(massima n. 1)
La scelta dell'imprenditore di cessare l'attività costituisce esercizio incensurabile della libertà di impresa garantita dall'art. 41 Cost. e si traduce in una circostanza di fatto che può essere introdotta nel processo senza necessità di rispettare alcun formalismo, richiedendo solo la rituale acquisizione al giudizio. Ne consegue che, ove l'imprenditore sia stato convenuto in giudizio da un dipendente che deduca l'illegittimità del suo licenziamento, la deduzione della sopravvenuta cessazione dell'attività non richiede la proposizione di una domanda riconvenzionale o di una eccezione in senso formale, dovendosi ritenere inapplicabili le regole di cui all'art. 416, comma 2, cod. proc. civ. e all'art. 418 cod. proc. civ.. (Nella specie, relativa ad una ipotesi di licenziamento collettivo di cui era stata accertata l'illegittimità, la S.C., nel rigettare il motivo di ricorso, ha rilevato che, correttamente, il giudice di merito si era limitato ad accogliere la domanda di risarcimento del danno in quanto l'avvenuta cessazione totale dell'attività aziendale costituiva un accadimento - introdotto dalla società nel giudizio di primo grado e risultante dalla documentazione in atti - che rendeva impossibile la reintegrazione).