(massima n. 1)
Il fenomeno dell'occupazione appropriativa, in virtù del quale, a causa della radicale trasformazione del fondo privato con irreversibile destinazione all'opera pubblica, la proprietà del suolo, in mancanza di decreto di esproprio, finisce comunque per accedere alla proprietà dell'opera realizzata, dal momento in cui il suolo ha subito la trasformazione, o, qualora questa sia avvenuta nel corso dell'occupazione legittima, dallo scadere del relativo termine, comporta che il sacrificio per il diritto del privato può essere giustificato solo nella misura in cui all'attività di costruzione e manipolazione sia attribuito un vincolo di scopo e di rispondenza, in concreto, ai fini pubblici, mediante una rituale dichiarazione di pubblica utilità. Ne consegue che qualora l'atto in cui essa è implicita (approvazione del progetto dell'opera) sia carente dei termini, iniziali e finali, per l'esecuzione dei lavori ed il compimento della procedura espropriativa, la cui indicazione è imposta dall'art. 13 L. 25 giugno 1865 n. 2359, senza possibilità di successive indicazioni a sanatoria, al fine garantistico di non lasciare il privato indefinitamente esposto alla vicenda ablatoria, la carenza del potere espropriativo, da cui deriva l'inidoneità della procedura ad affievolire la pienezza del diritto dominicale, determina l'illegittimità "ab origine" dell'occupazione d'urgenza e l'illiceità permanente dell'opera pubblica, che oltre a legittimare la richiesta di restituzione del bene, impedisce la decorrenza del termine prescrizionale dell'azione di risarcimento che il privato ritenga di proporre, abdicando implicitamente alla proprietà.