Cassazione civile Sez. III sentenza n. 10741 del 11 maggio 2009

(3 massime)

(massima n. 1)

Gli effetti del contratto debbono essere individuati avendo riguardo anche alla sua funzione sociale, e tenendo conto che la Costituzione antepone, anche in materia contrattuale, gli interessi della persona a quelli patrimoniali. Ne consegue che il contratto stipulato tra una gestante, una struttura sanitaria ed un medico, avente ad oggetto la prestazione di cure finalizzate a garantire il corretto decorso della gravidanza, riverbera per sua natura effetti protettivi a vantaggio anche del concepito e del di lui padre, i quali in caso di inadempimento, sono perciò legittimati ad agire per il risarcimento del danno.

(massima n. 2)

Il concepito, pur non avendo una piena capacità giuridica, è comunque un soggetto di diritto, perché titolare di molteplici interessi personali riconosciuti dall'ordinamento sia nazionale che sovranazionale, quali il diritto alla vita, alla salute, all'onore, all'identità personale, a nascere sano, diritti, questi, rispetto ai quali l'avverarsi della "condicio iuris" della nascita è condizione imprescindibile per la loro azionabilità in giudizio ai fini risarcitori. Ne consegue che la persona nata con malformazioni congenite, dovute alla colposa somministrazione di farmaci dannosi (nella specie teratogeni), alla propria madre, durante la gestazione, è legittimata a domandare il risarcimento del danno alla salute nei confronti del medico che quei farmaci prescrisse o non sconsigliò.

(massima n. 3)

Nel caso in cui ad una gestante siano stati somministrati senza adeguata informazione farmaci che abbiano provocato malformazioni al concepito, la violazione dell'obbligo d'informazione da parte dei sanitari dà luogo al risarcimento del danno in favore sia della gestante-madre che del concepito, una volta che quest'ultimo sia venuto ad esistenza, ma solo in relazione all'inosservanza del principio del c.d. consenso informato, non potendo invece ravvisarsi a carico dei sanitari una responsabilità nei confronti del concepito perché la madre non è stata posta in condizione di esercitare il diritto all'interruzione volontaria della gravidanza, non essendo configurabile nel nostro ordinamento un diritto "a non nascere se non sano", in quanto le norme che disciplinano l'interruzione della gravidanza la ammettono nei soli casi in cui la prosecuzione della stessa o il parto comportino un grave pericolo per la salute o la vita della donna, legittimando pertanto la sola madre ad agire per il risarcimento dei danni.

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