AUTORE:
Laura Gaspari
ANNO ACCADEMICO: 2022
TIPOLOGIA: Tesi di Laurea Magistrale
ATENEO: Universitą degli Studi di Padova
FACOLTÀ: Giurisprudenza
ABSTRACT
Il punto di partenza della presente indagine è costituito dalla vittima: chi è questo soggetto e quale ruolo essa svolge all’interno del diritto penale.
La valorizzazione di questo soggetto avviene in concomitanza con la nascita della vittimologia, la nuova branca della criminologia che studia non solo le caratteristiche intrinseche ed estrinseche della vittima, ma anche - e soprattutto - la sua incidenza nella criminogenesi e nella criminodinamica, dunque nel suo rapporto con l’autore del reato.
Questa nuova scienza criminologica nasce e si sviluppa a partire dalla fine degli anni quaranta del secolo scorso e dà inizio a quella che viene definita come “riscoperta della vittima”. Trattasi, infatti, di un processo che ha messo fine alla totale marginalizzazione e indifferenza della vittima, valorizzandone in contemporanea il ruolo.
Si inizia a studiare il reato in una prospettiva di interazione, uno scontro tra due soggetti, reo e vittima. I protagonisti indiscussi dell’azione delittuosa non sono più il reo e lo Stato, ma si attribuisce rilevanza anche al soggetto passivo, attraverso un modello c.d. vittimocentrico, ove scopo principale è quello di garantire una piena ed effettiva tutela dei diritti della vittima del reato.
La vittima accresce, dunque, il suo ruolo all’interno del diritto penale e della politica criminale, tanto che quest’ultima si evolve considerando la vittima del reato in una duplice prospettiva. Da un lato troviamo, attraverso forti istanze di tutela, in particolare per le vittime c.d. vulnerabili, delle riforme "vittimologicamente orientate", che creano una legislazione victim-centered: il diritto penale assurge a "Magna Charta" della vittima e il suo effetto intimidatorio viene impiegato in ragione di esigenze preventivo-repressive, attraverso l’anticipazione dell’intervento penale.
Le più recenti norme incriminatrici sono volte a prevenire e reprimere nuovi comportamenti e particolari fenomeni di vittimizzazione attraverso la minaccia dello ius terribile, ossia il diritto penale, sacrificando i principi cardine dello stesso (quali quello di necessaria offensività e materialità), in particolare minacciando l’aumento delle pene e la creazione di nuove fattispecie sulla base del dato empirico.
Si passa così da una concezione del reato come lesione di un bene giuridico ad una vieppiù marcata personalizzazione del diritto penale, portando così alla violazione del principio cardine di extrema ratio.
Parallelamente a queste riforme vittimologicamente orientate si sono riscontrati tentativi, all’interno del contesto giuridico penale, di attribuire maggior rilevanza al soggetto passivo nella dinamica dell’azione delittuosa, questo in particolare dalla c.d. vittimodogmatica.
La dottrina, tra cui il Fiandaca, ha altresì cercato di ritenere esistente un principio di autoresponsabilità dell’offeso, in caso di sua auto cosciente esposizione al pericolo. Alla sua affermazione però si pone come ostacolo il generale approccio giuridico culturale, definito paternalistico, volto alla tutela incondizionata della vittima (anche quando questa dimostri totale disinteresse per il bene giuridico tutelato) comunque incompatibile con l’impianto costituzionale e con la stessa funzione della pena, che da rieducativa e risocializzante diviene intimidativa-deterrente.
Ciò che emerge chiaramente è la necessità di ristabilire il principio di extrema ratio del diritto penale, contenendone l’intervento a favore di politiche a carattere extrapenale per prevenire, in particolare, quella che viene chiamata vittimizzazione, ossia quella particolare condizione di vulnerabilità e debolezza che deriva dalla commissione di un reato e si estrinseca in conseguenze direttamente derivanti dal fatto criminoso ovvero in effetti solo indirettamente legati all’illecito penale e discendenti dal rapporto tra la vittima e l’apparato giustizia.
Proprio in questi effetti negativi si concretizza la c.d. "vittimizzazione secondaria" ossia tutte le conseguenze negative, dal punto di vista emotivo e relazionale, che possono derivare alla vittima comportandole una condizione di ulteriore sofferenza e oltraggio, sperimentata dalla stessa in relazione ad un atteggiamento di insufficiente attenzione o negligenza da parte delle c.d. agenzie di controllo formale nella fase del loro intervento, e si manifesta nelle ulteriori conseguenze psicologiche negative.
Vi sarebbe una lacunosa pianificazione degli interventi di supporto e un'incapacità di ascolto da parte del sistema giudiziario, che si accompagnano a forme di colpevolizzazione e rimprovero della vittima. Questo fenomeno, riconducibile all’espressione inglese di victim blaming, è connaturato a livello sociale e - con lo stesso - si tende a biasimare le vittime, spostando l’enfasi dall’aggressore alla vittima, alterando l’assetto di responsabilità ma soprattutto, attraverso l’impiego di un linguaggio estremamente pregiudizievole, creando un bias cognitivo per cui si crede che colui che ha subito un danno "se la sia cercata".
La valorizzazione di questo soggetto avviene in concomitanza con la nascita della vittimologia, la nuova branca della criminologia che studia non solo le caratteristiche intrinseche ed estrinseche della vittima, ma anche - e soprattutto - la sua incidenza nella criminogenesi e nella criminodinamica, dunque nel suo rapporto con l’autore del reato.
Questa nuova scienza criminologica nasce e si sviluppa a partire dalla fine degli anni quaranta del secolo scorso e dà inizio a quella che viene definita come “riscoperta della vittima”. Trattasi, infatti, di un processo che ha messo fine alla totale marginalizzazione e indifferenza della vittima, valorizzandone in contemporanea il ruolo.
Si inizia a studiare il reato in una prospettiva di interazione, uno scontro tra due soggetti, reo e vittima. I protagonisti indiscussi dell’azione delittuosa non sono più il reo e lo Stato, ma si attribuisce rilevanza anche al soggetto passivo, attraverso un modello c.d. vittimocentrico, ove scopo principale è quello di garantire una piena ed effettiva tutela dei diritti della vittima del reato.
La vittima accresce, dunque, il suo ruolo all’interno del diritto penale e della politica criminale, tanto che quest’ultima si evolve considerando la vittima del reato in una duplice prospettiva. Da un lato troviamo, attraverso forti istanze di tutela, in particolare per le vittime c.d. vulnerabili, delle riforme "vittimologicamente orientate", che creano una legislazione victim-centered: il diritto penale assurge a "Magna Charta" della vittima e il suo effetto intimidatorio viene impiegato in ragione di esigenze preventivo-repressive, attraverso l’anticipazione dell’intervento penale.
Le più recenti norme incriminatrici sono volte a prevenire e reprimere nuovi comportamenti e particolari fenomeni di vittimizzazione attraverso la minaccia dello ius terribile, ossia il diritto penale, sacrificando i principi cardine dello stesso (quali quello di necessaria offensività e materialità), in particolare minacciando l’aumento delle pene e la creazione di nuove fattispecie sulla base del dato empirico.
Si passa così da una concezione del reato come lesione di un bene giuridico ad una vieppiù marcata personalizzazione del diritto penale, portando così alla violazione del principio cardine di extrema ratio.
Parallelamente a queste riforme vittimologicamente orientate si sono riscontrati tentativi, all’interno del contesto giuridico penale, di attribuire maggior rilevanza al soggetto passivo nella dinamica dell’azione delittuosa, questo in particolare dalla c.d. vittimodogmatica.
La dottrina, tra cui il Fiandaca, ha altresì cercato di ritenere esistente un principio di autoresponsabilità dell’offeso, in caso di sua auto cosciente esposizione al pericolo. Alla sua affermazione però si pone come ostacolo il generale approccio giuridico culturale, definito paternalistico, volto alla tutela incondizionata della vittima (anche quando questa dimostri totale disinteresse per il bene giuridico tutelato) comunque incompatibile con l’impianto costituzionale e con la stessa funzione della pena, che da rieducativa e risocializzante diviene intimidativa-deterrente.
Ciò che emerge chiaramente è la necessità di ristabilire il principio di extrema ratio del diritto penale, contenendone l’intervento a favore di politiche a carattere extrapenale per prevenire, in particolare, quella che viene chiamata vittimizzazione, ossia quella particolare condizione di vulnerabilità e debolezza che deriva dalla commissione di un reato e si estrinseca in conseguenze direttamente derivanti dal fatto criminoso ovvero in effetti solo indirettamente legati all’illecito penale e discendenti dal rapporto tra la vittima e l’apparato giustizia.
Proprio in questi effetti negativi si concretizza la c.d. "vittimizzazione secondaria" ossia tutte le conseguenze negative, dal punto di vista emotivo e relazionale, che possono derivare alla vittima comportandole una condizione di ulteriore sofferenza e oltraggio, sperimentata dalla stessa in relazione ad un atteggiamento di insufficiente attenzione o negligenza da parte delle c.d. agenzie di controllo formale nella fase del loro intervento, e si manifesta nelle ulteriori conseguenze psicologiche negative.
Vi sarebbe una lacunosa pianificazione degli interventi di supporto e un'incapacità di ascolto da parte del sistema giudiziario, che si accompagnano a forme di colpevolizzazione e rimprovero della vittima. Questo fenomeno, riconducibile all’espressione inglese di victim blaming, è connaturato a livello sociale e - con lo stesso - si tende a biasimare le vittime, spostando l’enfasi dall’aggressore alla vittima, alterando l’assetto di responsabilità ma soprattutto, attraverso l’impiego di un linguaggio estremamente pregiudizievole, creando un bias cognitivo per cui si crede che colui che ha subito un danno "se la sia cercata".