Negli articoli
693,
695 e 695, che si ritiene opportuno commentare insieme per la coordinata unità della materia, il legislatore si è preoccupato di delineare quanto più chiaramente possibile, nel contenuto, nell’esercizio e negli effetti di fronte ai terzi, la posizione giuridica dell’istituito. Trattandosi di una regolamentazione attraverso la quale l’istituto, collocandosi su basi più razionali, deve essere teso a perseguire i fini etici e di utilità sociale che ne giustificano la riammissione nell’ordinamento positivo, tale dettagliata enunciazione sembra assai opportuna.
Vivo era stato il contrasto, già presso la Commissione Reale, per la ricerca dello schema teorico sul quale plasmare, con criteri di analogia, questa particolare configurazione.
La condizione più affine - per contenuto di facoltà e per la contrapposizione già prestabilita della posizione dell’investito a quella di un altro titolare designato alla ricezione del cespite alla scadenza - era quella dell’usufruttuario. Tuttavia, affinità non poteva portare ad identità, data la maggior autonomia che razionalmente si sarebbe dovuta attribuire alla figura dell’istituito, per riabilitarne modernamente la posizione anche nell’interesse dell’economia generale, e tenuto conto che l’usufrutto, come regolato nel vecchio codice del 1865, si presentava come un istituto inerte, ostativo di ogni utile iniziativa di rinnovazione, pregiudizievole quindi, oggettivamente, agli interessi della produzione. Si era proposto, d’altra parte, anche il sistema di una proprietà limitata e risolubile, compatibile con l’obbligo della restituzione; oppure quello di un'assimilazione alla posizione dell’utilista nell’enfiteusi (sistema austriaco), abilitato anche all’alienazione dei beni ereditari, mobili od immobili, in caso di necessità o di utilità evidente, senza bisogno di autorizzazione giudiziaria; oppure ancora della posizione dell’erede che abbia accettato con beneficio di inventario, o del marito sui beni dotali.
Peraltro, già il progetto della Commissione Reale e, successivamente, il progetto definitivo, la Commissione parlamentare ed infine il testo del Codice, fra tante indicazioni tutte approssimative ed inadeguate, hanno preferito in sostanza attenersi ad un sistema eclettico, configurando quella dell’istituito come una posizione sui generis, simile a quella dell’usufruttuario, ma ampliata e rinvigorita sotto molteplici aspetti, in modo da renderla più adatta alle sue funzioni sociali.
Sta così, nell’art.
693, come regola generale, di sfondo, quella che
all’istituito sono comuni, in quanto applicabili, le norme concernenti la posizione dell’usufruttuario: onde l’obbligo di procedere all’
inventario e di dar
cauzione; quello di provvedere a proprie spese alle
riparazioni ordinarie ed alle straordinarie cagionate dalla trascuranza delle ordinarie; quello di
sopportare i carichi tributari e gli altri oneri gravanti sul reddito o sui frutti.
La diligenza a prestarsi nell’amministrazione e nella conservazione dei beni è quella normale, del buon padre di famiglia.
Peraltro il codice si affretta a precisare che, unitamente al pieno godimento, anche tutta l’amministrazione del cespite deve essere attribuita con sostanziale libertà di azione all’istituito, nel quale si concentra anche la rappresentanza giudiziale della successione, non solo per quanto riguarda l’esercizio ordinario produttivo ed il possesso, ma anche per la proprietà, senza bisogno della chiamata del sostituito (o di una sua speciale rappresentanza) in giudizio. Bisogna ritenersi che, se non l’onere patrimoniale, incomba il dovere sull’istituito di provvedere di sua iniziativa anche alle riparazioni straordinarie, nonché al pagamento dei tributi e dei pesi posti a carico della proprietà, ed in genere a tutte le incombenze che, in un regime di sana amministrazione, farebbero carico al proprietario pieno.
D’altra parte, la libertà di amministrazione è stata estesa, con opportuno criterio, anche alla possibilità di compiere innovazioni destinate ad una migliore utilizzazione dei beni.
L’art.
695 porta un'innovazione, nel senso di consentire all’istituito, nei casi di utilità evidente, anche l’
alienazione dei beni verso un più produttivo, idoneo reimpiego, nonché di consentire, con le necessarie cautele, la
costituzione di ipoteche sui beni fedecommissari a garanzia di crediti destinati a miglioramenti e trasformazioni fondiarie. Con tali previsioni si è voluto evitare il pericolo economico della sottrazione di importanti aliquote di beni alle leggi naturali della circolazione, per cui possano pervenire attraverso oculati scambi nelle mani di chi si presenti più idoneo al loro potenziamento produttivo. Parimenti, si sono voluti estendere anche ai beni fedecommissari i benefici del finanziamento creditizio, linfa incrementatrice indispensabile per l’impianto ed il razionale sviluppo di qualsivoglia complessa impresa di produzione e di lavoro. Sarebbe, d’altronde, non equo costringere l’istituito a far fronte a queste spese con soli mezzi propri, posto che esse non profitteranno solamente al primo investito, ma più durevolmente, in senso oggettivo, alla valorizzazione ed all’incremento dei beni, a vantaggio anche della futura generazione.
A prescindere dai crediti ipotecari fondiari di trasformazione e di miglioramento (i quali, siccome profittanti oggettivamente agli immobili, è giusto possano realizzarsi direttamente sul cespite in caso di mancata esazione alla scadenza), l’art. 695 precisa invece come regola generale che i creditori personali dell'istituito non possono agire che sui frutti dei beni formanti oggetto della sostituzione. Si tratta di una disposizione perfettamente ortodossa, in quanto solo il reddito dei beni assegnati, il loro valore di godimento rappresentato dalla periodicità dei frutti, costituiscono beni veri e propri del debitore, assoggettati alla garanzia comune dei creditori, giusta la norma generale di cui all’art. #1949# del vecchio codice del 1865; mentre la proprietà dovrà essere devoluta nella sua integrità ai sostituiti nei quali verrà a concentrarsi in definitiva la successione. D’altra parte, la buona fede dei terzi resta sufficientemente tutelata dalla trascrizione del testamento.