Oggetto della restituzione
Una volta posto in rilievo, nel definire il deposito (art. 1766), che la restituzione deve avvenire in natura, come del resto implicato dallo scopo conservativo del contratto e dal concetto stesso di custodia, ne discende necessariamente che si debba restituire l'identica cosa ricevuta, e nelle originarie condizioni materiali ed economiche. Ciò esclude non solo la restituzione del tantundem, o equivalents economico della res deposita, ma anche quella di una eguale quantità di cose appartenenti alla stessa species, che non sarebbe adempimento, bensì prestazione (di cosa diversa) in luogo dell'adempimento, o datio in solutum (art. 1194), con efficacia estintiva dell'obbligo subordinata al consenso del creditore. Questa esclusione vale anche quando il deposito abbia per oggetto cose fungibili o consumabili, data l'irrilevanza — soggettiva o convenzionale — di tale loro carattere, conseguente al fatto stesso del deposito. Se, peraltro, di cose fungibili o consumabili — moneta, grano, cereali — sia stato concesso l'uso al depositario, diventa impossibile la restituzione dell'eadem res, e si versa nella ipotesi del deposito irregolare, implicante il trasferimento della proprietà delle cose. Una più moderata deroga al principio della restituzione dell'eadem res implica anche, ma per altre ragioni, anche it c.d. deposito alla rinfusa.
Dallo stesso principio deriva anche l'inammissibilità di quella speciale forma di adempimento per equivalente, che è la compensazione del credito del depositante con eventuali ragioni creditorie del depositario nei suoi confronti, come del resto testualmente sancito dall'art. 1246, n. 2. Ed in caso di fallimento del depositario, la restituzione è dovuta integralmente in natura, non in moneta fallimentare, salvo sempre quanto disposto per il deposito irregolare.
Va infine ricordato che, anche quando la cosa depositata è divisibile o consta di una pluralità di cose, non è ammessa, senza il consenso del depositante, la restituzione parziale (art. 1181).
Frutti e interessi della cosa depositata
L'art. 1775 stabilisce che il depositario è tenuto a restituire i frutti della cosa che egli abbia percepiti. Questa disposizione riposa sul principio della naturale estensione delle obbligazioni ex deposito ai frutti prodotti dall a res deposita. Nel trattare del contenuto normale della custodia (art. 1768), si è chiarito che la percezione dei frutti, oltre a rappresentare una normale possibilità per il depositario, è talvolta oggetto di un suo obbligo, contrattuale o meno; tuttavia l'articolo in esame si riferisce solo ai frutti percepiti, non anche ai percipiendi, perché per questi è questione di responsabilità (ex custodia), non di restituzione.
A questa disposizione, l'art. 1852 cod. abrogato aggiungeva il seguente capoverso: "Egli non è debitore di alcun interesse del denaro depositato, se non dal giorno in cui fu costituito in mora a farne la restituzione". Tale espressa precisazione è stata giustamente omessa, come superflua, nel codice attuale. Infatti, quanto all'improduttività di interessi del denaro depositato, essa è inerente alla finalità meramente conservativa del contratto, né trova luogo la corresponsione di interessi compensativi, non spettando di regola al depositario la facoltà di usare il denaro: se questa sia concessa, si versa senz'altro, secondo codice attuale, nell'ipotesi di deposito irregolare, e la corresponsione degli interessi compensativi deriva dal combinato disposto degli articoli 1782 e 1815. Quanto poi all'affermazione dell'obbligo di corrispondere gli interessi in seguito alla mora, essa — a parte la sua estraneità sistematica all'articolo in esame, attenendo non all'obbligo primario di restituzione, ma a quello secondario di risarcimento (responsabilità) — sarebbe del pari superflua, come pura e semplice applicazione dell'art. 1224.
Net corso dei lavori di codificazione fu invece oggetto di discussione, a proposito di quest'articolo, l'opportunità di sancire espressamente l'obbligo degli interessi a carico del depositario che abbia fatto uso, senza il consenso del depositante, del denaro depositato. È quindi opportuno occuparsi in questa sede di tale questione, che del resto correttamente non si risolve sul terreno della responsabilità per violazione del divieto d'uso.
Al riguardo, gli atti paralegislativi rispecchiano il netto dissenso esistente in dottrina sulla questione. Infatti, mentre la Relazione sul codice civile (n. 730) considera superflua l'espressa sanzione dell'obbligo degli interessi, perché questo deriva automaticamente «dalla conversione in proprio uso che del denaro il depositario abbia fatto, violando i suoi doveri ed incorrendo in responsabilità (art. 1219, comma 20», viceversa la Relazione sul Progetto Ministeriale (n. 548) accede al prevalente indirizzo dottrinale, che è per la negativa, considerando che il denaro depositato è destinato a rimanere infruttifero nelle mani del depositario, e quindi il depositante non risente alcun pregiudizio dall'uso che ne sia stato fatto.
Ciò posto, determinare se, in mancanza di espressa disposizione, dai principi generali derivi la soluzione negativa — come mostra di ritenere la Relazione sul Progetto, o viceversa quella positiva, è problema interpretativo, che non si può ritenere vincolato dall'esplicita affermazione della Relazione sul codice nel secondo senso. Sembra, infatti, che l'invocazione dell'art. 1219 n. 1 non sia decisiva nel senso voluto. È vero che. si debba considerare l'uso arbitrario come fatto illecito (in quanto costituente violazione di un divieto legale e non contrattuale) o invece come inadempimento di un obbligo negativo (tertium non datur), in ogni caso non occorre costituzione in mora (art. 1219, n. I ; art. 1222), ed il solo fatto della violazione produce immediatamente la responsabilità. Ma da ciò non deriva l'applicabilità dell'art. 1224, secondo il quale per le obbligazioni pecuniarie, il risarcimento si traduce nella corresponsione degli interessi e prescinde dalla effettiva sofferenza di danni, onde sarebbe vana l'obiezione della mancanza di danni, inerente alla funzione meramente conservativa del deposito. Infatti, nel nostro caso, l'obbligo violato è quello di non usare, che non costituisce obbligazione pecuniaria ai sensi dell'articolo 1224, e non l'obbligo di restituire il denaro depositato: salvo che, in conseguenza dell'uso, non sia ritardata o impedita la restituzione. Né dell'art. 1224 ricorre la ratio, cioè la normale produttività del denaro presso il creditore durante il tempo del ritardo, poiché, fino al termine di restituzione, non l'abuso del depositario, ma il fatto stesso del deposito ha escluso tale produttività per il depositante.
D'altra parte, l'art. 1219, n. 1, consente di prescindere dalla costituzione in mora, quando «il debito derivi da fatto illecito», ma con ciò stesso presuppone che dal «fatto » sia derivato il «debito», secondo la regola generale dell'art. 2043, che pone come requisito indefettibile di questa derivazione l'estremo dell'ingiusto danno altrui. Se, in base all'art. 2043, il risarcimento è dovuto, al relativo debito si applicherà il disposto dell'articolo 1219 n. 1, che, combinato con l'art. 1224, determinerà la corresponsione degli interessi indipendentemente dalla costituzione in mora e dalla prova dei danni: di quei danni, cioè, riferibili al ritardo nel pagamento dell'indennizzo, non di quelli, in mancanza dei quali l'obbligo del risarcimento non sorge. È chiaro che, diversamente, attraverso il combinato disposto degli art. 121 9 n. I e 1224, si finirebbe col porre nel nulla il principio dell'art. 2043, tutte le volte che il risarcimento sia dovuto in denaro, e cioè quasi sempre. L'applicazione dell'art. 1219 n. 1 (o dell'art. 1222) alla questione esaminata giustifica soltanto la conclusione che, sulle somme dovute a titolo di risarcimento dei danni prodotti dall'abuso del depositario, decorrono di pieno diritto gli interessi; ma non che il risarcimento, in forma di interessi, sia sempre dovuto, anche in mancanza del danno, ogni qualvolta il deposito consista in denaro.
Tuttavia sembra che sotto l'impero del codice del '42, al riconoscimento dell'obbligo di corrispondere gli interessi, a carico del depositario infedele di somma di denaro, si possa e debba arrivare per altra via. Poiché, infatti, secondo il combinato disposto degli articoli 1782 e 1815, il deposito di denaro con facoltà d'uso per il depositario importa sempre l'obbligo degli interessi a carico di quest'ultimo, non vi è ragione di non adottare analogicamente la stessa conclusione nell'ipotesi di uso arbitrario. Diversamente, infatti, si perverrebbe all'assurdo risultato di concedere al depositario, che abusivamente trae profitto dal denaro depositato, un trattamento più vantaggioso di quello fatto dalla legge a chi lo stesso profitto ricava legittimamente con il consenso del depositante. Se questa conclusione è esatta, si tratta, peraltro, non di interessi moratori con funzione di risarcimento del danno, come ritenuto nella Relazione, ma di interessi compensativi, conseguenti all'uso del denaro altrui.
Soggetti e tempo della restituzione
La restituzione deve avvenire ad opera del depositario, o del suo legale rappresentante: deve tuttavia ritenersi che il depositante non possa rifiutare la restituzione ad opera di un terzo, perché il suo interesse all'adempimento personale, per il carattere fiduciario del contratto, attiene solo alla custodia e non anche alla restituzione, per la quale è indifferente la persona dell'esecutore (art. 1180). Sulla legittimazione attiva alla restituzione, in caso di pluralità di depositari, provvede l'art. 1772; sulla legittimazione passiva, oltre a questo, l'art. 1777. Per il tempo della restituzione, si veda il commento dell'art. 1771.
Mora del depositante
In caso di giustificato rifiuto del depositante a ricevere la restituzione, si applicano le regole generali sulla mora del creditore (art. 1206 segg.).