La donazione può essere sottoposta a condizione sospensiva o risolutiva: requisiti negativi per entrambe sono: a) che l’evento futuro ed incerto non dipenda dalla mera potestà del donante, nel qual caso la donazione è nulla per essere rimessa all’esclusivo arbitrio dell'obbligato; b) che la modalità accessoria sia contestuale alla formazione dell’atto.
A condizione può dedursi qualunque evento futuro ed incerto; valgono in questa materia le comuni regole che disciplinano l'opponibilità di tale elemento accessorio.
In questa sede si vuole fare particolare cenno di due specie di clausole.
La prima è la condizione della premorienza del donante al donatario; taluno ha dubitato della sua efficacia, ma senza fondamento, poiché per essa non si ha una disposizione mortis causa vietata in quanto non contenuta in un testamento: nel caso ipotizzato si verifica solo un differimento nell’esecuzione della donazione, per cui al donante non spetta, come nella donatio mortis causa, una facultas poenitendi.
La seconda è la condizione potestativa negativa da parte del donatario (condizione di non dare o di non fare), legittimamente apponibile anche alla donazione: in tal caso, la possibilità per il donatario di venire in possesso dei beni donati è dal codice rimessa alla volontà delle parti, non essendo stata mantenuta la disposizione - corrispondente all’art. #855# del vecchio codice del 1865 (cautio muciana) - proposta dal Progetto preliminare, in quanto si è ritenuto che essa ponesse delle presunzioni opportune solo per il testamento, che è atto mortis causa.
Anche ai principi generali deve farsi ricorso per la regolamentazione del negozio di liberalità sottoposto a condizione; qui va solo rilevato che, se l’evento dedotto a condizione (sospensiva) si verifica dopo la morte del donatario, il diritto a conseguire la donazione si trasmette ai suoi eredi, non essendovi motivo alcuno per distaccare la disciplina della donazione da quella dei contratti.
Oltre che sospensiva, la condizione che inerisce ad una donazione può anche essere risolutiva. Né la sua apponibilità contrasta col carattere di irrevocabilità della donazione, poiché, verificandosi l’evento previsto dalle parti, per l’efficacia retroattiva di esso, la donazione si considera come mai sorta; quindi, pur passando subito al donatario la proprietà dei beni donati, in quanto il negozio produce tutti gli effetti suoi propri, si ha che il perdurare dell’efficacia di questi è subordinata al verificarsi o meno dell’evento dedotto. Da questo angolo visuale le due condizioni, sospensiva e risolutiva, non differiscono tra di loro, in quanto se la prima sospende l’efficacia del negozio, la seconda ne sospende la risoluzione. Per capire, poi, quando si tratti di condizione sospensiva o risolutiva, il sistema migliore sembra, quello di risolvere il dubbio secondo le regole proprie dell’interpretazione della volontà nei contratti.
Uno dei più tipici casi di condizione risolutiva è quello del patto di riversibilità, che si ha quando, ad esempio, Tizio dona dei beni a Mevio, apponendo però al negozio il patto che se questi gli premorrà, i beni dovranno ritornare a lui donante; oppure quando Tizio dona a Mevio col patto che se questi ed i suoi discendenti gli premorranno, i beni dovranno ritornare a lui donante. L’evento dedotto in condizione è la premorienza al donante del donatario solo o insieme con i suoi discendenti.
È noto che le origini storiche di tale patto vanno ricercate nel diritto romano in cui era ammessa la riversibilità legale per la dote profecticia, per la dote, cioè, costituita dal padre, anche se nessun patto fosse stato inserito nella costituzione di dote. La riversibilità fu accolta anche dal diritto francese, che accanto alla convenzionale riconobbe anche quella legale: il nostro vecchio codice del 1865 dichiarò efficace solo la prima. La riversibilità mira a soddisfare un’esigenza naturale del donante: quella di preferire sé stesso agli eredi del donatario; è, quindi, una clausola che pone in speciale risalto il carattere della donazione; di liberalità, cioè, che vien fatta intuitu personae; il donante intende favorire il donatario e non altri e non vuole che la donazione vada, essendo lui vivente, a beneficio di altri.
Quali sono i casi in cui può ammettersi la riversibilità dei beni donati? L’art. #1071# del vecchio codice del 1865 ne considerava soltanto due e cioè: 1) premorienza al donante del solo donatario; 2) premorienza al donante del donatario e dei suoi discendenti. A questi due casi la dottrina ne ha aggiunto un altro: 3) premorienza al donante del donatario senza discendenti.
Ciascuno di tali casi va tenuto nettamente distinto: il primo è il più favorevole al donante: basta che premuoia il donatario, che i beni ritornano a lui donante, anche se il donatario lasci superstiti figli o discendenti; il secondo è meno favorevole al donante in quanto, perché questi possa riprendersi i beni donati, occorre che gli premuoiano sia il donatario sia i suoi discendenti; il terzo, infine, è ancor meno favorevole al donante: non basta che al donante premuoia il donatario, ma occorre che, se questi ha figli, essi premuoiano al donatario, con la conseguenza che, se costui muoia lasciando figli, anche se essi premuoiano al donante, la riversione non si verifica.
Il Progetto preliminare del codice li indicava tutti e tre, ma in quello definitivo l’ultimo caso non è stato più espressamente previsto, perché - si legge nella relazione - esso è compreso nell’ipotesi generica di premorienza del donatario.
Ma, ciò ritenendo, il Progetto definitivo è incorso nell'errore di aver creduto che al donatario premorto al donante non siano superstiti dei discendenti, il che non risponde alla realtà. Si potrebbe osservare, a favore della spiegazione data dalla relazione ministeriale, che l’aggettivo “solo” aggiunto a “donatario” stia ad indicare unicamente l’irrilevanza che al donatario siano o non superstiti dei figli e che quando nella clausola di riversibilità si ometta l’aggettivo “solo” si sia inteso comprendere l’ipotesi che il donatario sia morto senza figli, e ciò perché in tal caso si dovrebbe presumere nel donante l’intenzione di voler beneficiare non soltanto il donatario ma anche i suoi discendenti.
Una siffatta osservazione, però, non può reggere, perché: a) la legge non autorizza l’uso con quel diverso significato delle espressioni “solo donatario” e “donatario”; b) è erroneo sostenere che, ove sia stato adoperato il termine “donatario” senza l’aggiunta del “solo”, la premorienza di costui faccia passare i beni donati ai suoi eredi, perché un tale passaggio contrasta con la volontà del donante diretta a beneficiare esclusivamente il donatario come si rileva dalla clausola di riversibilità; c) il termine “solo” si contrappone non all’altra ipotesi della premorienza senza figli, ma a quella prevista dal codice della premorienza del donatario e dei suoi discendenti; d) comunque, poiché la legge ha adoperato l’espressione “solo donatario”, resta fermo che in essa, quantunque intesa in uno dei sensi innanzi ipotizzati, non può farsi rientrare il caso “si sine liberis praedecesserit”; e) infine, anche l’art. #1071# del vecchio codice del 1865 adoperava l’aggettivo “solo” e, ciò nonostante, la dottrina prima e il progetto preliminare poi, hanno ritenuto necessario ai casi previsti aggiungere anche quello in questione. Comunque, poiché dalla relazione si desume che oltre ai due casi si è inteso prevedere anche il terzo, non vi è dubbio sulla validità di esso quale condizione di riversibilità.
È molto frequente nella pratica che il disponente apponga il patto di riversibilità “secondo legge” o la generica indicazione “con riversibilità”; in tal caso quale dei due sopra indicati deve essere considerato?
Il nuovo codice risolve l’interrogativo che la dottrina, nel silenzio dell’art. #1071# del codice precedente, si era proposto, disponendo che in tale ipotesi deve considerarsi la premorienza non solo del donatario, ma anche dei suoi discendenti. Questa soluzione legislativa deroga al precetto dettato dall’art. #1137# di quel codice: che, cioè, nel dubbio, il contratto si interpreta contro colui che ha stipulato ed in favore di quello che ha contratto l’obbligazione (interpretatio contra stipulatorem): il favor debitoris non risulta nella norma in esame applicato.
Sotto la vigenza del vecchio codice del 1865, si è disputato, in dottrina, chi dovesse ritenersi discendente; l’articolo in esame non lo precisa; la questione è così riproponibile; ora, nessun dubbio che i figli legittimi e legittimati siano compresi fra i discendenti: ma vi figureranno anche i figli adottivi e quelli naturali? Riteniamo che qui si tratti di una “quaestio voluntatis”; comunque, deve pensarsi che, essendo i figli naturali ed adottivi viventi al momento della donazione e conoscendo il disponente la loro esistenza, abbia voluto condizionata la riversibilità anche alla loro premorienza: deve cioè presumersi che, se egli avesse avuto nei loro riguardi un’intenzione più restrittiva, l'avrebbe espressa. Se i figli naturali ed adottivi non esistevano, invece, al momento della donazione, o, esistendo, non ne era conosciuta l’esistenza dal donante, allora, se proprio nessun sussidio dalle circostanze venga offerto, si deve pensare alla loro esclusione, in quanto non rientra nella normale previsione del disponente (che è quella da tener presente) il pensare a figli adottivi e naturali. Non può esservi dubbio, in ogni caso, circa l’esclusione degli affiliati.
La riversibilità non può essere prevista che a favore del solo donante; se il patto relativo fosse diretto a vantaggio di un terzo, ancorché discendente del donante, esso si considera come non apposto. La donazione, però, resta valida; la legge in tal modo intende agevolare solamente e direttamente il donante.
Come si possa poi spiegare questa limitazione dell’efficacia soggettiva di una modalità che è, in sostanza, un tipico caso di condizione risolutiva, ha costituito per la dottrina oggetto di dispute che qui non è il caso di esporre: diciamo solo che, a nostro giudizio, quella limitazione si spiega considerando che ove la riversibilità fosse prevista anche a favore di terzi, si snaturerebbe l’essenza della donazione; infatti, lo stipulare la riversione dei beni a favore di una terza persona che non sia quella dello stesso donante, importerebbe una seconda donazione degli stessi beni che già formano oggetto di liberalità a favore del primo donatario; ciò rende inammissibile un nuovo atto di liberalità per cose già uscite definitivamente dal patrimonio del donante e sulle quali quest’ultimo non aveva fatto alcuna riserva a proprio favore.
Dal patto di riversibilità, che sostanzialmente implica una condizione risolutiva, si determinano gli stessi effetti di essa. Così, prima dell’adempimento dell’evento, si ha uno stato di pendenza, durante il quale il donatario ha sulle cose donate i diritti di un vero proprietario; può, cioè, alienarle, ipotecarle, costituire diritti reali su di esse; né il donante potrebbe opporsi all’esercizio di tale diritto. Verificatosi il fatto dedotto in condizione, il suo diritto di proprietà viene a risolversi ipso iure, e con effetto dal giorno della morte della persona la cui premorienza dà luogo alla riversione.
Questa, quindi, ha l’effetto di sciogliere tutti i diritti reali che il donatario avesse costituito, tutte le alienazioni fatte medio tempore. Tuttavia, poiché l’effetto retroattivo della condizione è pur sempre una finzione, esso va applicato con opportune limitazioni, sì da non negare senz’altro efficacia a tutti gli atti compiuti dal donatario; ad esempio, se questi, pendente conditione, ha convenuto una locazione non eccedente i nove anni del fondo donato, il contratto conserva la sua efficacia. Parimenti gli eredi del donatario non saranno tenuti a restituire i frutti da lui acquistati durante il periodo anteriore al verificarsi della condizione.
Oltre queste deroghe all’efficacia retroattiva della riversibilità, un’altra è prevista espressamente dal legislatore nel primo comma dell’art. 792 e riflette l’ipoteca iscritta a garanzia di convenzioni matrimoniali, che restano salve quando gli altri beni del coniuge donatario non sono sufficienti e nel caso soltanto in cui la donazione è stata fatta con lo stesso contratto di matrimonio dal quale l’ipoteca risulta.
La ragione per cui le convenzioni matrimoniali continuano ad essere garantite dall’ipoteca iscritta su beni oggetti di riversione è fondata su quella che è la presunta volontà del donante. La legge ha previsto, secundum quod plerumque accidit, che il donante sia lo stesso genitore, il quale, nell’atto di matrimonio del figlio, a costui faccia una donazione; e presume che il donante abbia voluto favorire l’interesse del matrimonio e, a questo scopo, abbia voluto consentire che l’ipoteca costituita per le convenzioni matrimoniali rimanga valida nonostante il patto di riversibilità. È intuitivo che la presunzione è destinata a venir meno di fronte ad una esplicita volontà contraria del donante contenuta nell’atto di donazione.
Nell’ultimo capoverso l’art. 792 risolve una delle questioni più dibattute in tema di patto di riversione. In passato avveniva spesso che, pattuitasi la riversibilità di una donazione fatta in contemplazione di matrimonio ed a titolo di dote (quasi sempre sono i genitori che stipulano a loro favore tale riversibilità perché in caso di premorienza della propria figlia al marito, i beni ritornino ad essi) si fosse convenuto nello stesso atto che, facendosi luogo alla riversione, erano riservati al coniuge superstite sui beni stessi i diritti successori come per legge un diritto di usufrutto.
La dottrina e la giurisprudenza si erano poste l’interrogativo circa la validità di una tale clausola, spesso, però, dichiarata nulla. Ma il codice attuale la dichiara consentita, e giustamente, perché essa non costituisce un patto di futura successione, né una disposizione fedecommissaria vietata, né un patto di riversibilità a vantaggio di persone diverse dal donante, in quanto si tratta di un patto che deve valere per il tempo in cui il donante riprende la piena disponibilità dei suoi beni. In altri termini, nella clausola in esame si deve vedere un limite convenzionale al patto di riversibilità, patto che, operando ex tunc, verrebbe ad escludere ogni diritto successorio a favore del coniuge superstite. Tale limite costituisce dunque una riserva tanto più lecita in quanto è la legge stessa che, nel medesimo art. 792 primo comma, prevede un caso di limitazione legale alla riversione.
Di conseguenza, il coniuge superstite del donatario ha diritto di computare nell’asse ereditario i beni donati al fine di calcolare la sua quota di riserva e se la quota che egli venga a conseguire sulla successione del donatario, in base a legge o testamento, sia inferiore a quella di riserva, ha diritto a prelevare la differenza sui beni donati.
Il codice non precisa in quanto tempo si prescriva l’azione da parte del donante diretta a far valere il patto riversivo. Nel silenzio della legge, sembra doversi ritenere applicabile la prescrizione ordinaria, la quale inizierà il suo decorso dal giorno della morte del donatario o dei suoi discendenti, secondo i casi innanzi ipotizzati.