(massima n. 2)
Le regole legali di ermeneutica contrattuale sono esposte negli artt. 1362 e 1371 c.c. secondo un principio gerarchico: conseguenza immediata è che le norme cosiddette strettamente interpretative, dettate dagli artt. 1362 e 1365, precedono in detta operazione quelle cosiddette interpretative integrative, esposte dagli artt. 1366 e 1371 c.c. e ne escludono la concreta operatività quando la loro applicazione renda palese la comune volontà dei contraenti. Avuto riguardo a questo principio di ordinazione gerarchica delle regole ermeneutiche, nel cui ambito il criterio primario è quello esposto dal primo comma dell'art. 1362 c.c., ne consegue ulteriormente che qualora il giudice del merito abbia ritenuto che il senso letterale delle espressioni impiegate dagli stipulanti riveli con chiarezza ed univocità la loro volontà comune, così che non sussistano residue ragioni di divergenza tra il tenore letterale del negozio e l'intento effettivo dei contraenti, detta operazione deve ritenersi utilmente compiuta, anche senza che si sia fatto ricorso al criterio sussidiario del secondo comma dell'art. 1362 c.c. che attribuisce rilevanza ermeneutica al comportamento delle parti successivo alla stipulazione; né, in tale ipotesi, il giudice del merito può comunque desumere elementi contrari dal contegno processuale delle parti ex art. 116, secondo comma, c.p.c:, il quale — tra l'altro — configura un potere discrezionale del giudice, solo il cui esercizio (e non già il mancato esercizio, come accade invece nel caso delle prove tipiche), va dal giudice motivatamente giustificato, versandosi in tema di c.d. prove atipiche o innominate.