Prestazione eseguita da un incapace
Le ipotesi considerate da questo articolo e dal precedente erano previste dal codice del 1865 nell'art. 1240 che — sia pure con riguardo ad un adempimento sostanziantesi nel trasferimento della proprietà della cosa — mentre dichiarava non liberatorio un pagamento fatto da chi non era ne proprietario della cosa oggetto di un negozio traslativo, nè capace di alienarla, nel capoverso, tuttavia, negava al
solvens azione per ripetere la somma o la cosa se questa, consumabile o non con l'uso, era stata dall'
accipiens consumata in buona fede.
Su entrambe le soluzioni, che si rivelavano aderenti a principi fondamentali in materia, il nuovo codice ha sostanzialmente
innovato. Riguardo alla prima, l'art.
1191 nega al debitore che, incapace di agire, ha eseguito una prestazione, di impugnarla per il suo stato di incapacità: si ha una deroga al principio (
art. 1425 del c.c.), secondo cui il contratto è annullabile se una delle parti era illegalmente incapace di contrattare ed è parimenti annullabile, quando ricorrono le condizioni stabilite dall'art.
428, il contratto stipulato da persona incapace di intendere o di volere. La spiegazione addotta, e cioè che non può prevalere l'interesse dell'ordinamento giuridico a che gli atti dell'incapace siano compiuti con le formalità preordinate dalle leggi di fronte al fatto che il debito esisteva e che il pagamento corrispondeva alla prestazione dovuta, non persuade: essa non solo sovverte i principi posti dallo stesso ordinamento giuridico in tema di capacità d'agire e di validità di atti compiuti da chi di quella è privo, ma può anche provare troppo, infatti perchè non si dovrebbe, per lo stesso motivo, ritenere valido qualsiasi negozio giuridico — anche di disposizione, come il pagamento — compiuto dall'incapace quando si provi che questi vi era obbligato? L'interprete, tuttavia, è tenuto ad applicare la norma positiva, la quale: a) richiede, come regola, nel
solvens la capacita implicante attività non meramente materiale ma giuridica; b) nega implicitamente al creditore di impugnare la prestazione ricevuta perchè fatta da persona incapace; c) non trova più applicazione se il debitore incapace adempia in modo (es.
datio in solutum) e momenti diversi da quelli previsti nel rapporto obbligatorio: qui il negozio solutorio è senz'altro attaccabile, nel primo caso perchè è richiesto un valido accordo per la sostituzione dell'oggetto della prestazione, nel secondo perchè dovendo ancora sopraggiungere il
dies solutionis l'obbligo non deve essere adempiuto prima di questo, pertanto se il debitore invece adempie, così facendo rinuncia al termine e deve, perciò, avere piena capacita d'agire.
Prestazione eseguita con cosa altrui
Anche per l'ipotesi di prestazione effettuata con cosa altrui, l'art. 1192 si discosta dall'art. 1240, però la diversa disciplina che vi è contenuta, può, all'opposto di quella dell'art.
1191, essere accolta, se si medita sul difforme punto di vista da cui il codice considera i negozi di disposizione di cose altrui. Infatti, riconosciuta a questi immediata efficacia obbligatoria, non si poteva consentire al debitore di impugnare la prestazione perchè effettuata con cose altrui: solo se egli offre al creditore di adempiere con cose di cui può disporre vien meno ogni motivo per negargli la ripetizione di quelle consegnate e di sottrarsi cosi alla responsabilità verso il proprietario delle cose date
in solutione.
Il
diritto di impugnare la prestazione eseguita con cose altrui, negato al debitore è, invece, riconosciuto all'
accipiens, in considerazione di un suo legittimo interesse a prevenire molestie o evizioni da parte del terzo proprietario delle cose. Se questo pericolo non sussiste, può anche mancare un interesse del creditore all'impugnativa: l'ipotesi è riferibile soltanto ai contratti reali traslativi della proprietà di cose mobili per i quali vige il principio secondo cui il possesso di cose mobili, in buona fede, costituiscee titolo per i terzi (
art. 1153 del c.c.). Ma perchè possa impugnare la prestazione avente per oggetto cose altrui il creditore deve, all'atto in cui la riceve, essere
in buona fede, che nella materia in esame significa ignoranza dell' alienità della cosa offertagli. All'opposto la consapevolezza della non appartenenza della cosa al
solvens importa, di necessità, che egli debba accettare la prestazione a proprio rischio e pericolo.
Il codice nulla dice circa un'eventuale
legittimazione del terzo proprietario della cosa prestata dal debitore a rivendicare questa sia dal creditore, possessore, sia dallo stesso
solvens: non sembra però dubbio che un tale diritto debba essere senz'altro riconosciuto al terzo, purchè contro di esso non si possa invocare il principio dell'art.
1153 se si tratta di cose mobili, o opporre l'usucapione se si tratta di cose immobili o mobili iscritte in pubblici registri.