AUTORE:
Antonio Latronico
ANNO ACCADEMICO: 2019
TIPOLOGIA: Tesi di Laurea Magistrale
ATENEO: Universitą degli Studi di Bari
FACOLTÀ: Giurisprudenza
ABSTRACT
Il seguente studio, alla luce dell’articolo 6 della Convenzione dei diritti dell’uomo, si pone l’obiettivo di analizzare la tutela e la reale effettività del principio della ragionevole durata del processo civile all’interno del sistema costituzionale italiano. La Convenzione europea dei diritti dell’uomo, recepita dall’Italia all’indomani del dopoguerra, poneva gli stati membri di fronte ad una sfida: apportare una maggiore tutela dei diritti all’interno degli stati contraenti. Il principio della ragionevole durata come canone di un processo equo e giusto doveva ricevere la giusta attenzione da parte del legislatore italiano e degli stessi operatori del diritto. Nel 1999, dopo una lunga fase di incertezza nel merito, il suddetto principio viene costituzionalizzato all’interno dell’art. 111 Cost., al secondo comma; solo dopo un lungo dialogo con le istituzioni di Strasburgo, la ragionevole durata riceveva le giuste attenzioni da parte delle istituzioni italiane.
Il processo, per essere giusto, deve avere dei tempi brevi di risoluzione della controversia per apportare una maggiore certezza del diritto. Dopo la canonizzazione del principio all’interno della Costituzione, bisognava creare all’interno del sistema processuale un rimedio effettivo alla violazione dell’eccessiva durata dei processi, uno strumento di tutela del diritto, poiché lo prevedeva l’articolo 13 della Convenzione: “ogni persona i cui diritti e le libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettivo davanti ad un’istanza nazionale”.
Un diritto ad un ricorso effettivo era imposto dal principio di sussidiarietà e di rispetto nei confronti della Convenzione. Sul finire degli anni Novanta, i ricorsi dei cittadini italiani che lamentavano alla Corte di Strasburgo una irragionevole durata dei processi erano numerosi e sintomatici dei problemi relativi al sistema giustizia nel suo insieme. Qual è stato lo strumento effettivo di tutela del diritto per chi lamentava una durata dei processi troppo lunga in Italia? In tempi parlamentari molto brevi, la via del ricorso interno diventa realtà con la legge n. 89 del 2001, il cosiddetto rimedio Pinto. Uno strumento di riparazione che dava al cittadino una via di ricorso interna per dolersi della durata eccesiva del processo, un diritto ad un’equa riparazione per l’eventuale danno subito. Una legge che è stata protagonista, fin dalla sua entrata in vigore, del continuo dialogo con la Corte di Strasburgo, più volte interpretata dalla stessa giurisprudenza della Corte di Cassazione nel rispetto dell’articolo 6 della CEDU e dei vincoli comunitari assunti con la sua sottoscrizione. La legge Pinto viene modificata nel 2012, viene analizzata nei suoi vari aspetti processuali, mettendo in risalto i problemi della giurisprudenza sorti nell’ambito della sua applicazione. Tuttavia, se la legge ha affrontato il problema di risarcire il cittadino e sanzionare lo Stato per il mancato rispetto dei termini di durata del processo in “un’ottica ragionevole”, il sistema della giustizia italiano continua a presentare una significativa situazione di affanno nel rispettare dei tempi ritenuti ragionevoli nella durata del giudizio comportando anche determinati oneri di spesa. Senza dubbio, un contributo essenziale, nel corso degli anni, è stato quello della giurisprudenza della Corte di Cassazione che, nell’interpretazione delle norme processuali, ha cercato di limitare gli abusi processuali volti ad allungare i tempi del processo. La Corte ha rappresentato, e rappresenta tuttora, un rimedio effettivo per rendere più celeri i processi, e attraverso la sua giurisprudenza di legittimità sottolinea costantemente l’adeguata rilevanza che bisogna dare al canone della ragionevole durata del processo, nel contesto più ampio del “giusto processo” con le sue garanzie, in armonia con il principio del contraddittorio e più in generale del diritto di azione e di difesa. Un altro ruolo importante nella partita è svolto dal legislatore che ha il compito di apportare novità normative sia sul processo sia sull’organizzazione del servizio giustizia, tali da poter realizzare l’obiettivo di avere la celebrazione di processi che abbiano una durata ragionevole.
Il processo, per essere giusto, deve avere dei tempi brevi di risoluzione della controversia per apportare una maggiore certezza del diritto. Dopo la canonizzazione del principio all’interno della Costituzione, bisognava creare all’interno del sistema processuale un rimedio effettivo alla violazione dell’eccessiva durata dei processi, uno strumento di tutela del diritto, poiché lo prevedeva l’articolo 13 della Convenzione: “ogni persona i cui diritti e le libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettivo davanti ad un’istanza nazionale”.
Un diritto ad un ricorso effettivo era imposto dal principio di sussidiarietà e di rispetto nei confronti della Convenzione. Sul finire degli anni Novanta, i ricorsi dei cittadini italiani che lamentavano alla Corte di Strasburgo una irragionevole durata dei processi erano numerosi e sintomatici dei problemi relativi al sistema giustizia nel suo insieme. Qual è stato lo strumento effettivo di tutela del diritto per chi lamentava una durata dei processi troppo lunga in Italia? In tempi parlamentari molto brevi, la via del ricorso interno diventa realtà con la legge n. 89 del 2001, il cosiddetto rimedio Pinto. Uno strumento di riparazione che dava al cittadino una via di ricorso interna per dolersi della durata eccesiva del processo, un diritto ad un’equa riparazione per l’eventuale danno subito. Una legge che è stata protagonista, fin dalla sua entrata in vigore, del continuo dialogo con la Corte di Strasburgo, più volte interpretata dalla stessa giurisprudenza della Corte di Cassazione nel rispetto dell’articolo 6 della CEDU e dei vincoli comunitari assunti con la sua sottoscrizione. La legge Pinto viene modificata nel 2012, viene analizzata nei suoi vari aspetti processuali, mettendo in risalto i problemi della giurisprudenza sorti nell’ambito della sua applicazione. Tuttavia, se la legge ha affrontato il problema di risarcire il cittadino e sanzionare lo Stato per il mancato rispetto dei termini di durata del processo in “un’ottica ragionevole”, il sistema della giustizia italiano continua a presentare una significativa situazione di affanno nel rispettare dei tempi ritenuti ragionevoli nella durata del giudizio comportando anche determinati oneri di spesa. Senza dubbio, un contributo essenziale, nel corso degli anni, è stato quello della giurisprudenza della Corte di Cassazione che, nell’interpretazione delle norme processuali, ha cercato di limitare gli abusi processuali volti ad allungare i tempi del processo. La Corte ha rappresentato, e rappresenta tuttora, un rimedio effettivo per rendere più celeri i processi, e attraverso la sua giurisprudenza di legittimità sottolinea costantemente l’adeguata rilevanza che bisogna dare al canone della ragionevole durata del processo, nel contesto più ampio del “giusto processo” con le sue garanzie, in armonia con il principio del contraddittorio e più in generale del diritto di azione e di difesa. Un altro ruolo importante nella partita è svolto dal legislatore che ha il compito di apportare novità normative sia sul processo sia sull’organizzazione del servizio giustizia, tali da poter realizzare l’obiettivo di avere la celebrazione di processi che abbiano una durata ragionevole.