento della fiducia testamentaria, il quale, non rientrando nella categoria delle prove, non veniva colpito dal divieto dell’art. #829# codice 1865; e poiché quella disposizione non negava l'azione in giudizio, ne discendeva la conclusione secondo cui doveva ritenersi legittimo l’accertamento della fiducia testamentaria in giudizio, purché avesse come base la confessione.
Non è difficile, tuttavia, convincersi che un’interpretazione del genere, anche se si ammetta che la confessione non sia una prova, debba considerarsi come illegittimamente restrittiva, legata com'è alla parola “prova”, che il legislatore del 1865 non intese certo adoperare in quel significato eccessivamente tecnico, neppure generalmente condiviso, che si è indicato. Comunque, è notevole il proposito che ha ispirato il nuovo legislatore a ricercare una formulazione che potesse eliminare ogni questione al riguardo. In tal modo, la portata dell’art. 627 risulta indubbiamente estesa, in modo da non ammettere eccezioni e restrizioni.
Anche dal punto di vista teorico, è più facile giustificare la soppressione della tutela giurisdizionale rispetto ad un dato interesse, anziché il divieto della prova del fatto su cui l’interesse medesimo si forma, una volta che, in tesi, non si neghi l'azione in giudizio. Infatti non sono ignote all'esperienza del giurista le situazioni nelle quali degli interessi, che fino ad un certo momento erano protetti dal diritto, rimangono privi di tutela giurisdizionale: si parla persino di diritti senza corrispondenti azioni. Si può notare che, per questa via, volgiamo verso il campo di quei rapporti giuridici che hanno origine dalle c.d. obbligazioni naturali: e il richiamo, come si vedrà subito, non è casuale, né privo di significato.
Sarà facile obiettare che si tratta di figure equivoche e di situazioni giuridiche non facilmente definibili, nonché di schemi tecnici ai quali non è consigliabile ricorrere per ricollegarvi altre figure, dato che essi hanno offerto ricche occasioni di dibattito. Le esigenze della pratica, però, non si arrestano di fronte alle preoccupazioni dei teorici, e nella specie, come si è detto, premono con particolare energia.
Prima di procedere all'analisi del testo legislativo, va rilevato che i compilatori sono stati coerenti, in quanto hanno posto l’unica premessa che fosse adatta a sostenere, dal punto di vista sistematico, la disposizione nuova: questa è stata introdotta nel primo comma dell’art. 627, nel quale, in relazione all'esecuzione volontaria, viene consacrato il divieto della ripetizione, che costituisce un caratteristico effetto dell’adempimento volontario delle obbligazioni naturali (art. #1237# capoverso codice 1865).
Tornando alla disposizione contenuta nella prima parte dell’art. 627, si rileva che il legislatore del codice attuale, come quello del 1865, ha evitato: a) di dichiarare nulla la fiducia; b) di dichiarare, in qualsiasi modo, efficace la volontà del testatore tendente ad attribuire l’oggetto della disposizione ad un soggetto diverso da quello designato nel testamento.
Anzi, per paralizzare la volontà del testatore, ritenuta, in rapporto a quell'intento specifico, contraria ai fini dell’ordinamento giuridico, ha impedito l’accertamento giudiziale della fiducia. Perciò si sarebbe tentati di ritenere che la fiducia sia soltanto inefficace, anziché nulla.
Il risultato più saliente del sistema adottato è questo: che il chiamato acquista la titolarità formale dell’oggetto della disposizione (diventa, quindi, erede o legatario), e tale titolarità non può essergli contestata da nessuno: né dal destinatario mediato della disposizione fiduciaria, né da qualsiasi terzo che potrebbe avere interesse all'accertamento della fiducia. Praticamente, con riferimento alla disposizione contenuta nel primo comma dell’art. 627, si hanno gli stessi effetti che si avrebbero se la fiducia fosse dichiarata nulla, o anche ab initio e per sempre inefficace.
E allora (e questo era un palese difetto dell’art. #829# codice 1865) non si riesce a capire, considerando isolatamente la disposizione in esame, per quale ragione il legislatore non abbia dichiarato senz'altro nulla la fiducia. Tanto più che, sotto la vigenza del citato art. #829# codice 1865, un'autorevole tendenza dottrinale sosteneva che, se il designato avesse voluto adempiere il voto del testatore, avrebbe dovuto, con un negozio del tutto autonomo (prevedibilmente una donazione), trasferire al beneficiario mediato i beni che formavano oggetto della disposizione fiduciaria. Un’altra tendenza dottrinale, forzando il testo della legge, volle attribuire efficacia giuridica all'esecuzione volontaria della fiducia, da parte del soggetto designato come destinatario immediato della disposizione testamentaria; e ciò al fine di soddisfare esigenze pratiche di moralità e di equità, delle quali si è reso pienamente conto il nuovo legislatore. Per tale ragione, fu introdotta la disposizione contenuta nel secondo comma dell’art. 627, la quale rappresenta un'innovazione di sostanza rispetto all'art. #829# codice 1865, di cui colma una grave lacuna. Essa stabilisce, al comma 2, che “la persona dichiarata nel testamento, se ha volontariamente eseguito la disposizione fiduciaria trasferendo i beni alla persona voluta dal testatore, non può agire per la ripetizione”. Si attribuisce, dunque, all'esecuzione volontaria del designato, una determinata efficacia giuridica: quella di ostacolare la ripetizione di ciò che il fiduciario trasferì alla persona designata, in esecuzione volontaria della fiducia.
Questo punto merita un approfondito esame, sia sotto il riflesso teorico, che sotto il riflesso pratico. Preliminarmente è da rilevare che, ove si ritenga nulla o assolutamente e irrimediabilmente inefficace la fiducia, il trasferimento dei beni costituenti l’oggetto della disposizione dovrà avere, per essere valido, una propria causa. Perciò sarà valido, ad esempio, se il designato, acquistata la titolarità formale di quei beni, in base alla disposizione fiduciaria, ne faccia donazione, come di cosa propria, al destinatario mediato; viceversa, sarebbe privo di causa ove risultasse comunque fatto in adempimento della volontà del testatore; di conseguenza, il designato potrebbe esercitare l’azione restitutoria. In virtù della disposizione contenuta nel secondo comma della norma in esame, basta, invece, l’esecuzione volontaria della disposizione fiduciaria perché il designato nel testamento non possa pretendere la restituzione delle cose trasmesse al beneficiario mediato.
Le conseguenze pratiche di tale principio sono evidenti: a parte ogni indagine circa la causa del negozio traslativo, è chiaro che, se il designato volesse compiere un atto di donazione, dovrebbe adottare le forme che la legge richiede per la validità di tale atto (atto pubblico). Viceversa, il designato che esegua volontariamente la disposizione, si precluderà la possibilità di richiedere la restituzione dei beni che ne formano l’oggetto, se li abbia trasferiti, nei modi di legge, al destinatario mediato: quindi, trattandosi di mobili, anche mediante semplice consegna manuale; trattandosi di immobili, anche mediante scrittura privata, purché questa sia autenticata, per rendere possibile la trascrizione (art. #1935#, secondo capoverso, codice 1865).
Si è fatto cenno, pur con le dovute cautele, alle obbligazioni naturali. Il riferimento ha precedenti specifici autorevoli, poiché la disposizione dell’art. 627, comma 2, è stata lodata proprio perché fa rientrare la disposizione fiduciaria nel sistema delle c.d. obbligazioni naturali che non pariunt actionem, sed repetitionem recipiunt. E sono state messe in luce le generiche ragioni di analogia, anche se, nel momento in cui si cerca di indicare qualche criterio per la sistemazione del fenomeno, sorgono dei dubbi. Innanzitutto, la costruzione che fa capo allo schema delle obbligazioni naturali sembra artificiosa: bisognerebbe supporre che la legge abbia posto a carico del designato un’obbligazione naturale di trasferire i beni oggetto della disposizione fiduciaria al destinatario mediato; sì che l’adempimento volontario della disposizione stessa sarebbe da considerare come pagamento, ai sensi dell’art. #1237# capoverso del codice del 1865. E siccome l’art. 627 comma 2 richiede un trasferimento, si tratterebbe di un pagamento traslativo. Ma qui sorge una prima difficoltà: ai sensi dell’art. #1240# del codice del 1865, il pagamento traslativo non è valido, se non è fatto da colui che sia proprietario della cosa; e, a voler sottilizzare, si potrebbe dubitare che il designato possa considerarsi senz'altro proprietario delle cose oggetto della disposizione fiduciaria, stante l’esistenza dell’obbligazione (sia pure naturale) di trasferirle ad altri. Inoltre, se l’obbligazione naturale nasce dalla legge, nel caso di disposizione fiduciaria, per potere ostacolare la domanda di restituzione da parte del designato che diede esecuzione volontaria a tale disposizione, bisogna accertare il rapporto di fiducia: e può essere dubbio che l’accertamento giudiziale, vietato per via di azione, possa essere consentito in via di eccezione. Più semplicemente, bisogna ritenere che il trasferimento, fatto in esecuzione di una disposizione fiduciaria, non abbia bisogno, per essere valido ed efficace, di una causa propria; per lo meno, affinché produca l’effetto di impedire la richiesta di restituzione, basta che si accerti la sua funzione esecutiva rispetto alla disposizione fiduciaria. In tal modo, per applicare convenientemente la disposizione dell’art. 627 comma 2, non è necessario uscire dai confini della disposizione stessa, e l’analogia con le obbligazioni naturali si limiterà alla generica corrispondenza circa gli effetti.
Il designato che abbia volontariamente eseguito la disposizione fiduciaria non perde la qualità formale di erede o di legatario: egli non si toglie di mezzo, facendo sì che il beneficiario mediato succeda direttamente al de cuius; tanto è vero che l’esecuzione della disposizione fiduciaria si attua mediante trasferimento, il quale presuppone un acquisto precedente da parte dell’attuale trasmittente. In sostanza: il designato acquista il titolo di successore (universale o particolare) del testatore, nonché i beni che formano oggetto della disposizione fiduciaria; successivamente, a mezzo di un autonomo negozio giuridico, che crea un rapporto distinto e indipendente, trasferisce (soltanto) i beni al beneficiario mediato. La più importante conseguenza pratica di tale rigorosa posizione teorica è questa: se il designato venne chiamato come erede, egli, col trasferire i beni oggetto della disposizione fiduciaria, non si libera dalla responsabilità che assume l’erede per il pagamento dei debiti. E non esiste un qualsiasi espediente che consenta il trapasso automatico di tale responsabilità a carico del beneficiario mediato, con la contemporanea liberazione del designato. Questi potrà, tutt'al più, assicurarsi l'assunzione di un obbligo contrattuale da parte del beneficiario immediato, rafforzato possibilmente da garanzia ipotecaria su quegli stessi beni costituenti oggetto del trasferimento per l’esecuzione della disposizione fiduciaria.
Si potrebbe essere tentati di accostare alla disposizione che si esamina quella dell’art.
590 (alla quale fa riscontro, per le donazioni, l’art.
799), per il fatto che anche qui si tratta di
esecuzione volontaria di disposizioni testamentarie. Ma l’elemento di identità relativo all'attività del soggetto non esclude la differenza relativa al contenuto e alla natura dell’oggetto di tale attività. E la differenza è così rilevante da giustificare, nelle due situazioni, soluzioni del tutto opposte: infatti,
la disposizione fiduciaria è valida ed efficace rispetto al designato, il quale, sul presupposto degli effetti spiegati dalla chiamata in suo favore, trasferisce ad altri i beni acquistati; l’art.
590, invece, fa l’ipotesi di una
disposizione testamentaria la quale, appunto perché
nulla,
non ha di per sé l’effetto di fare acquistare il titolo e i beni al designato. Nel primo caso il designato, che ha acquistato, trasferisce ad altri; nel secondo caso, colui che avrebbe diritto ad acquistare al posto del designato non validamente chiamato rende valida ed efficace la chiamata a favore del primo. Qui, dunque, manca qualsiasi trasferimento: colui che ratifica non ha acquistato né titolo né beni, i quali perciò sono acquistati, in seguito all'esecuzione volontaria del ratificante, direttamente dal designato.
È stato detto che, in base al testo legislativo, l’esecuzione della disposizione fiduciaria ha luogo mediante un trasferimento. Ora è necessario determinare se tale trasferimento sia a titolo gratuito o a titolo oneroso. La soluzione non può essere dubbia: il trasmittente non riceve alcun vantaggio da parte dell’acquirente: anche se questi assuma l’obbligo di renderlo indenne dalle obbligazioni verso i creditori dell’eredità (qualora il designato sia stato chiamato a titolo di erede), non si può dire che questo sia un vantaggio, poiché l’obbligo in oggetto tende soltanto ad alleviargli le conseguenze dannose derivanti dalla chiamata; conseguenze che dovrebbero essere poste a carico di colui che, in seguito all'adempimento della disposizione fiduciaria, acquista i vantaggi. In altri termini, l’obbligo di cui si tratta tende ad eliminare gli inconvenienti pratici del sistema legislativo. In mancanza di qualsiasi vantaggio a favore del trasmittente, è chiaro che il trasferimento debba considerarsi a titolo gratuito. Tanto più che esso è del tutto libero, essendo rimesso alla determinazione spontanea del designato, il quale potrebbe, invece, godersi indisturbato i beni oggetto della disposizione in suo favore. Se, dunque, i creditori del designato volessero impugnare per frode il trasferimento, avrebbero l’onere di provare soltanto la frode da parte del trasmittente (art. #1235#, comma 2 del codice del 1865). Si badi che a tale conseguenza si perviene anche negando che il trasferimento costituisca una donazione, perché l’art. #1235# del codice del 1865 non fa riferimento specifico e restrittivo agli atti di donazione, ma si riferisce genericamente agli atti a titolo gratuito. Tuttavia, se si ritiene che l’esecuzione volontaria della disposizione fiduciaria costituisca l’adempimento di un’obbligazione, sia pure naturale, non si potrà più valutare l’atto come trasferimento a titolo gratuito, ma dovrà considerarsi come pagamento traslativo. In tal caso, non si potrà più ricorrere alle comuni regole che disciplinano l’impugnativa dei trasferimenti compiuti in frode dei creditori, ma si dovrà far capo alle regole che disciplinano l’impugnativa dei pagamenti. Le questioni sollevate non sono affatto di facile e sicura soluzione; tanto più che - come è stato rilevato - il ricorso allo schema dell’obbligazione naturale non è esente da dubbi.
Da quanto detto finora, sembra si possa dedurre che la disposizione fiduciaria - come già buona parte della dottrina aveva ritenuto sotto la vigenza del codice precedente - deve considerarsi come nulla: sicché, in sostanza, il designato non assume neanche un obbligo di trasferire i beni acquistati al destinatario mediato. Si è detto che il pactum fiduciae, privo di immediata efficacia giuridica, si risolve in un semplice consiglio. Più propriamente, l’accordo tra il testatore e il fiduciario si può considerare come un negozio illecito; ne consegue che ogni tentativo di attribuire una qualsiasi efficacia all'accordo predetto deve ritenersi vano. Così, non si può vedere in esso un valido mandato post mortem, perché, a parte ogni riserva circa la validità di questa specie di mandato, è chiaro che esso non possa essere valido se è contrario alla legge.
Anche per questa ragione, si deve escludere l’esistenza dell’obbligazione naturale; e la disposizione che consacra la soluti retentio in caso di volontaria esecuzione da parte del fiduciario si spiega per mezzo del principio tradizionale per cui la condictio ob turpem causam veniva negata quando in causa turpi versava anche il solvente: e nella specie, appunto, il fiduciario che esegue la fiducia, è partecipe dell’accordo col testatore, ed in ciò si concreta il negozio illecito.
Il terzo comma dell’art. 627 riproduce quasi testualmente la disposizione contenuta nel secondo comma dell’art. #829# del codice del 1865: disposizione che, dopo molte oscillazioni e proposte, venne mantenuta in vita dal legislatore del nostro codice. Successivamente però, lo stesso legislatore ha precisato che l’
incapacità di cui si tratta nella norma in esame è solo quella
di ricevere per testamento. Dal testo dell’art.
599, pare si possa dedurre che persone incapaci di ricevere per testamento siano da considerare quelle delle quali si parla negli articoli ad esso precedenti (il tutore e il protutore, il notaio, i testimoni e l'interprete relativamente al testamento pubblico, chi ha scritto o ricevuto il testamento segreto).
L’ultimo comma dell’art. 627 non si applica certamente agli indegni. Non solo, infatti, è chiara in dottrina la distinzione tra indegnità e incapacità, ma essa risulta ormai sicura dal sistema del codice.