(massima n. 1)
Nel rito del lavoro e, in particolare, nella materia della previdenza e assistenza, caratterizzata dall'esigenza di contemperare il principio dispositivo con quello della ricerca della verità materiale, allorché le risultanze di causa offrono significativi dati di indagine, occorre che il giudice, anche in grado di appello, ex art. 437 c.p.c., ove reputi insufficienti le prove già acquisite, eserciti il potere-dovere di provvedere di ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale probatorio e idonei a superare l'incertezza sui fatti costitutivi dei diritti in contestazione, sempre che tali fatti siano stati puntualmente allegati nell'atto introduttivo; né all'ammissione d'ufficio delle prove è di ostacolo il verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti interessate, atteso che il potere d'ufficio è diretto a vincere i dubbi residuati dalle risultanze istruttorie, intese come complessivo materiale probatorio (anche documentale) correttamente acquisito agli atti del giudizio di primo grado, con la conseguenza che, in tal caso, non si pone, propriamente, alcuna questione di preclusione o decadenza processuale a carico della parte, essendo la prova «nuova», disposta d'ufficio, solo l'approfondimento, ritenuto indispensabile, di elementi probatori già obiettivamente presenti nella realtà del processo (nella specie, relativa a domanda di rendita da malattia professionale, la sentenza impugnata, confermata dalla S.C. in base al principio di cui in massima, aveva disposto d'ufficio, ai sensi dell'art. 437 c.p.c., la prova – articolata dall'assicurato solo in appello – diretta all'accertamento della esposizione a rischio, sul presupposto che le risultanze della fase amministrativa acquisite nel giudizio di primo grado avevano già evidenziato l'avvenuta prestazione di attività lavorativa potenzialmente nociva in relazione alla malattia accertata).