AUTORE:
Carmen Pingaro
ANNO ACCADEMICO: 2014
TIPOLOGIA: Tesi di Laurea Magistrale
ATENEO: Universitą degli Studi di Salerno
FACOLTÀ: Giurisprudenza
ABSTRACT
Le donne: quante volte la magistratura ha dovuto farci i conti. Fin dall'antichità, si è creduto che la donna non potesse essere all'altezza di prendere le redini dei clan di cui il capo è, da sempre, l'uomo. La mafia, la camorra, la 'ndrangheta hanno un viso tutto al maschile. Guai a dire che la Mafia è donna. Significherebbe ammettere che l'uomo perda il sacro onore tanto celebrato dalla "Cupola" siciliana e dalle famose "ndrine"calabresi.
Fino a qualche anno fa, il ruolo della donna veniva esclusivamente inquadrato come custode e vestale del sacro e dell'onore. La donna era importante solo per mettere al mondo figli ed educarli secondo il codice d'onore dell'organizzazione. Dal punto di vista penale, l'unica responsabilità che poteva essere imputata alla donna era quella di favoreggiamento: favorisce, accompagna, acconsente all'azione delittuosa portata a termine dai mariti, fratelli, padri. Il loro unico compito è quello di stare in silenzio, non ribellarsi, o, tutt'al più, contribuire al compimento di determinati affari.
Non solo. I libri, le testimonianze dei pentiti, che sono passati alla storia come "infami", confermano la strumentalità di queste donne che fungono da "ponte" per mettere in piedi alleanze tra le famiglie più potenti. Perché, si sa, più potenza si ha, più denaro si fa. E questo l'organizzazione ce l'ha ben presente, comprese le donne. Ascoltano e sanno tutto, ma, almeno originariamente, non si azzardano ad interferire. La fiducia in loro riposta è ben poca da parte degli uomini, perché la donna ha l'istinto materno, ha meno freddezza e più sensibilità. Sebbene sia portatrice di una grande forza e influenza nei confronti dei figli, proprio per questi ultimi sarebbe capace di buttare all'aria tutte le regole e "donare" alla Giustizia tutto il proprio sapere. Anche semplicemente per poter tirar fuori il proprio dolore, quello di madre privata di una parte di sé. È per i figli, per i propri cari, che una donna mafiosa metterebbe in discussione la fedeltà all'organizzazione, alle regole dei mariti. Il desiderio di vendetta, in alcune situazioni, diventa il trampolino di lancio per una liberazione anelata da troppo tempo. Pietro Grasso, ex procuratore nazionale antimafia, ha descritto dettagliatamente le caratteristiche del genere femminile invischiato in affari di Cosa Nostra. Ha realizzato una classificazione, creando categorie che sembrano disegnare visi, caratteri, fisionomie di questo universo intramontabile.
È così che, sulla passerella delle prestigiose famiglie "di tutto rispetto", i grandi capi dei clan si vedono affiancati da diversi tipi di donne. In primis, in concomitanza con le origini del fenomeno criminale, in cui regna la totale subordinazione, ritroviamo le cosiddette" Devote", ossia coloro che dedicano anima e corpo alla famiglia, ai loro compagni, figli e fratelli. In secondo luogo, fanno il loro ingresso sulla scena le "Donne d'onore", organiche e gregarie dell'organizzazione. In terzo luogo, le donne ribelli, che trovano il coraggio di rifiutare il compromesso, le costrizioni e si affidano alla giustizia per vendicare il sangue che hanno, troppe volte, visto scorrere nelle varie faide tra famiglie.
In questo lavoro ci si propone di ricostruire le varie tappe percorse dalle donne per affermare il proprio status di persone autonome e distinte dal capofamiglia, nel corso delle guerre di mafie, e rispondere al seguente interrogativo: il cambiamento, l'evoluzione della società, dà la possibilità di poter affermare anche la trasformazione delle donne, da subordinate ad emancipate?
Nelle pagine che seguiranno verranno analizzate, a questo proposito, le varie figure femminili, le loro caratteristiche originarie e le successive trasformazioni di status, dovute a vari fenomeni, tra i quali la maggior percezione del pericolo di queste associazioni del crimine da parte della collettività e l'imponente risposta repressiva ad opera dello Stato.
Fino a qualche anno fa, il ruolo della donna veniva esclusivamente inquadrato come custode e vestale del sacro e dell'onore. La donna era importante solo per mettere al mondo figli ed educarli secondo il codice d'onore dell'organizzazione. Dal punto di vista penale, l'unica responsabilità che poteva essere imputata alla donna era quella di favoreggiamento: favorisce, accompagna, acconsente all'azione delittuosa portata a termine dai mariti, fratelli, padri. Il loro unico compito è quello di stare in silenzio, non ribellarsi, o, tutt'al più, contribuire al compimento di determinati affari.
Non solo. I libri, le testimonianze dei pentiti, che sono passati alla storia come "infami", confermano la strumentalità di queste donne che fungono da "ponte" per mettere in piedi alleanze tra le famiglie più potenti. Perché, si sa, più potenza si ha, più denaro si fa. E questo l'organizzazione ce l'ha ben presente, comprese le donne. Ascoltano e sanno tutto, ma, almeno originariamente, non si azzardano ad interferire. La fiducia in loro riposta è ben poca da parte degli uomini, perché la donna ha l'istinto materno, ha meno freddezza e più sensibilità. Sebbene sia portatrice di una grande forza e influenza nei confronti dei figli, proprio per questi ultimi sarebbe capace di buttare all'aria tutte le regole e "donare" alla Giustizia tutto il proprio sapere. Anche semplicemente per poter tirar fuori il proprio dolore, quello di madre privata di una parte di sé. È per i figli, per i propri cari, che una donna mafiosa metterebbe in discussione la fedeltà all'organizzazione, alle regole dei mariti. Il desiderio di vendetta, in alcune situazioni, diventa il trampolino di lancio per una liberazione anelata da troppo tempo. Pietro Grasso, ex procuratore nazionale antimafia, ha descritto dettagliatamente le caratteristiche del genere femminile invischiato in affari di Cosa Nostra. Ha realizzato una classificazione, creando categorie che sembrano disegnare visi, caratteri, fisionomie di questo universo intramontabile.
È così che, sulla passerella delle prestigiose famiglie "di tutto rispetto", i grandi capi dei clan si vedono affiancati da diversi tipi di donne. In primis, in concomitanza con le origini del fenomeno criminale, in cui regna la totale subordinazione, ritroviamo le cosiddette" Devote", ossia coloro che dedicano anima e corpo alla famiglia, ai loro compagni, figli e fratelli. In secondo luogo, fanno il loro ingresso sulla scena le "Donne d'onore", organiche e gregarie dell'organizzazione. In terzo luogo, le donne ribelli, che trovano il coraggio di rifiutare il compromesso, le costrizioni e si affidano alla giustizia per vendicare il sangue che hanno, troppe volte, visto scorrere nelle varie faide tra famiglie.
In questo lavoro ci si propone di ricostruire le varie tappe percorse dalle donne per affermare il proprio status di persone autonome e distinte dal capofamiglia, nel corso delle guerre di mafie, e rispondere al seguente interrogativo: il cambiamento, l'evoluzione della società, dà la possibilità di poter affermare anche la trasformazione delle donne, da subordinate ad emancipate?
Nelle pagine che seguiranno verranno analizzate, a questo proposito, le varie figure femminili, le loro caratteristiche originarie e le successive trasformazioni di status, dovute a vari fenomeni, tra i quali la maggior percezione del pericolo di queste associazioni del crimine da parte della collettività e l'imponente risposta repressiva ad opera dello Stato.