(massima n. 1)
In tema di impugnazioni avverso provvedimenti in materia cautelare, l'appello previsto dall'art. 310 c.p.p., a differenza del riesame, ha conservato la fisionomia tradizionale del mezzo di gravame, per cui i motivi (che debbono essere indicati contestualmente a pena di inammissibilità), hanno la funzione di determinare e delimitare l'oggetto del giudizio, circoscrivendo quindi la cognizione del tribunale cosiddetto «della libertà» ai punti della decisione impugnata che hanno formato oggetto di censura, come, del resto, è dimostrato anche dal mancato richiamo, nel suddetto art. 310, del nono comma dell'art. 309. Pertanto, qualora un'ordinanza in materia di libertà personale, pronunciata ai sensi dell'art. 299 c.p.p., venga impugnata solo dal pubblico ministero, il giudice dell'appello non può emettere un provvedimento più favorevole all'interessato di quello adottato dal primo giudice. (Nella specie, in applicazione di tali principi, la Corte, su ricorso del pubblico ministero, ha annullato l'ordinanza con la quale il tribunale, investito di appello dal medesimo pubblico ministero avverso ordinanza del Gip che aveva sostituito nei confronti di un indagato la misura della custodia in carcere con quella degli arresti domiciliari, oltre a respingere l'appello, aveva revocato anche il provvedimento applicativo degli arresti domiciliari, ritenendo che fossero del tutto venute meno le esigenze cautelari, e aveva disposto la immediata liberazione dell'indagato).*