(massima n. 1)
Sono inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 23, comma 4, del D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152, come modificato dall'art. 7 del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 258, impugnato, in riferimento all'art. 3 Cost., nella parte in cui, sostituendo l'art. 17 del R.D. 11 dicembre 1933, n. 1775, sanziona come mero illecito amministrativo le condotte di derivazione o utilizzazione di acqua pubblica in assenza di provvedimento di autorizzazione o concessione dell'autorità competente. La censurata scelta di depenalizzazione si inserisce in un disegno volto a regolare in modo sistematico l'utilizzazione collettiva di un bene indispensabile e scarso, come l'acqua, che comporta la prevalenza delle regole amministrative di fruizione sul mero aspetto dominicale. L'art. 1 della legge n. 36 del 1994 ha legato l'integrale pubblicizzazione delle acque superficiali e sotterranee alla salvaguardia di tale risorsa ed alla sua utilizzazione secondo criteri di solidarietà, mentre l'art. 95 del R.D. n. 1775 del 1933 ha previsto come necessarie, per gli usi diversi da quelli domestici, l'autorizzazione alla ricerca ed allo scavo e la concessione per l'utilizzo. Pertanto, spetta alla pubblica amministrazione competente programmare, regolare e controllare il corretto utilizzo del bene acqua in un dato territorio, non già in una prospettiva di mera tutela della proprietà demaniale, ma in quella del contemperamento tra la natura pubblicistica della risorsa e la sua destinazione a soddisfare i bisogni domestici e produttivi dei consociati. Questi ultimi hanno titolo ad utilizzare le acque sotterranee, nel rispetto delle norme pubblicistiche poste a tutela dell'integrità della risorsa, che non può essere indiscriminatamente depauperata da prelievi che sfuggono ai poteri regolativi dell'autorità. La scelta legislativa di sanzionare solo in via amministrativa eventuali comportamenti trasgressivi delle regole di utilizzo delle acque non è manifestamente irragionevole giacché deve aversi primariamente riguardo al rapporto tra cittadini e pubblica amministrazione nell'accesso ad un bene che appartiene in principio alla collettività. Altre soluzioni sarebbero astrattamente possibili, ma non spetta alla Corte sindacare nel merito le discrezionali scelte sanzionatorie del legislatore, una volta esclusa la manifesta irragionevolezza della norma censurata. Ulteriore motivo di inammissibilità è la carente motivazione sulla non manifesta infondatezza, non avendo il rimettente precisato i beni di minore rilevanza assistiti da una tutela più intensa di quella prevista per l'acqua ed indicato criteri oggettivi per istituire una gerarchia di valori costituzionali. Né ha maggior pregio la censura di arbitrarietà della depenalizzazione sotto il profilo intertemporale, giacché i comportamenti anteriori all'entrata in vigore della norma de qua sarebbero sanzionati penalmente mentre quelli successivi soltanto in via amministrativa. Se il ragionamento potesse avere ingresso nella considerazione del giudice costituzionale, tutte le norme di depenalizzazione sarebbero illegittime, poiché vi è pur sempre un termine temporale della loro entrata in vigore. In ogni caso, il prospettato effetto discriminatorio non potrebbe verificarsi in ragione dell'art. 2 cod. pen., del quale non si tiene alcun conto nell'ordinanza di rimessione, con conseguente difetto di rilevanza della sollevata questione. Infine, posto che la legge non distingue tra utilizzazioni industriali, agricole o di altro tipo, ma soltanto tra usi domestici e altri usi, non è ipotizzabile una discriminazione tra gli usi industriali e gli altri usi possibili, che possono essere di vario genere e sono tutti assoggettabili, in caso di trasgressione delle norme amministrative, al medesimo regime sanzionatorio, sicché la questione è inammissibile per erronea ricostruzione del quadro normativo.