(massima n. 1)
In tema di esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare, qualora il giudice dell'esecuzione, dopo aver pronunziato ex art. 612 c.p.c. per determinare le modalità dell'esecuzione (stabilendo il modo in cui, in concreto, deve essere eseguito ciò che illegittimamente non è stato fatto o deve essere distrutto ciò che illegittimamente è stato fatto, con designazione dell'ufficiale giudiziario e delle persone che devono provvedere all'attuazione pratica della volontà della legge accertata nel titolo), emetta una seconda ordinanza con la quale disponga nuovamente in ordine al mero svolgimento dell'esecuzione, rimane integrata una mera violazione dell'art. 131 c.p.c. rimediabile con le impugnazioni ordinarie ovvero, se ne ricorrono i presupposti, con l'opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c. (sempre che il giudice non eserciti, anche su sollecitazione di parte, i poteri di relativa revoca ai sensi dell'art. 487 c.p.c.); ove per contro con la detta (seconda) ordinanza il giudice dell'esecuzione dirima una controversia insorta fra le parti in ordine alla portata sostanziale del titolo esecutivo ed all'ammissibilità dell'azione esecutiva intrapresa, va a tale provvedimento riconosciuta natura sostanziale di sentenza, in forza del suo contenuto decisorio sul diritto della parte istante a procedere ad esecuzione forzata (cioè su una opposizione all'esecuzione ex art. 615 c.p.c., proposta dall'esecutato o rilevata d'ufficio dal giudice), e come tale esso è impugnabile con l'appello. (In applicazione del suindicato principio, la S.C., nel rigettare le doglianze del ricorrente, ha ritenuto avere il giudice dell'esecuzione correttamente disposto, con riferimento ad opere di demolizione, che dovesse tenersi conto delle regole e delle cautele fissate dalla legislazione urbanistica e suggerite dal c.t.u., in quanto la fissazione di tali regole faceva parte del provvedimento esecutivo, suscettibile di impugnazione per vizi di questo procedimento).