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Articolo 603 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 26/11/2024]

Testamento pubblico

Dispositivo dell'art. 603 Codice Civile

(1)Il testamento pubblico è ricevuto dal notaio in presenza di due testimoni [597 c.c.].

Il testatore, in presenza dei testimoni, dichiara al notaio la sua volontà(2), la quale è ridotta in iscritto a cura del notaio stesso(3). Questi dà lettura del testamento al testatore in presenza dei testimoni(4). Di ciascuna di tali formalità è fatta menzione nel testamento(5) [606 c.c.].

Il testamento deve indicare il luogo(6), la data(7) del ricevimento e l'ora della sottoscrizione, ed essere sottoscritto dal testatore, dai testimoni e dal notaio(8). Se il testatore non può sottoscrivere, o può farlo solo con grave difficoltà, deve dichiararne la causa, e il notaio deve menzionare questa dichiarazione prima della lettura dell'atto(9) [606, 609 c.c.].

Per il testamento del muto, sordo o sordomuto(10) si osservano le norme stabilite dalla legge notarile per gli atti pubblici di queste persone(11). Qualora il testatore sia incapace anche di leggere, devono intervenire quattro testimoni.

Note

(1) Il testamento pubblico è regolato, oltre che dalle disposizioni del codice civile, anche dalla legge notarile (L. 16 febbraio 1913, n. 89).
(2) Il testatore può avvalersi di uno scritto e il notaio può rivolgere ad esso domande per accertarne l'esatta volontà.
(3) La materiale scrittura può essere eseguita anche da un terzo, sotto la guida del notaio.
(4) Si accerta in questo modo che il testo sia conforme alla volontà espressa dal testatore, in caso contrario si procede con la correzione dell'atto.
(5) La menzione del compimento di tali formalità conferisce al testamento il valore di atto pubblico (v. art. 2700 del c.c.).
(6) Non basta l'indicazione del Comune, serve altresì quella del luogo specifico in cui è avvenuta la redazione del testamento (es. studio notarile, etc...).
(7) Cioè del giorno, del mese e dell'anno in lettere.
(8) Il difetto della redazione per iscritto ad opera del notaio della volontà del testatore o della sottoscrizione dell'uno o dell'altro rende il testamento pubblico nullo (v. art. 606 c. 1 del c.c.). Negli altri casi è annullabile (v. art. 606 c. 2 del c.c.).
(9) Se, in realtà, l'impedimento non esisteva, il testamento pubblico si considera non sottoscritto ed è, di conseguenza, nullo (v. art. 606 c. 1 del c.c.).
(10) A norma della L. 20 febbraio 2006, n. 95, in tutte le disposizioni legislative vigenti, il termine “sordomuto” è stato sostituito con l’espressione “sordo”.
(11) Deve intervenire un interprete (v. art. 597 del c.c.). Spetta al giudice del luogo di apertura della successione (v. art. 456 del c.c.) provvedere alla nomina.

Ratio Legis

La presenza di un notaio assicura che il testamento sia immune da vizi formali che ne compromettano la validità. Al contempo il testamento pubblico presenta lo svantaggio di essere rigoroso da un punto di vista formale, costoso e non assolutamente segreto.

Brocardi

Non digitibus et motis aut per interrogationem

Spiegazione dell'art. 603 Codice Civile

Le formalità richieste per il testamento pubblico sono le seguenti:
a) dichiarazione a voce della volontà del testatore al notaio, in presenza di due testimoni o di quattro se il testatore sia muto, sordo o sordomuto, incapace di leggere;
b) redazione per iscritto a cura del notaio della dichiarazione di volontà espressa dal testatore;
c) lettura dell’atto, da parte del notaio, al testatore in presenza dei testimoni;
d) espressa menzione, nell’atto, dell’adempimento di tutte le formalità prescritte;
e) sottoscrizione del testatore, o menzione del notaio, per cura del quale l’atto è redatto, della dichiarazione che il testatore deve fare della causa che gli impedisce di sottoscrivere;
f) sottoscrizione del notaio e testimoni intervenuti, come pure dell’interprete e dei fidefacienti, eventualmente intervenuti;
g) data dell’atto, indicante in lettere per disteso l’anno, il mese, il giorno, l’ora ed il luogo in cui esso è ricevuto.

Occorre occuparsi di ciascuna di queste formalità.
a) La prima, essenziale formalità del testamento pubblico, è la dichiarazione di volontà del testatore in presenza dei testimoni. Essa deve essere fatta a viva voce. È l’antica nuncupatio del testamentum per aes et libram del diritto romano, la quale consisteva nella designazione della persona dell’erede che il testatore faceva oralmente nell’atto stesso della mancipatio familiae; e non la nuncupatio del testamento pretorio, la quale consisteva nella semplice dichiarazione del testatore ai testimoni di contenersi, in quelle tavole, che egli loro presentava, la sua ultima volontà: “Haec ita, ut in his tabulis cerisque scripta sunt, ita do, ita lego, ita testor, itaque vos, Quirites testimonium mihi perhibetote”. Questa dichiarazione è, piuttosto, quella che oggi corrisponde alla dichiarazione che fa il testatore, nel consegnare al notaio la scheda testamentaria per farne il suo testamento segreto, dicendogli che in quella carta si contiene, appunto, il suo testamento.
Il codice francese ed il napoletano stabilivano che il testatore dettasse le proprie dichiarazioni. Ma l’obbligo della dettatura faceva sorgere molte difficoltà e dava luogo a gravi questioni che il codice parmense, per primo, eliminò, prescrivendo semplicemente che la disposizione fosse dichiarata dal testatore e redatta per iscritto dal pubblico ufficiale. Questa norma, accolta nel codice albertino e nell’estense, fu riprodotta negli art. #777# e #778# del codice civile italiano del 1865.
L’espressione dell’art. #778#: “Il testatore dichiarerà al notaio in presenza dei testimoni la sua volontà”, sostanzialmente riprodotta dall’articolo in esame, non può lasciar luogo a dubbio, che la dichiarazione debba essere fatta a voce e direttamente, non già dietro interrogazione, molto meno per gesti e segni, non dignitibus et motis aut per interrogationem, dicevano gli antichi.

L’applicazione rigorosa di questo principio condusse il legislatore del 1865 a stabilire l’incapacità del sordomuto e del muto a far testamento pubblico (art. #786# cod. civ. 1865). Ma tale incapacità era poco giustificabile nel sistema della nostra legislazione. L’art. 57 della legge notarile, infatti, ammette il muto e il sordomuto a stipulare per atto pubblico, anche con l’intervento dell’interprete che dia spiegazione dei segni e dei gesti da quelli adoperati per esprimere la loro volontà e con l'osservanza delle altre norme ivi stabilite. Di modo che un muto o un sordomuto, che non era inabilitato né di diritto né per sentenza, poteva anche fare una donazione ed intanto non poteva fare testamento pubblico, mentre, in genere, la capacità a donare è più ristretta di quella di testare. La contraddizione fu criticata dal Troplong, ma, de iure condito, non poteva essere eliminata.
Né si poteva argomentare dal citato art. 57 della legge notarile, per concluderne che esso avesse derogato al disposto del codice civile, perché nell’art. 60 della stessa legge è detto esplicitamente che le disposizioni di essa relative alle forme degli atti notarili, sono applicabili ai testamenti solo in quanto completino e non in quanto siano contrarie alle disposizioni contenute nel codice civile, dove è stabilito precisamente che il muto e il sordomuto non possono fare testamento pubblico. Da ciò derivava che il muto ed il sordomuto i quali fossero anche analfabeti erano addirittura incapaci di testare. Essi, infatti, non potevano fare testamento pubblico, perché la legge lo vietava; non potevano fare testamento olografo perché non sapevano scrivere; non potevano fare testamento segreto perché non sapevano leggere. Il nuovo codice ha eliminato questo inconveniente, riportandosi, anche per il testamento, alle norme della legge notarile (artt. 56 e 57) con la sola modificazione di richiedere quattro testimoni se il muto, sordo o sordomuto sia incapace anche di leggere.
Deve notarsi, però, che, coi moderni metodi dell’arte e della scienza, si è giunti al punto da far pronunciare al muto e al sordomuto delle vere e proprie parole, di cui hanno l’intelligenza, benché il sordomuto non ne percepisca il suono. In tal caso, potranno questi soggetti fare testamento pubblico anche senza l’interprete? È da ritenere di sì. Infatti, la legge esige che il testatore dichiari a voce la sua volontà al notaio ed ai testimoni. Ora, se il muto e il sordomuto, con i dovuti soccorsi, arrivino a pronunciare delle parole che rivelino il loro pensiero, ed esse siano chiaramente intese e comprese dal notaio e dai testimoni, il requisito previsto dalla legge è pienamente soddisfatto. Deve dirsi, anzi, che, agli effetti giuridici, quello non è più un muto; potrà soltanto essere anche sordo, ma il semplice sordo può fare testamento a norma dell’art. 603.
L’incapacità del muto e del sordomuto a fare testamento pubblico dipende da quella loro condizione fisica di non poter parlare; superata ed eliminata questa deficienza, essi rientrano nella posizione comune di tutti quelli che possiedono l’uso del linguaggio.
Una questione che può farsi, in ordine al primo requisito essenziale del testamento pubblico, consistente nella dichiarazione di volontà fatta a viva voce dal testatore al notaio ed ai testimoni, riguarda lo straniero. Questi, com'è noto, è ammesso in Italia al godimento dei diritti civili, pur essendo la sua capacità giuridica regolata dalla sua legge nazionale.
Se conosce la lingua italiana non sorge nessuna difficoltà, ma se la ignora? Il codice civile del 1865 non prevedeva nulla al riguardo. La legge notarile, invece, se ne occupa, disponendo, all’art. 54: “Gli atti notarili devono essere scritti in lingua italiana. Quando le parti dichiarino di non conoscere la lingua italiana, l’atto può essere rogato in lingua straniera, sempre che questa sia conosciuta dai testimoni e dal notaio. In tal caso deve porsi di fronte all’originale o in calce al medesimo la traduzione in lingua italiana, e l’uno e l’altra saranno sottoscritti come è stabilito nell’art. 51”. Si ammetteva da tutti che questa disposizione fosse applicabile ai testamenti, perché non vi erano incompatibilità con il codice civile, in quanto non solo questo serbava il silenzio, ma, in fondo, essa non richiede un nuovo, sostanziale elemento che non fosse richiesto dal codice per il testamento del cittadino italiano, cioè, la dichiarazione a voce del testatore delle sue ultime volontà al notaio ed ai testimoni che le intendono, non avendo importanza, com’è chiaro, l’uso di una lingua piuttosto che di un’altra nell’esprimere ed intendere tale volontà.
Il dissenso sorgeva nel caso in cui il notaio e i testimoni non conoscessero la lingua straniera. L’art. 55 della legge notarile, per gli atti notarili in genere, dispone che l’atto può essere ricevuto dal notaio con l’intervento dell’interprete purché almeno uno dei testimoni presenti all’atto conosca la lingua straniera se le parti sanno o possono sottoscrivere, essendo necessario, invece, che tale lingua sia conosciuta da due testimoni se le parti non sanno o non possono sottoscrivere. Era applicabile questa disposizione anche al testamento pubblico? Sembrerebbe di sì. Infatti, il codice del 1865 non prevedeva affatto questa ipotesi; non si trattava, dunque, di una disposizione che sia diversa o contraria a quella della legge notarile, la sola che l’art. 60 l.n. vieta che possa essere applicabile ai testamenti: si trattava, invece, di una disposizione la quale completa le norme dettate dal codice civile in materia di testamento pubblico, e queste sono perfettamente applicabili ad esso, per effetto della stessa disposizione dell’art. 60 l.n. Anzi, giova osservare che, in fondo, la stessa legge notarile prevede ed ammette che il testamento pubblico possa farsi anche con l’intervento dell’interprete. Infatti, nel comma 3 dell’art. 55 è detto che se le parti non sanno o non possono sottoscrivere, due dei testimoni presenti all'atto dovranno conoscere la lingua straniera. La legge, dunque, suppone che si tratti di un atto per il quale possono essere necessari più di due testimoni, e questo, secondo il codice del 1865, non era che il testamento, giacché per l’atto notarile relativo a negozi fra vivi bastano sempre due testimoni.
Inoltre, nel testo originario dell’art. 46 della legge notarile del 1857 si leggeva: “Qualora il notaio non conosca la lingua straniera, l’atto potrà, tuttavia, essere ricevuto con l’intervento di un interprete, che sarà scelto dalle parti contraenti”. Nella legge del 1879 la parola
“contraenti” fu soppressa, precisamente per rendere la norma applicabile anche ai testamenti. E così pure nell’art. 55 della vigente legge notarile si parla semplicemente di parti e non di parti contraenti, mentre con la parola parti la legge intende alludere ai soggetti del negozio, per distinguerli da tutte le altre persone che partecipano alla redazione dell’atto notarile in cui quel negozio è racchiuso, cioè lo stesso notaio, i testimoni, gli interpreti e i fidefacienti. Ogni dubbio, al riguardo, è eliminato nell’attuale codice il quale, implicitamente, ammette l’intervento dell’interprete nel testamento pubblico, quando, all’art. 597, commina la nullità delle disposizioni fatte a favore di lui, e quando, all’art. 603 ult. comma, si riporta alla legge notarile (art. 57) per il testamento del muto, sordo o sordomuto.
Nulla di speciale la legge prescrive riguardo al testamento pubblico del cieco, la condizione del quale non impedisce l’adempimento di alcuna delle ordinarie formalità richieste dalla legge per il testamento pubblico in genere. Nel progetto Pisanelli e in quello del Senato si richiedeva, per il testamento pubblico del cieco, l’intervento di un quinto o di un terzo testimone (quando il testamento era ricevuto da due notai) per prevenire frodi e pericoli di altro genere cui potesse andare incontro un testatore privo della vista, ma giustamente la Commissione di coordinamento considerò illusorio ed inadeguato il rimedio dell’aggiunta di un testimone, e ritenne che fosse meglio sopprimerlo considerando sufficienti, per il testamento pubblico del cieco, le sole e stesse formalità ordinate dalla legge per il testamento pubblico di qualsiasi altra persona non affetta da alcuna infermità. Lo stesso sistema è stato adottato dall'attuale codice.
È già stato detto che la dichiarazione della volontà del testatore deve essere spontanea, non già provocata per interrogazioni del notaio, poiché queste potrebbero generare pericoli di suggestione e non assicurare che quella dichiarata sia la reale ultima volontà del testatore. Ma non bisogna esagerare, ritenendo, cioè, che al notaio sia vietato rivolgere qualsiasi domanda al testatore per meglio comprendere il senso e la portata delle sue dichiarazioni in ordine al valore delle medesime, quando gli sorgesse il dubbio che la parola del testatore andasse oltre il suo pensiero o dicesse meno, avendo, anzi, il dovere di accertarsi, il più possibile, con tutta la lealtà e scrupolosità del suo ufficio, dell'intima e sincera volontà del testatore, per redigerla fedelmente per iscritto e renderla pienamente eseguibile. E nemmeno sarebbe vietato al notaio richiamare l’attenzione del testatore sopra qualche disposizione che egli creda involontariamente dimenticata dal testatore, relativamente ad un’opera pia, a strette persone di famiglia, o persone verso cui il testatore aveva particolare affetto, speciali doveri di riconoscenza, ecc., purché si tratti, s’intende, di rapidi suggerimenti, dati con grande discrezione. Naturalmente, è lasciato al criterio discrezionale dei giudici di merito decidere se le interrogazioni e i suggerimenti dati dal notaio siano stati indifferenti od utili, ovvero abbiano, comunque, potuto menomare la libertà della volontà del testatore. In ogni caso, però, occorre che il testatore dichiari la sua volontà: non basterebbe che si limitasse a rispondere con monosillabi o con segni alle interrogazioni del notaio. Se risultasse menomata la libertà del testatore o mancante la sua dichiarazione, dovrebbe essere nulla la sola disposizione che è stata l’effetto dell’interrogazione: la nullità non potrebbe estendersi alle dichiarazioni che sono state fatte spontaneamente dal testatore.
La dichiarazione di volontà del testatore deve essere fatta al notaio in presenza di testimoni, perché, mentre è il pubblico ufficiale quello che riceve l’atto testamentario e ne risponde della regolarità, i testimoni devono, con la loro assistenza a quella dichiarazione, controllarne la corrispondenza alla redazione per iscritto eseguita dal notaio, corrispondenza che sarà loro manifesta quando questi darà lettura dell’atto da lui steso.
Non servirebbe osservare che il testatore, ascoltando la lettura dell’atto in presenza dei testimoni e nulla trovando da correggere, lo riconosca e lo dichiari conforme alla sua volontà, così che, al momento della sua dichiarazione, non sembrerebbe assolutamente necessaria la presenza dei testimoni. La legge, invero, ha considerato che ad un notaio poco scrupoloso sarebbe più facile usare suggestioni e pressioni sull’animo del testatore quando questi si trovasse solo con lui a manifestargli la propria volontà, mentre se ne asterrebbe in presenza di altre persone. Di più: il notaio potrebbe omettere di trascrivere qualcuna delle disposizioni dichiarategli dal testatore e nella lettura dell'atto queste omissioni potrebbero sfuggirgli, mentre è assai più improbabile che sfuggano ai testimoni, i quali, dopo aver ascoltato quelle disposizioni ordinate dal testatore e non averle poi sentite riprodotte nell’atto di cui si darebbe lettura, potrebbero prevenire o riparare l’opera incompleta, maliziosa o involontaria del notaio.
b) La seconda e più importante formalità del testamento pubblico è la redazione per iscritto, a cura del notaio, della dichiarazione di volontà, fatta dal testatore in presenza di due testimoni.
Redazione per iscritto a cura del notaio è cosa diversa dal dire “redazione per mano del notaio”, potendo, perciò, questi avvalersi, nella materiale stesura dell’atto, dell’opera di un praticante del suo studio, di uno dei testimoni, o dello stesso testatore, se questi lo desidera.
È comune opinione, in dottrina e in giurisprudenza, contrastata dal solo Polacco, che la presenza dei testimoni non sia necessaria all’atto della redazione per iscritto del testamento a cura del notaio. Ciò risulta dallo stesso articolo in esame (#778# del cod. civ. 1865), il quale richiede la presenza dei testimoni relativamente a due sole delle formalità indicate, e cioè, quando “il testatore dichiarerà al notaio in presenza di due testimoni la sua volontà” e quando “il notaio darà lettura del testamento al testatore in presenza dei testimoni”.
Relativamente a questa formalità: “riduzione in iscritto della dichiarazione di volontà a cura del notaio” la legge non dispone che tali operazioni debbano aver luogo in presenza dei testimoni, e nemmeno dello stesso testatore. È chiaro, quindi, che se, nel contesto dello stesso articolo, la presenza dei testimoni è prescritta in due determinati momenti e nell’altro no, in questo terzo momento non è necessaria. E, del resto, se la presenza dei testimoni è indispensabile all’atto della dichiarazione della volontà del testatore e a quello della lettura, per assicurare la spontaneità delle disposizioni e la corrispondenza di quanto fu scritto con quanto fu dichiarato, riesce inutile e superflua quando si tratta di dar forma scritta alle dichiarazioni verbali del testatore. Anzi, si è persino ammesso che il notaio possa preparare anticipatamente l’atto scritto, quando sia stato privatamente edotto dal testatore delle sue ultime volontà, salvo fargliele poi ripetere oralmente alla presenza dei testimoni nel giorno del rogito. Questo pare eccessivo, non solo perché non è lecito invertire l’ordine delle formalità stabilite dalla legge, ma anche perché potrebbe avvenire che il notaio usi pressioni o suggestioni verso il testatore facendogli dichiarare una volontà che non è reale e da cui egli, forse, non saprebbe svincolarsi nel momento in cui ripeta la sua dichiarazione al notaio in presenza dei testimoni, mentre, d’altro canto, è questo, nel testamento pubblico, il momento in cui si forma l’atto testamentario.
c) La terza essenziale formalità del testamento pubblico è la lettura che il notaio dà del testamento al testatore in presenza dei testimoni. Essa è rivolta allo scopo di far accertare al testatore e ai testimoni che il notaio ha fedelmente riprodotto le dichiarazioni fattegli. Tale lettura deve farsi personalmente dal notaio: non gli si può sostituire nessuno, nemmeno lo stesso testatore. La legge notarile, all’art. 51, n. 8, dispone che “il notaro non può commettere ad altri la lettura dell’atto che non sia stato scritto da lui, salvo ciò che dispone il codice civile in ordine ai testamenti”. Il che vuol dire che il notaio può commettere ad altri la lettura dell’atto scritto da lui, ma se quest’atto è un testamento deve egli sempre darne lettura, pure se scritto da lui stesso, perché il codice civile, parlando, appunto, della lettura del testamento da parte del notaio, non distingue se l’atto sia stato scritto da lui stesso o da altri a sua cura.
Secondo il codice del 1865, il testatore doveva leggere direttamente il testamento anche lui, sotto pena di nullità, se era sordo e sapeva e poteva leggere. L’art. #787# cod. civ., infatti, diceva: “Chi è privo interamente dell’udito, volendo fare testamento pubblico, oltre l’osservanza delle altre formalità richieste, deve leggere egli stesso l’atto testamentario, di che sarà fatta menzione nell’atto medesimo. Ove il testatore sia incapace anche di leggere, devono intervenire cinque testimoni. Se il testamento è ricevuto da due notai, bastano tre testimoni”. L’attuale codice, come è già stato detto, si riporta, per il sordo, all’art. 56, e per il muto e sordomuto all’art. 57 della legge notarile.
d) Altra formalità essenziale del testamento pubblico è la menzione che il notaio deve fare, nell’atto testamentario, dell’osservanza delle formalità prescritte. Lo scopo di tale menzione è duplice: assicurare la prova del loro adempimento, così che solo con la querela di falso si potrebbe, dagli interessati, voler dimostrare il contrario; richiamare meglio l’attenzione del pubblico ufficiale sull'adempimento di quelle formalità, in quanto, dovendo egli esplicitamente dichiarare che sono state osservate, se avesse commesso una dimenticanza, questa gli sarebbe messa in luce da quel richiamo.
Il codice del 1865 parlava di “espressa menzione”, così come se fosse possibile anche una menzione tacita e della quale non fosse opportuno tenersi conto. La sola parola “menzione” usata dal nuovo codice, invece, implica e racchiude il concetto di una esplicita, espressa dichiarazione. Quindi, parlare di menzione espressa era un pleonasmo. Tuttavia, questo pleonasmo trovava la sua spiegazione, nel senso che la legge voleva esprimere il concetto che il notaio debba emettere un’esplicita dichiarazione al riguardo, escludendosi che l’osservanza di quella formalità potesse ricavarsi da congetture logiche, desumibili dallo stesso atto testamentario.
Non è necessario che il notaio richiami le formalità, alle quali la menzione si riferisce, con gli stessi termini e locuzioni con le quali si trovano enunciate nella legge, potendo avvalersi di termini equipollenti, purché, però, le parole adoperate dal notaio esprimano lo stesso preciso concetto di quelle adoperate dalla legge. La dottrina e la giurisprudenza sono concordi nell’ammettere la teoria degli equipollenti, sempre che dalle parole usate e dall’intero contesto dell’atto si possa con certezza desumere che si è osservato il precetto della legge.
Facciamo alcuni esempi: il notaio può avvalersi delle parole con le quali l’articolo in esame enuncia le varie formalità, e dire: “Questa è la volontà che il costituito A ha dichiarato a me notaio in presenza dei testimoni; volontà che è stata redatta per iscritto per mia cura, e del testamento ho dato lettura al testatore in presenza dei testimoni”. Ma egli può anche avvalersi di queste altre parole e frasi equipollenti: “Queste sono le disposizioni a me notaio espresse, o manifestate, o comunicate a viva voce dal testatore o dal costituito signor A, assistito dai testimoni, o presenti i testimoni, delle quali disposizioni ho fatto io stesso di mia mano la redazione, o la stesura di questo atto, o ne ho fatto la dettatura al mio praticante che le ha scritte, o ne ho curato la redazione per iscritto, o ne ho diretta, sorvegliata la redazione per iscritto eseguita dal mio praticante; dopo di che ne ho dato lettura, o le ho lette al testatore, presenti i testimoni”, ovvero: “Ho dato lettura del testamento al testatore ed ai testimoni contemporaneamente presenti”. Invece, dovrebbe ritenersi non corrispondente al pensiero della legge una menzione così formulata: “Queste sono le disposizioni del testatore, che da me notaio in presenza dei testimoni si son potute intendere e raccogliere come l’espressione più esatta della sua volontà, ordinata per iscritto a mia cura, e che, fattane lettura pure alla presenza dei testimoni, il testatore ha approvato, trovandole conformi al suo pensiero”. Con un’affermazione di questo tipo sorge il dubbio se il testatore abbia egli stesso dichiarato la sua volontà, come è necessario, o se sia riuscito appena a farne un’intelligibile manifestazione, forse con aiuto di segni e gesti, o con assentimenti del capo o monosillabi alle interrogazioni del notaio. Come pure resta dubbio se con quel “farne lettura” questa sia stata fatta dal notaio, come è necessario, o dallo stesso testatore. Così, del pari, sarebbe insufficiente una menzione in cui si dicesse: “Questa è la volontà del testatore dichiarata a me notaio ed ai testimoni”, non risultando da essa che la dichiarazione sia stata fatta al notaio in presenza dei testimoni, com’è necessario, o separatamente, e così pure se si dicesse: “Ho dato lettura al testatore ed ai testimoni” perché nemmeno da essa risulta che la lettura sia stata fatta contemporaneamente al testatore in presenza dei testimoni. Anche più evidente sarebbe la mancanza di equipollenza dei termini usati dal notaio nel menzionare l’osservanza di una formalità prescritta dalla legge quando il notaio dicesse: “Queste sono le dichiarazioni del testatore a me notaio fatte in presenza dei testimoni, redatte per iscritto per mia cura e che il testatore, avendo bene inteso e compreso tutto, in presenza dei testimoni ha approvato ecc.”. In questa menzione manca addirittura il richiamo della formalità della lettura del testamento, non potendosi ravvisarlo nelle parole “tutto avendo bene inteso e compreso il testatore” perché il testatore avrebbe potuto intendere e comprendere tutto con l’assistere ed ascoltare la lettura che, pure alla presenza dei testimoni, si fosse fatta della sua volontà, e la legge di ciò non si accontenta: esige invece che si dia lettura del testamento e che il notaio dichiari di aver letto il medesimo.
L'equipollenza o meno delle parole usate dal notaio nel far menzione dell’osservanza delle formalità prescritte dalla legge è una questione di diritto, non già di fatto, e, quindi, deducibile in Cassazione. Sarebbe una questione di fatto quando il giudice di merito, alle parole adoperate dal notaio, avesse attribuito il significato di una menzione espressa, ma resta una questione di diritto il decidere sull’indole e sull’estensione che esso abbia avuto del concetto giuridico dell’equipollenza.

La legge non dice in quale parte del testamento debba farsi la menzione dell’osservanza delle formalità prescritte. Certo, non può farsi dopo la sottoscrizione del testatore, dei testimoni e del notaio perché, formando essa stessa parte integrante dell’atto testamentario, e dovendosene dare lettura, deve precedere quelle sottoscrizioni che rappresentano la definitiva approvazione e chiusura dell’atto medesimo. Ma potrebbe farsi all’inizio del testamento? Bisogna distinguere le varie formalità a cui la menzione si riferisce. In quanto alla dichiarazione di volontà del testatore al notaio in presenza dei testimoni, si comprende come essa possa essere menzionata all’inizio del testamento, quando il notaio cominci col dire: “Si è innanzi a me costituito il signor A che, in presenza dei costituiti testimoni, mi ha dichiarato la sua ultima volontà del seguente tenore…” e persino la stessa menzione della redazione per iscritto per cura del notaio potrebbe essere fatta all’inizio del testamento, potendo il notaio dire: “Si è innanzi a me costituito il signor A che, in presenza dei costituiti testimoni, mi ha dichiarato le sue ultime volontà le quali, redatte per iscritto per mia cura, sono del seguente tenore…”. Ma la menzione della lettura dell’atto non può farsi se non dopo la parte dispositiva del testamento, non potendosi affermare di aver letto ciò che non si è ancora scritto.
e) Un’altra formalità essenziale del testamento pubblico è la sottoscrizione del testatore.
Di essa si può fare a meno soltanto eccezionalmente, cioè quando il testatore non sappia o non possa sottoscrivere o possa farlo solo con grave difficoltà, ma si deve indicare la causa specifica per cui la sottoscrizione non avviene. E questa causa deve corrispondere a verità, perché se così non fosse il testamento sarebbe nullo.
Circa il modo col quale il testatore, potendolo, deve sottoscrivere il testamento pubblico, non possono valere le norme relative al testamento olografo. Il testatore non potrebbe sottoscrivere soltanto col cognome, e tanto meno soltanto col nome, o col suo pseudonimo, o col soprannome, o con l’indicazione del grado di parentela o di affinità che lo lega all’istituito. Infatti la legge notarile, all’art. 51, n. 10, prescrive che la sottoscrizione debba consistere nel nome e cognome delle parti: poiché si tratta di una disposizione che completa quella del codice civile, deve avere pieno vigore (art. 60 l.n.).
Dallo stesso art. 51, n. 12 della legge notarile si ricava che la sottoscrizione deve porsi alla fine delle disposizioni; esso, infatti, parla di sottoscrizione finale in concorso di altre sottoscrizioni dette marginali che possono occorrere all’atto pubblico. Del resto, ciò è conforme all’indole e allo scopo della sottoscrizione, che significa approvazione di quanto è contenuto nell’atto.
Come accennato, nel testamento pubblico, eccezionalmente, si può fare a meno della sottoscrizione: cioè quando il testatore non sappia o non possa sottoscrivere o lo possa fare solo con grave difficoltà. In tal caso, però, è necessario che il testatore dichiari al notaio la causa che glielo impedisce e il notaio deve far menzione di tale dichiarazione. Si noti che non basterebbe la sola affermazione del notaio dell’impedimento del testatore a sottoscrivere: occorre che il testatore stesso dichiari espressamente la causa che gli impedisce di sottoscrivere e che di tale dichiarazione sia fatta menzione dal notaio.
Anche qui deve valere la teoria dell’equipollente, nel senso, cioè, che non è prescritta una formula sacramentale per la menzione della dichiarazione del testatore circa la causa che gli impedisce di sottoscrivere il testamento, essendo sufficiente che dal contesto dell’atto risulti che il testatore abbia fatto tale dichiarazione. La giurisprudenza, anche su questo punto, è pacifica.
La dichiarazione del testatore di non poter sottoscrivere deve essere spontanea, perché essa sostituisce la firma. Ciò significa che il notaio non potrà suggerire al testatore di supplire con la dichiarazione d’impotenza al requisito della sottoscrizione, dovendo lasciarlo libero di firmare o dichiarare la causa dell’impedimento, la quale deve essere manifestata da lui stesso spontaneamente, per evitare il dubbio che, per una ragione diversa da quella del fisico impedimento, egli non abbia sottoscritto il testamento. Ma tale spontaneità non viene meno quando il notaio si limiti soltanto ad interpellare il testatore se intende sottoscrivere o se voglia avvalersi della facoltà che gli dà la legge di indicare la causa che gli impedisce di sottoscrivere.
La dichiarazione di non poter sottoscrivere, inoltre, dev’essere fatta dal testatore verbalmente. Ciò risulta dal testo stesso dell’articolo in esame che parla di dichiarazione, e tutte le dichiarazioni del testamento pubblico, come abbiamo visto, devono esser fatte a viva voce. Non basterebbe, quindi, che il testatore, nel momento in cui il notaio gli chiedesse se fosse in grado di sottoscrivere l’atto, rispondesse con un cenno negativo del capo, tanto più che, in siffatto modo, il testatore farebbe intendere soltanto di non essere in grado di sottoscrivere, ma non dichiarerebbe in alcun modo la causa che gli impedirebbe di sottoscrivere.
Una questione molto interessante, a proposito della dichiarazione del testatore, è quella che riflette l’ordine in cui essa deve contenersi in relazione alle altre formalità. L’art. #779# del codice del 1865 prescriveva, a pena di nullità, la menzione della mancata sottoscrizione del testatore, ma non stabiliva pure, a pena di nullità, il posto dell’atto in cui doveva essere inserita, e quella menzione, dovunque collocata, adempiva ugualmente alla sua funzione. Altro è l’ordine logico, ordinario dello svolgimento delle varie operazioni costituenti il testamento pubblico e altro è l’ordine materiale secondo cui esse appaiono e risultano adempiute dall’atto medesimo, e che può essere diverso dal primo.
Un ordine tassativo, inderogabile, di svolgimento e di menzione delle varie formalità costituenti l’atto pubblico non può dipendere che o da un esplicito precetto di legge, il quale mancava su questo punto, o da un principio di ragione che non consente qualsiasi inversione fra i termini di una serie e che neppure è il caso di invocare al proposito.
Ogni dubbio, al riguardo, è stato eliminato dall’attuale codice, il quale dispone che la menzione della dichiarazione del testatore di non poter sottoscrivere dev'essere fatta prima della lettura dell’atto (art. 603, comma 3).

Infine, deve notarsi che l’impossibilità di sottoscrivere non deve essere assoluta, potendo anche dipendere da un impedimento relativo, che ponga il testatore in uno stato di impossibilità di firmare, ad esempio per le sue non buone condizioni fisiche, e non occorre nemmeno che si specifichi particolarmente la causa che gli impedisce la sottoscrizione, bastando che il testatore dica, ad esempio, che non può firmare per lo stato di stanchezza fisica in cui si trova. Al fine di chiarire questo concetto, nell’articolo in esame si è espressamente equiparato all’impossibilità la grave difficoltà di sottoscrivere.
Ripetiamo, però, quanto è stato detto precedentemente: se risultasse non vera la causa indicata, sia pure genericamente, come impedimento a sottoscrivere, il testamento sarebbe nullo perché in quella falsa dichiarazione deve riscontrarsi un vero e proprio rifiuto a sottoscrivere il testamento.
f) Il testamento deve anche essere sottoscritto dai testimoni e dal notaio. La sottoscrizione dei testimoni è la prova materiale del loro effettivo intervento alla ricezione dell’atto e del loro riconoscimento e approvazione dell’esatta corrispondenza tra la dichiarazione di volontà emessa in loro presenza dal testatore e la redazione per iscritto operata e letta dinanzi ad essi dal notaio. La sottoscrizione dei testimoni è inderogabile, non ammettendosi, per essa, alcun equipollente, come per quella del testatore, sia perché il codice civile non ne fa alcun cenno, sia pure perché la legge notarile, in ciò applicabile al testamento, dichiara testimoni non idonei coloro che non sanno o non possono sottoscrivere (art. 50), sotto pena di nullità (art. 58, n. 4).
In questo caso il vecchio codice del 1865 si mostrò più severo del codice francese e dei codici preesistenti in Italia, i quali disponevano che, nei luoghi di campagna, dei quattro testimoni intervenuti fosse sufficiente la sottoscrizione di due soli di essi, quando gli altri due non sapessero o non potessero sottoscrivere. Il Ministro Pisanelli osservò, nella sua relazione al codice del 1865, che “scema la garanzia della loro attestazione quando i testimoni sono illetterati, ma, con la mancanza della sottoscrizione, viene a mancare la prova migliore del fatto stesso del loro intervento e del disimpegno del loro ufficio. Morto, infatti, un testimone che non abbia sottoscritto, che valore conserverebbe, in caso di contestazioni, la sua testimonianza puramente affermata dal notaio? La sottoscrizione, invece, resta come documento permanente del controllo esercitato dal testimone all’opera del notaio, pure dopo la morte di quello”.

La legge notarile parla anche della sottoscrizione dei fidefacienti (art. 51, n. 10). Però, come la mancanza dei fidefacienti, dove pure la loro presenza fosse indicata, non porterebbe alla nullità dell’atto, ma solo ad una pena per il notaio (art. 58, n. 4 ed ultimo comma), così la sottoscrizione dei fidefacienti intervenuti può essere sostituita con l’equipollente della menzione della causa da essi dichiarata di impedimento a sottoscrivere (art. 51, n. 10). Per la legge notarile occorre anche, e sempre, la sottoscrizione dell’interprete, dove questi intervenga (art. 51, n. io e 58, n. 4). Queste disposizioni della legge notarile per gli atti notarili, in genere, sono anche applicabili ai testamenti, come complementari di quelle del codice civile.
Infine, il testamento deve essere sottoscritto dal notaio, la sottoscrizione del quale chiude l’atto da lui ricevuto e conferisce l’autenticità non solo alle parti dispositive di esso, ma anche alla menzione da lui inseritavi ed alla sottoscrizione di tutte le persone che vi sono intervenute nelle qualità sopra accennate: quindi, essa deve necessariamente seguire tutte le altre sottoscrizioni.
Così, è anche applicabile al testamento, come complementare del codice civile, la disposizione della legge notarile la quale richiede “negli atti contenuti in più fogli la sottoscrizione in margine di ciascun foglio, anche col solo cognome delle parti, dell’interprete, dei testimoni e del notaio, eccettuato il foglio contenente le sottoscrizioni finali [...] La firma marginale del notaio nei fogli intermedi non è necessaria se l’atto è stato scritto tutto di sua mano” (art. 51, n.12). La loro mancanza non porta che una pena disciplinare per il notaio (art. 51, n. 12 e 58, n. 4 ed ultimo comma).
Si deve notare che il testamento - e l’atto pubblico, in genere - si può considerare compiuto e perfetto quando si sono osservate in tempo utile le formalità di legge. Se, perciò, il testatore morisse subito dopo aver sottoscritto, ma prima che avessero sottoscritto i testimoni ed il notaio, il testamento sarebbe nullo, perché, morendo il de cuius prima che la sua dichiarazione di volontà rivestisse tutte le forme prescritte dalla legge, tale dichiarazione resterebbe incompleta riguardo al suo valore giuridico e non potrebbe successivamente completarsi per mancanza del soggetto a cui riferirla. Se, invece, morisse un testimone subito dopo aver sottoscritto, ma prima che avessero sottoscritto l’altro testimone ed il notaio, non sarebbe da ritenersi nullo il testamento, cui successivamente apponessero la loro firma gli altri testimoni ed il notaio, perché quel testimone aveva già adempiuto alla sua funzione e, quindi, morendo, non impedisce che l’altro testimone ed il notaio adempiano e completino, alla loro volta, il proprio ufficio.
g) Il codice civile del 1865 non parlava della data del testamento pubblico, come ne parlava per il testamento olografo, mentre ne fa menzione l’attuale codice. Essa deve contenere l’indicazione dell’anno, del mese, del giorno e dell’ora in cui il testamento è ricevuto e sottoscritto, sotto pena di nullità, espressamente comminata dall’art. 58, n. 4 e 5 l.n.

La data del testamento pubblico, a differenza di quello olografo, deve contenere pure l’indicazione del luogo, cioè della casa o ufficio in cui è ricevuto. Qui deve notarsi che la legge notarile richiede l’indicazione del Comune e del luogo in cui l’atto è ricevuto (art. 51, n. 1), con la sanzione che la mancanza dell’indicazione del Comune porta alla nullità dell’atto (art. 58, n. 5), mentre la mancanza dell’indicazione del luogo solo una pena disciplinare per il notaio (art. 58, ultimo comma).
Per i testamenti, l’art. 603 richiede solo l’indicazione del luogo (che comprende implicitamente quella del Comune) con la conseguenza della annullabilità del testamento se manca tale indicazione (art. 152, ult. comma).
Riguardo all’indicazione dell'ora, anche sotto la vigenza del codice del 1865 si disputava se bastasse l’indicazione generica di essa, senza espresso riferimento al momento dell’effettiva sottoscrizione. La giurisprudenza era unanime nel ritenere sufficiente tale indicazione generica, ma sembra che tale massima non fosse esatta. Basti osservare la radicale innovazione che l’attuale legge notarile ha portato al sistema preesistente: infatti, la vecchia legge (T. U. 25 maggio 1879) disponeva che l’atto notarile doveva contenere “l’indicazione in lettere per disteso dell’anno, del mese, del giorno, del comune e della casa in cui l’atto è ricevuto e, per gli atti di ultima volontà, anche dell’ora” (art. 43, comma 2). Nel sistema della legge preesistente, dunque, l’indicazione dell’ora era un elemento integratore della data, e la mancanza di essa non portava nemmeno la nullità del testamento: la nullità era prevista soltanto se il testamento mancasse della data o non contenesse l’indicazione del luogo in cui fu ricevuto.
Nella legge notarile attuale, invece, l’ora non è richiesta come elemento integratore della data, ma come elemento a sé, riferita non al ricevimento del testamento, ma all’atto della sottoscrizione: il n. 11 dell’art. 51 l.n., infatti, esige l’indicazione dell'ora in cui la sottoscrizione dell'atto avviene. E la stessa formula è adoperata dal terzo comma dell’articolo in esame. Alla luce di ciò, è evidente che se il codice riferisce l’indicazione dell’ora all’atto della sottoscrizione, non basta l’indicazione generica, ma occorre che essa sia riferita chiaramente all'atto della sottoscrizione.
Se si ritiene adempiuta la disposizione della legge, sempre quando nel testamento è indicata un’ora anche al principio dell’atto senza alcun riferimento, né espresso né tacito, all’atto della sottoscrizione, in sostanza, l’indicazione dell’ora continua a ritenersi elemento integratore della data, più che elemento a sé stante in rapporto all’atto della sottoscrizione. La volontà della legge è chiara: l’indicazione dell’ora deve riferirsi al momento della sottoscrizione perché è in quel momento che il testamento diventa perfetto e sino a quel momento deve sussistere la capacità del testatore. Per ritenere che basti l’indicazione generica dell’ora occorre forzare la parola della legge.
Certo, sarebbe esagerato il ritenere che l’indicazione dell’ora debba necessariamente contenersi immediatamente dopo la sottoscrizione, come, del resto, sarebbe più corretto, seguendo l’ordine delle forme indicato dall’articolo in esame, o immediatamente prima; si può anche ammettere che l’indicazione dell’ora possa esser fatta in qualunque punto del testamento, ma ciò che è assolutamente necessario è che essa abbia riferimento (espresso o tacito, non importa) univoco e preciso, al fatto della sottoscrizione, ed è, quindi, in aperta contraddizione con la volontà della legge affermare che basti che nel testamento sia indicata un’ora perché questa debba ritenersi quella della sottoscrizione.
Né il codice civile, né la legge notarile esigono, per il testamento pubblico, la c.d. unità di contesto, richiesto invece espressamente, e a pena di nullità, per il testamento segreto (art. 605), come si vedrà. E giustamente, perché le varie operazioni del testamento pubblico possono aver bisogno di un tempo così lungo (ad esempio, un testamento contenente divisioni di beni fra discendenti, trattandosi di un ricco patrimonio composto di vari elementi) da non permettere di adempierle tutte senza soluzione di continuità; occorrendo anche un materiale riposo per le persone che vi intervengono. S’intende che, rimandandosi ad un giorno successivo la continuazione dell'adempimento delle restanti operazioni o formalità del testamento pubblico, si debba, nell’atto, indicare anche la data di questo secondo giorno della sua compilazione, dovendosi indicare l’ora in cui avviene la sottoscrizione; l’ora, naturalmente, del giorno in cui essa cade.
Queste indicate, e non altre, sono le forme essenziali per la validità del testamento pubblico.
La legge sull’ordinamento del notariato stabilisce, per gli atti notarili in genere, e, quindi, anche per il testamento (art. 60), altre formalità all’inadempimento delle quali consegue, però, solo una pena per il notaio che non le ha adempiute (art. 76).

Massime relative all'art. 603 Codice Civile

Cass. civ. n. 2702/2019

In tema di testamento pubblico, lo stato di sanità mentale del testatore, seppure ritenuto e dichiarato dal notaio per la mancanza di segni apparenti di incapacità del testatore medesimo, può essere contestato con ogni mezzo di prova, senza necessità di proporre querela di falso, poiché, ai sensi dell'art. 2700 c.c., l'atto pubblico fa piena prova delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesti essere avvenuti in sua presenza o da lui compiuti, ma nei limiti della sola attività materiale, immediatamente e direttamente richiesta, percepita e constatata dallo stesso pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni.

Cass. civ. n. 1649/2017

Nel testamento pubblico le operazioni attinenti al ricevimento delle disposizioni testamentarie e quelle relative alla confezione della scheda sono idealmente distinte e, pertanto, possono svolgersi al di fuori di un unico contesto temporale; in tal caso, qualora la scheda sia predisposta dal notaio, condizione necessaria e sufficiente di validità del testamento è che egli, prima di dare lettura della scheda stessa, faccia manifestare di nuovo al testatore la sua volontà in presenza dei testi.

Cass. civ. n. 2743/2012

L'obbligo del notaio di menzionare, prima della lettura del testamento pubblico, ai sensi dell'art. 603, terzo comma, c.c. e delle connesse disposizioni della legge 16 febbraio 1913, n. 89, la dichiarazione del testatore che si trovi in grave difficoltà di firmare l'atto, sussiste solamente nell'ipotesi che il testatore non sottoscriva il documento e non già anche nel caso in cui, sia pure con grave difficoltà, egli apponga effettivamente la sua firma. Infatti, la formalità della dichiarazione e della menzione costituisce un equipollente della sottoscrizione mancante, mirante ad attestare che l'impedimento dichiarato, e realmente esistente, è l'unica causa per cui non si sottoscrive e ad evitare che la mancanza di firma possa essere intesa come rifiuto di assumere la paternità del contenuto dell'atto.

Cass. civ. n. 4777/2007

L'efficacia probatoria del testamento pubblico di persona cieca ed assai debole d'udito, redatto non alla presenza di quattro testimoni — come prescritto dall'art. 603 c.c. — e recante l'attestazione del notaio che il testatore, pur essendo cieco, era comunque in grado di udire — seppure con il supporto di apposito apparecchio acustico — può essere rimossa solamente con la proposizione della querela di falso ex art. 2700 c.c.

La produzione in giudizio di un testamento pubblico non è assoggettabile al rispetto della procedura prevista all'art. 61 L. n. 1989 del 1913, concernente le modalità di custodia di tale atto pubblico da parte del notaio rogante, dopo la morte del testatore.

Cass. civ. n. 12437/1998

Le disposizioni di cui agli artt. 2 e 4 della L. n. 18 del 1975 in tema di atti sottoscritti da soggetti non vedenti sono tali da escludere la legittimità dell'affermazione secondo la quale detta condizione fisica sia ex se sufficiente a giustificare la mancata apposizione della propria firma su di un atto da parte del cieco, considerando, viceversa, il nostro ordinamento tali soggetti come persone dotate, in linea di principio, della capacità di firmare tutti gli atti documentali che li riguardino. Ne consegue che un testamento pubblico non sottoscritto dal non vedente non può essere dichiarato valido sull'erroneo presupposto dell'idoneità a costituire utile succedaneo alla sottoscrizione (ai sensi del disposto di cui all'art. 603, primo comma c.c.) la mera dichiarazione resa dal testatore al notaio rogante (e da questi trasfusa nell'atto) di essere impossibilitato a sottoscrivere perché cieco, nella mancanza di qualsiasi verifica in ordine alla concreta correlabilità a tale status di un'effettiva e non ovviabile incapacità a vergare la propria firma e, quindi, di ogni accertamento sulla effettiva veridicità e valenza di tale professione di incapacità a sottoscrivere che, viceversa, va, in concreto, riscontrata ed accertata.

Cass. civ. n. 9674/1996

Nel testamento pubblico quando il notaio fa menzione di una dichiarazione del testatore riguardante una causa impeditiva della sottoscrizione dell'atto (la quale può essere costituita da qualsiasi impedimento fisico anche temporaneo e quindi anche da una difficoltà di grafia derivante dall'estrema debolezza in cui il testatore si trovi o dalla sua età avanzata) il testamento è valido solo se tale causa effettivamente sussista, derivandone in caso contrario il difetto di sottoscrizione e quindi la nullità del testamento ai sensi dell'art. 606 primo comma c.c. Peraltro, non essendo prevista una forma particolare o termini tassativi per la dichiarazione della parte o per la menzione che il notaio deve farne, spetta al giudice di merito stabilire (con apprezzamento incensurabile se adeguatamente motivato) se il contenuto della dichiarazione, in relazione all'oggetto e alla portata della stessa, come indicati dalla legge, soddisfi obiettivamente l'esigenza da questa contemplata. (Nella specie il giudice del merito — con sentenza confermata dalla S.C. — in un caso in cui la testatrice aveva dichiarato di non poter sottoscrivere perché analfabeta, aveva ritenuto tale dichiarazione perfettamente conforme alla situazione determinatasi al momento della sottoscrizione, non rilevando in contrario che la dichiarante, sostanzialmente analfabeta, fosse generalmente in grado di vergare seppur con difficoltà la propria firma, giacché risultava provato che per lo stato emotivo in cui essa si trovava in quel momento era venuta temporaneamente meno anche tale ridotta capacità).

Cass. civ. n. 6838/1991

È nullo il testamento pubblico il quale contenga soltanto l'attestazione del notaio che il testatore è impossibilitato a sottoscrivere l'atto per infermità senza che risulti nell'atto stesso la menzione dell'analoga dichiarazione del testatore ricevuta dal notaio, come prescritto dall'art. 603 terzo comma c.c.

Cass. civ. n. 2742/1975

Nel testamento pubblico, le operazioni attinenti al ricevimento delle disposizioni testamentarie e quelle relative alla confezione della scheda sono idealmente distinte e, pertanto, possono svolgersi al di fuori di un unico contesto temporale. Condizione necessaria e sufficiente di validità del testamento, qualora la scheda sia stata predisposta dal notaio è che egli, prima di dare lettura della scheda stessa, faccia manifestare di nuovo al testatore la sua volontà in presenza dei testi. Per identità di ratio — l'opportunità di impedire "facili impugnazioni" del negozio — deve ritenersi operante anche per il testamento pubblico il principio, sancito espressamente per quello olografo, che la non verità della data non è di per sé stessa causa di invalidità del testamento e che, sempre ai fini della validità o non di esso, la questione della verità della data è rilevante soltanto se è connessa con un'ulteriore questione concernente un fatto o modo di essere della realtà anche negoziale, costituente esso la causa dell'invalidità. Tale principio, inoltre, vale sia per il caso di contraffazione o di alterazione materiale della data vera.

Cass. civ. n. 912/1973

L'inserimento di talune parole in un rigo in bianco, non ancora interlineato, di un testamento, se effettuato prima che l'atto sia stato sottoscritto dal testatore, dai testimoni e dal notaio, non costituisce «aggiunta» nel senso dell'art. 53 L. 16 febbraio 1913 n. 89 sull'ordinamento del notariato, e non è quindi, soggetto alle formalità ivi previste. L'impossibilità o la grave difficoltà di sottoscrivere il testamento non debbono necessariamente essere costituite da una vera e propria malattia, ma possono ben essere costituite da qualsiasi impedimento fisico, anche a carattere temporaneo, e quindi anche da una difficoltà di grafia derivante dall'estrema debolezza in cui il testatore si trovi o dalla sua età avanzata.

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