(massima n. 1)
In tema di espropriazione, l'occupazione cosiddetto "appropriativa" va distinta dalla cosiddetto "occupazione usurpativa", configurabile, a differenza della prima, soltanto in assenza (originaria o sopravvenuta) di una dichiarazione di pubblica utilità dell'opera, così che l'acquisizione del bene alla mano pubblica non consegue automaticamente (come nell'occupazione appropriativa) all'irreversibile trasformazione di esso, ma è logicamente e temporalmente successiva, e dipende da una scelta del proprietario usurpato che, rinunciando implicitamente al diritto dominicale, opta per una tutela (integralmente) risarcitoria in luogo della (pur possibile) tutela restitutoria. Ne consegue che, a differenza dell'ipotesi di occupazione appropriativa, non è applicabile all'occupazione usurpativa, quanto alla liquidazione dei danni, lo “ius superveniens" di cui al comma 7-bis dell'art. 5-bis L. n. 359 del 1992, atteso che il riferimento legislativo alle "occupazioni illegittime di suoli per causa di P.U. esprime pur sempre un collegamento teleologico con le finalità perseguite a mezzo della procedura espropriativa, collegamento legittimamente predicabile nel solo caso di occupazione appropriativa. (Nell'affermare il principio di diritto che precede la S.C. ha, peraltro, nel caso di specie, ritenuto applicabile l'art. 5-bis , comma 7-bis , citato nella quantificazione del danno risarcibile, poiché, pur in assenza di qualsivoglia dichiarazione di P.U., il giudice di prime cure aveva qualificato come "appropriativa" l'occupazione “de qua", e, ciononostante, non erano state sollevate doglianze dalle parti, sì che la questione era divenuta irretrattabile per effetto del giudicato interno formatosi sul punto).