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Articolo 1438 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 26/11/2024]

Minaccia di far valere un diritto

Dispositivo dell'art. 1438 Codice Civile

La minaccia di far valere un diritto può essere causa di annullamento del contratto solo quando è diretta a conseguire vantaggi ingiusti(1).

Note

(1) Ad esempio, Tizio, creditore, minaccia Caio, debitore, che agirà per l'espropriazione dei suoi beni se questi non stipula il contratto.

Ratio Legis

Se la minaccia di esercizio di un diritto è volta a conseguire un risultato cui non si ha diritto, si configura una situazione illecita che condiziona la volontà del soggetto.

Spiegazione dell'art. 1438 Codice Civile

I due elementi della fattispecie del dolo: la causa dell'errore e l’errore

La disposizione in esame, che riproduce testualmente, salvo l’innovazione contenuta nel secondo comma, l’art. #1115# del codice abrogato, disciplina la figura dell'errore provocato dai raggiri della controparte o di un terzo, noti alla controparte, tradizionalmente designata con il termine di dolo (in senso ampio) e considerata dalla dominante dottrina e anche dall'attuale codice, come un vizio autonomo della volontà, distinto dell'errore in senso stretto e dalla violenza.

Due pertanto sono gli elementi che costituiscono la fattispecie del dolo in senso ampio e che devono essere analizzati separatamente: a) l’errore; b) la causa dell'errore, detta anche dolo (in senso stretto).

a) La causa dell’errore o dolo in senso stretto. L’elemento oggettivo

A) «Dolus est machinatio quaedam alterius decipiendi causa, cum aliud simulator et aliud agitur». Questa definizione di Servio, precisa e perspicua dell'altra famosa definizione di Labeone («omnis calliditas, fallacia, machinatio... » ; fr. I § 2 D. 4. 3), mette chiaramente in luce i due elementi, oggettivo e soggettivo, che costituiscono il dolo in senso stretto.

L'elemento oggettivo è dato dall'attività ingannatoria. Essa può esplicarsi nelle più varie forme: malizie, raggiri, macchinazioni, messe in scena, suggestioni etc., le quali possono però tutte ricondursi alle due categoric fondamentali dell'attività diretta ad avvalorare la falsa
affermazione (suggestio falsi) e dell’attività diretta a celare (suppressio veri). E’ insegnamento comune della dottrina e della giurisprudenza che il semplice mendacio non è di per sè solo sufficiente a costituire il dolo, dovendosi accompagnare ad un’attività diretta a realizzare delle circostanze obiettive idonee ad avvalorare il mendacio. Questa tesi, che viene fondata sull'assenza nel nostro ordinamento di un obbligo di dire la verità, sull'esigenza della sicurezza del traffico giuridico e sul disposto dell'art. 1426 cod. civ., non può essere accolta in via assoluta, dovendosi distinguere a seconda dei casi; così, ad esempio, se il mendacio proviene da persona nella quale il deceptus ha la massima fiducia, può ben costituire dolo.

Idoneità dei raggiri e dolus bonus

Requisito essenziale perché sussista l'elemento oggettivo del dolo è l'idoneità, in relazione al contenuto e alle circostanze del contratto, del comportamento del deceptus a trarre in inganno un contraente normale. Diversamente non può parlarsi, a rigore, di attività ingannatoria, cioè di dolo.

A questa nozione, di per sè evidente, deve ricondursi la figura del c.d. dolus bonus e su di essa deve fondarsi il principio della sua irrilevanza. Il dolus bonus, che assume nel diritto odierno un contenuto diverso da quello del diritto romano, ove stava ad indicare l'inganno diretto a fallere fallentem, latronem, hostem, consiste nella sollertia, cioè in tutti quegli accorgimenti, mezzi di pubblicità, discorsi della pratica degli affari, di cui ogni persona sensata non suole tenere alcun conto. L'irrilevanza di tali accorgimenti non va fondata, come vuole qualche autore sull'assenza dell'elemento psicologico, giacché, se il contraente li usa è perché egli ha, se non la certezza, almeno la speranza di influire sulla determinazione volitiva dell'altro contraente, e neppure, come vuole altri, sull'assenza dell'intenzione di recar danno, che è irrilevante in ogni caso nel dolo, ma solo sull'assenza dell'elemento oggettivo del dolo; non si ha attività ingannatoria e quindi dolo nel caso di raggiri cosi grossolani o comuni, da mostrare la corda ad ogni contraente di normale accortezza.

Provenienza dei raggiri

Per quanto riguarda la provenienza dell'attività ingannatoria, il nuovo legislatore, con una parziale innovazione rispetto al codice abrogato e sull'esempio del codice civile germanico, attribuisce rilevanza tanto al raggiro della controparte quanto ai raggiri del terzo noti alla controparte. Questo allargamento della figura tradizionale del dolo era già stato sostenuto per il vecchio codice da una corrente dottrinale e giurisprudenziale, che, nell'assenza di una testuale disposizione del codice, giustificavano, in genere, tale tesi riconducendo il raggiro del terzo noto alla controparte nella figura del dolo, prospettandolo come un dolo negativo della controparte. Per quanto la stessa costruzione ricorra anche nei lavori preparatori del nuovo codice (Atti C. A. I,., verb., n. 1o, pag. 139), non sembra dubbio che l'art. 1440 cod. civ. non considera al secondo comma una speciale ipotesi di dolo negativo, consistente nella conoscenza delle maliziose arti del terzo, ma toglie semplicemente un limite alla provenienza del raggiro, riconoscendo efficacia anche al dolo di un terzo, subordinatamente alla conoscenza che ne abbia avuto la controparte. L'importanza pratica di questa affermazione si riscontra nel campo della responsabilità per danni: trattandosi di raggiro del terzo conosciuto dalla controparte, il deceptus potrà in forza dell'art. 1338 cod. civ., sempre che ne ricorrano i presupposti e in particolare la scusabilità dell'errore, chiedere, nei limiti del danno negativo, il risarcimento al contraente che era a conoscenza dell'inganno, ma il risarcimento come conseguenza dell'inganno, senza alcun limite né nei presupposti né nel contenuto dell'obbligazione potrà chiederlo esclusivamente al terzo, il quale solo ha violato quello specifico obbligo di non ingannare da cui scaturisce l'illiceità del dolo.

Quanto è stato detto non vale ovviamente per il caso in cui il contraente abbia partecipato attivamente all'inganno, cercando, ad esempio, di impedire che il deceptus si accorgesse dei raggiri, nel qual caso si ha concorso di dolo del terzo e di dolo della controparte.

La subordinazione della rilevanza del dolo del terzo alla conoscenza che del medesimo abbia la controparte rappresenta una applicazione, nel campo dei vizi della volontà, di quella teoria dell'affidamento a cui in prevalenza si ispira, come si è visto, il nuovo codice. Senonché vien fatto di rilevare una grave disarmonia del sistema legislativo, analoga a quella posta in luce nei confronti dell'errore non provocato. Stando alla lettera della legge la teoria dell'affidamento assumerebbe infatti nel nostro diritto tre diversi atteggiamenti, e precisamente : a) incapacità naturale: subordinazione della invalidità del contratto tanto alla conoscenza che alla conoscibilità della causa di invalidità (articolo 1428 cod. civ.); b) errore spontaneo: subordinazione solo alla conoscibilità della causa di invalidità, donde l'irrilevanza dell'errore riconosciuto, ma non riconoscibile; c) errore provocato dall'inganno di un terzo: subordinazione alla conoscenza in concreto della causa di invalidità, donde l'irrilevanza del dolo del terzo riconoscibile e non riconosciuto. Questa diversità di regolamento non trova fondate giustificazioni. Come non v'è motivo di fare all'errore spontaneo un trattamento diverso rispetto all'incapacità naturale, così non v'è motivo di fare un trattamento diverso all'errore provocato dal raggiro di un terzo rispetto all'errore spontaneo ed all'incapacità naturale.

Il carattere illecito del dolo dovrebbe, se mai, importare una restrizione della tutela del destinatario della dichiarazione in caso di dolo rispetto alla tutela del destinatario della dichiarazione in caso di errore non provocato, e non un allargamento di detta tutela, quale risulta dall'interpretazione letterale dell'articolo in esame. Né la parità di trattamento del destinatario della dichiarazione nelle due ipotesi può essere mantenuta, nel caso che non ricorra l'elemento della conoscenza dei raggiri del terzo da parte del contraente, ma solo l'elemento della loro conoscibilità, attraverso l'applicazione della norma dell'art. 1428 cod. civ., giacché questa norma sembra applicabile solo al caso di errore non provocato. A ben vedere, l'unico modo di giustificare questa dispa­rità di trattamento sarebbe quella di configurare il raggiro del terzo conosciuto dal destinatario della dichiarazione come un dolo negativo del destinatario stesso; ciò porta appunto ad escludere
del contratto nel caso di raggiro conoscibile, ma non conosciuto, per mancanza della fattispecie stessa del dolo, il quale non può mai consistere in una semplice negligenza. Questa costruzione del raggiro del terzo conosciuto alla controparte non sembra tuttavia accettabile. Si può dunque propendere, sia pure con qualche dubbio, per un'interpretazione antiletterale dell'art. 1140 cod. civ., nel senso di attribuire rilevanza tanto al raggiro del terzo conosciuto dalla controparte quanto al raggiro del terzo non conosciuto, ma conoscibile dalla controparte. Questa tesi si può fondare non solo sulla fondamentale esigenza dell'armonia del sistema legislativo, ma anche su di un argomento testuale tratto dall'articolo successivo ove si parla di «contraente in mala fede». Questa espressione, che — come è detto nella relazione del Guardasigilli (n. 182) fu usata appunto per comprendere l'ipotesi del raggiro del terzo, secondo la migliore e dominante dottrina sta ad indicare non solo la conoscenza concreta, ma anche la conoscibilità di una determinata situazione, non potendo dirsi in buona fede il contraente che ha trascurato le norme più elementari di diligenza e di oculatezza. E’ poi particolarmente significativo il fatto che il codice civile germanico, a cui si ispira il nuovo codice civile italiano in ordine al problema del valore della volontà reale e della volontà ipotetica, subordina esplicitamente la rilevanza del dolo del terzo tanto al fatto che i1 contraente abbia conosciuto il dolo del terzo quanto al fatto che il terzo sia in colpa per non averlo conosciuto (§ 123, cpv.).

Diversità tra dolo e violenza in ordine alla provenienza della causa del vizio

Attribuendo rilevanza anche al dolo del terzo riconosciuto o riconoscibile dalla controparte, il nostro codice ha attenuato, ma non eliminato la differenza, tradizionale nei codici latini, tra dolo e violenza in ordine alla loro provenienza. Infatti, mentre l'errore provocato da raggiri è rilevante solo nel caso che il raggiro provenga dalla controparte, salvo il limite testè esaminato, il timore causato da violenza è rilevante sia che questa venga esercitata dalla controparte sia che venga esercitata da un terzo. La dottrina del codice abrogato, dopo aver inutilmente tentato nelle più varie maniere di giustificare tale differenza tradizionale (maggiore conoscibilità del soggetto attivo del dolo, maggiore solvibilità del medesimo; maggiore pericolosità sociale della violenza; maggiore colpabilità del soggetto passivo del dolo; illiceità del dolo; carattere secondario di questo rispetto alla violenza), era giunta alla conclusione che tale differenza non si può in alcun modo giustificare, ma solo si spiega storicamente, derivando da una errata interpretazione delle fonti romane. Di conseguenza si era determinata nella maggior parte della dottrina una decisa tendenza a parificare de jure condendo il dolo alla violenza, o nel senso, come sostenevano i più, di estendere al dolo il trattamento della violenza o nel senso, come sosteneva il Venezian, di estendere alla violenza il trattamento del dolo. Quest'ultimo indirizzo, che si armonizza con il principio dell'affidamento seguito dal nuovo codice, fu accolto nel progetto ministeriale (art. 202), ove la rilevanza della violenza esercitata da un terzo era subordinata alla malafede del destinatario della dichiarazione. Nel progetto definitivo si ritornò invece, salvo l'innovazione di cui al 2° comma dell'art. 1339, al sistema tradizionale, in base alla considerazione del più accentuato carattere antisociale della violenza.

Il problema del dolo negativo

L'attività maliziosa in cui si concreta l'elemento oggettivo del dolo, può consistere, oltre che in un comportamento positivo, in un comportamento negativo?

Il problema del dolo negativo, che ha dato luogo a gravi controversie in dottrina, si pone sotto due aspetti distinti:

a) in primo luogo ci si domanda se costituisca dolo il fatto che un contraente, conoscendo l'errore in cui versava la controparte, non l'abbia resa edotta, approfittando di tale errore.

La risposta a tale domanda non può essere che negativa, nonostante il contrario avviso di autorevoli autori. Se è vero che il comportamento del contraente che tace un errore della controparte è un comportamento illecito, costituendo una violazione di quel dovere della buona fede contrattuale di cui agli articoli 1337 e 1338 cod. civ. e, come tale, può dar luogo a responsabilità per danni, si deve anche tener presente che tale comportamento illecito non assume la figura del dolo, mancando il nesso di causalità tra il comportamento di un contraente e l'errore dell'altro; il silenzio della controparte non causa l'errore dell'altra, ma solo impedisce che questa si accorga dell’errore in cui è già caduta spontaneamente;

b) in secondo luogo ci si domanda se costituisca dolo il silenzio di una parte su di una circostanza che l’altra aveva interesse a conoscere.

La dottrina e la giurisprudenza dominanti sono per l'opinione affermativa, subordinando però in genere — eccezion fatta per la dottrina francese — la rilevanza del silenzio della controparte al fatto che per la legge, per gli usi del commercio o per la natura del negozio sussistesse un preciso dovere di informare la controparte della circostanza taciuta. Si citano al riguardo, tra gli altri, i casi del contratto di assicurazione e della garanzia per evizione o per difetti occulti nella compravendita.

Il problema è veramente delicato e dà luogo a gravi dubbi. La soluzione negativa, se non può dirsi certa, sembra tuttavia la più probabile. Innanzitutto è da avvertire che, una volta ammesso in linea di principio che la reticenza possa costituire dolo, non si può poi limitare la portata, veramente disastrosa per le esigenze della sicurezza del traffico giuridico, di tale affermazione, invocando la mancanza nel nostro ordinamento di un obbligo generale di informazione; infatti sembra che nel nostro attuale ordinamento tale obbligo possa tarsi rientrare senza difficoltà in quel dovere generale di comportarsi secondo la buona fede che è sancito nell'art. 1337 cod. civ. e ribadito nell'articolo seguente. Sembra però che le conseguenze della violazione di un tale obbligo, tanto nel caso di reticenza dolosa che nel caso di reticenza colposa, e salvo particolari disposizioni di legge, non possano essere altro che il risarcimento del danno, esclusa quindi, di regola, l'annullabilità del contratto. In particolare poi contro l'inclusione della reticenza nella figura del dolo si può osservare che il silenzio della controparte su di una circostanza che l'altra parte aveva interesse a conoscere può bensì concorrere a causare un errore di questa, ma non può mai costituire l'unica causa di tale errore; se l'altra parte avesse comunicato le circostanze che invece ha taciuto, la parte certo non sarebbe caduta in errore, ma non si può dire che sia caduta in errore esclusivamente per tale silenzio. Né il fatto che talora la legge ricollega espressamente alla reticenza la conseguenza dell'annullabilità del contratto, come avviene nel caso del contratto di assicurazione (art. 1892 cod. civ.), autorizza ad identificare i due istituti della reticenza e del dolo, trattandosi di uguaglianza nella considerazione normativa di due diverse figure.

L’elemento soggettivo del dolo in senso stretto

L' elemento soggettivo del dolo è dato dall'animus decipiendi, consistente nella, coscienza della falsità delle rappresentazioni che si inducono e nella previsione che gli artifici inducano in errore la controparte. Non si ha pertanto dolo, per difetto dell'elemento soggettivo, sia nel caso che il soggetto abbia col suo comportamento indotto la controparte in un errore in cui egli stesso versava, sia nel caso, piuttosto raro in pratica, che il soggetto, pur essendo cosciente dell'erroneità delle
informazioni date, escluda che tali informazioni inducano in errore la controparte, essendo certo che non potranno essere prese sul serio. Occorre aggiungere che non è necessaria la certezza del raggiungimento del fine, essendo sufficiente che il soggetto si rappresenti tale fine come possibile (c.d. dolo eventuale).

Non è richiesto l' animus nocendi, né in genere ha rilevanza la natura dei motivi che determinano il soggetto a porre in essere l'attività ingannatoria: anche il dolo a fin di bene è dolo.

b) L’errore causato dall’attività ingannatoria

B) Il secondo elemento della fattispecie del dolo in senso ampio è l'errore causato dall'attività ingannatoria. Tale specie di errore trova una determinazione diversa rispetto all'errore in senso tecnico, e precisamente più ampia nei confronti dell'oggetto dell'errore, più ristretta nei confronti dell'influenza dell'errore sulla determinazione volitiva del contraente.

Per ciò che concerne l'oggetto dell'errore, mentre nel caso di errore spontaneo è rilevante solo l'errore che cade sull'oggetto in senso ampio del contratto, nel caso di errore provocato, questa limitazione non sussiste e l'errore, qualunque sia l'oggetto su cui cade, è rilevante, quindi anche l’errore nel motivo e nei presupposti condizionati. Ciò spiega perché il legislatore tratta il dolo come un vizio a sè stante e nella definizione del dolo trascura l'elemento dell'errore, limitandosi a parlare di raggiri che hanno determinato la stipulazione del contratto.

Sotto l'impero del vecchio codice l'errore provocato da raggiri trovava anche per un altro lato una più ampia determinazione rispetto all'errore spontaneo. Infatti la dottrina e la giurisprudenza dominanti, mentre per l'errore spontaneo richiedevano, pur nel silenzio del codice, la scusabilità del medesimo, trattandosi di errore indotto da dolo attribuivano rilevanza anche all'errore inescusabile. Il nuovo codice ha introdotto nei confronti dell'errore non provocato da raggiri il requisito della riconoscibilità dell'errore, il quale, come si è visto, esclude quello della scusabilità. Ci si domanda se questo requisito sia richiesto ancora nel caso di errore provocato da raggiri. Il dubbio, che può sorgere in quanto si potrebbe pensare che la più vasta tutela dell'errante, in caso di errore provocato da raggiri, non abbia ragione di essere mantenuta quando l'errante versa in errore inescusabile, deve essere risolto in senso negativo: la scusabilità o inescusabilità dell'errore non ha oggi più alcuna rilevanza ai fini dell'annullabilità del contratto, tanto che si tratti di errore spontaneo quanto che si tratti di errore provocato.

Questa tesi dell'irrilevanza dell'inescusabilità dell'errore nel campo del dolo è seguita dalla migliore dottrina tedesca, la quale, a differenza della nostra dottrina del codice del 1865, ritiene irrilevante l'inescusabilità anche nel campo dell'errore non provocato da dolo. E’ opportuno poi porre in luce che il requisito della scusabilità dell'errore provocato da dolo non può farsi discendere dal requisito dell'attività ingannatoria, illustrato in precedenza, per cui tale attività deve essere idonea a trarre in inganno un contraente di normale diligenza. Una cosa è la grossolanità del raggiro e un'altra cosa è la scusabilità dell'errore in cui cade i1 deceptus; questi due elementi non sono affatto collegati da un nesso necessario: se di solito la grossolanità del raggiro costituisce un elemento determinante della grossolanità dell'errore, può darsi però tanto il caso di un errore inescusabile provocato da un raggiro abilissimo quanto il caso di un errore scusabile provocato da un raggiro grossolano.

In ordine alla influenza dell'errore sulla determinazione volitiva del contraente, l'errore provocato da dolo trova una più ristretta determinazione rispetto all'errore non provocato. Mentre nel campo dell'errore non provocato deve ritenersi, nonostante la lettera dell'art. 1429 cod. civ., rilevante tanto l'errore causale quanto l'errore incidentale (v. retro, pag. 711), nel campo dell'errore provocato da dolo è rilevante solo l'errore tale che senza di esso «la parte non avrebbe contrattato» (dolus causam dans); l'errore tale che senza di esso l'altra parte «avrebbe contrattato a condizioni diverse» (dolus incidens) ha rilevanza solo in ordine alla responsabilità per danni, ferma restando la validità del contratto.

Il dolo reciproco

Oltre agli elementi illustrati non occorrono altri elementi per integrare la fattispecie del dolo.

In particolare, non si richiede né la sussistenza di un danno del deceptus, né l'assenza di un errore causato da dolo nel deceptor. Quest'ultimo punto tocca il delicato problema del dolo reciproco, che il nuovo codice non ha risolto, volendosi lasciare — come è detto, con sorprendente motivazione, nei lavori preparatori (Atti C. A. L., verb., n. 101 pag. 138) — la soluzione al magistrato secondo le circostanze. A differenza di quanto sostiene la dottrina dominante, il problema del dolo reciproco non può essere risolto secondo il principio del diritto romano, seguito anche da alcune legislazioni straniere, per cui «si duo dolo malo fecerint, invicem de dolo non agent». A sostegno di questa soluzione non può addursi né l'argomento che «dolus cum dolo compensatur», giacché si possono compensare le colpe, ma non i vizi del volere, né l'argomento che l'annullabilità del contratto viziato da errore è un rimedio a tutela della buona fede del contraente in errore, giacché tale annullabilità costituisce esclusivamente una tutela della corrispondenza tra volontà reale e volontà ipotetica, indipendentemente dalla buona o mala fede dell'errante, come risulta chiaramente dalla irrilevanza della scusabilità o meno dell'errore. D'altra parte l'ammettere la validità del contratto in cui ciascuna delle parti sia nel contempo deceptus e deceptor, porta all'assurda conseguenza di far rimanere le parti vincolate ad un contratto che nessuna delle due avrebbe concluso senza l'errore. Si aggiunga infine che, se le motivazioni addotte a sostegno dell'irrilevanza del dolo reciproco fossero esatte, si dovrebbe logicamente applicare la stessa soluzione anche nel caso di doppio errore spontaneo inescusabile.

Si deve pertanto ritenere che nel caso di dolo reciproco il contratto sia annullabile, con facoltà di chiederne l'annullamento spettante ad entrambi i contraenti.

Relazione al Libro delle Obbligazioni

(Relazione del Guardasigilli al Progetto Ministeriale - Libro delle Obbligazioni 1941)

182 Si è eliminato dall'art. 20 del progetto del 1936 l'inutile inciso "senza che vi sia stata violenza" (art. 207); si è poi regolata, in conformità ai principi accolti dalla giurisprudenza, la ipotesi di minaccia di far valere un diritto, che di per se stessa non può provocare una sanzione di nullità dei contratti, ma che, quando dà luogo ad abusi, ha tutti i caratteri dell'illiceità.
L'abuso si ha quando il minacciante ha ottenuto vantaggi che eccedono la realizzazione sia facendo conseguire di più del dovuto sia facendo conseguire una cosa diversa da quella dovuta. Questo eccesso funziona quale chiaro indice di una situazione obiettiva che deviò il consenso dell'obbligato, donde l'annullamento.

Massime relative all'art. 1438 Codice Civile

Cass. civ. n. 41271/2021

Le dimissioni del lavoratore rassegnate sotto minaccia di licenziamento sono annullabili per violenza morale solo qualora venga accertata - con onere probatorio a carico del lavoratore che deduce l'invalidità dell'atto di dimissioni - l'inesistenza del diritto del datore di lavoro di procedere al licenziamento per insussistenza dell'inadempimento addebitato al dipendente, dovendosi ritenere che, in detta ipotesi, il datore di lavoro, con la minaccia del licenziamento, persegua un risultato non raggiungibile con il legittimo esercizio del diritto di recesso.

Cass. civ. n. 20305/2015

In materia di annullamento del contratto per vizi della volontà, si verifica l'ipotesi della violenza, invalidante il negozio giuridico, qualora uno dei contraenti subisca una minaccia specificamente finalizzata ad estorcere il consenso alla conclusione del contratto, proveniente dalla controparte o da un terzo e di natura tale da incidere, con efficienza causale, sul determinismo del soggetto passivo, che in assenza della minaccia non avrebbe concluso il negozio. Ne consegue che il contratto non può essere annullato ex art. 1434 c.c. ove la determinazione della parte sia stata determinata da timori meramente interni ovvero da personali valutazioni di convenienza, senza cioè che l'oggettività del pregiudizio risalti quale idonea a condizionare un libero processo determinativo delle proprie scelte.

Cass. civ. n. 9680/2013

In materia di società, la minaccia del socio di far valere il proprio diritto di voto contro l'approvazione del bilancio in caso di mancata dismissione della partecipazione ad altro socio può essere causa di annullabilità della vendita delle azioni, conclusa fra i soci stessi, solo ove sia diretta a conseguire vantaggi ingiusti, dovendosi escludere che siano tali quelli meramente correlati all'interesse del venditore ad uscire dalla società, atteso che il diritto di voto è funzionale all'interesse individuale del socio ed incontra il limite dell'interesse sociale solo quando possa danneggiare la società, fermo restando che la prospettiva di poter vendere le azioni non costituisce un elemento estraneo, rispetto alle scelte relative all'esercizio del diritto di voto in assemblea.

Cass. civ. n. 17523/2011

La minaccia di far valere un diritto assume i caratteri della violenza morale, invalidante il consenso prestato per la stipulazione di un contratto, ai sensi dell'art. 1438 c.c., soltanto se è diretta a conseguire un vantaggio ingiusto; il che si verifica quando il fine ultimo perseguito consista nella realizzazione di un risultato che, oltre ad essere abnorme e diverso da quello conseguibile attraverso l'esercizio del diritto medesimo, sia anche esorbitante ed iniquo rispetto all'oggetto di quest'ultimo, e non quando il vantaggio perseguito sia solo quello del soddisfacimento del diritto nei modi previsti dall'ordinamento. (Nella specie, con riferimento ad una pattuizione di aumento degli interessi convenzionali stipulata tra i mutuatari e l'istituto di credito mutuante, la S.C. ha negato che potesse integrare violenza morale l'asserita minaccia consistita nel prospettare l'eventualità che, in mancanza di accordi sulla dilazione di pagamento, la banca avrebbe insistito nell'azione esecutiva in essere e non avrebbe richiesto un rinvio della imminente vendita già fissata, non potendo riferirsi la valutazione in termini di ingiustizia all'esercizio dell'azione esecutiva in sé considerata, né reputarsi iniqua la concessione in via transattiva della dilazione di pagamento da parte dell'istituto di credito a fronte del riconoscimento di un rincaro del tasso di interessi sulle somme ancora dovute dai debitori esecutati).

Cass. civ. n. 13035/2003

L'apprezzamento del giudice di merito circa l'esistenza e l'idoneità della minaccia a coartare la volontà di una persona si traduce in un giudizio di fatto, incensurabile in cassazione ove adeguatamente motivato. (Nella specie la S.C. ha ritenuto esente da vizi la motivazione del giudice di rinvio, il quale, a fronte di una decisione rescindente nella quale si stabiliva che incombeva sui lavoratori l'onere di provare la minaccia al fine d'invalidare le dimissioni incentivate, aveva ritenuto che tale onere probatorio non fosse stato soddisfatto e che in particolare non ci fosse prova certa in ordine alla asserita strumentalizzazione da parte del datore di lavoro delle trasferte al fine di piegare la volontà dei ricorrenti ed indurli a rassegnare le dimissioni).

Cass. civ. n. 9946/1996

L'incidenza sulla determinazione volitiva della minaccia — che può integrare la violenza morale comportante l'annullabilità di un contratto se sia specificamente diretta al fine di estorcere il consenso ed inoltre, nei caso in cui abbia ad oggetto l'esercizio di un diritto, sia ingiusta perché perseguente un vantaggio esorbitante e iniquo — deve essere valutata, a norma dell'art. 1438 codice civile, con riferimento alle condizioni della vittima, e l'apprezzamento del giudice di merito sull'esistenza della minaccia e sulla sua efficacia si risolve in un giudizio di fatto incensurabile in cassazione se motivato in modo sufficiente e non contraddittorio. (Nella specie la Suprema Corte ha confermato la sentenza di merito che, in caso di induzione di una donna all'alienazione di un immobile di sua proprietà mediante la minaccia di denuncia per truffa del marito che aveva venduto lo stesso immobile senza precisare di non esserne proprietario, aveva ritenuto esistente l'incidenza causale della minaccia e abnorme il vantaggio conseguito dall'acquirente in danno della donna).

Cass. civ. n. 8290/1993

La minaccia di far valere un diritto assume i caratteri della violenza morale invalidante il consenso prestato per la stipulazione di un contratto, ai sensi dell'art. 1438 c.c., soltanto se è diretta a conseguire un vantaggio ingiusto, il che si verifica quando il fine ultimo perseguito consista nella realizzazione di un risultato che, oltre ad essere abnorme e diverso da quello conseguibile attraverso l'esercizio del diritto medesimo, sia anche esorbitante ed iniquo rispetto all'oggetto di quest'ultimo e non quando il vantaggio perseguito sia solo quello del soddisfacimento del diritto nei modi previsti dall'ordinamento, come nel caso della minaccia di esecuzione forzata sul bene ipotecato per il soddisfacimento dei credito garantito. In tale ipotesi la minaccia non ha altro scopo che quello di far conseguire al suo autore la prestazione dovuta senza il ricorso alla esecuzione forzata con la conseguenza che l'eventuale cessione al creditore del bene ipotecato realizza una datio in solutum e cosa quell'adempimento cui mirava il creditore prospettando al debitore la possibilità della esecuzione forzata. 

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