(massima n. 1)
Nel rito del lavoro, è assolutamente precluso al giudice integrare o modificare il dispositivo di sentenza, come deliberato e letto in udienza, e deve ritenersi atto abnorme e giuridicamente inesistente – e come tale inidoneo a passare in giudicato – il nuovo dispositivo che sia da lui emesso a definizione della lite, quand'anche corredato da pertinente motivazione. L'interesse a far valere il vizio radicale del nuovo provvedimento va verificato in concreto (in relazione, in particolare, alla esistenza o meno della volontà della controparte di avvalersi dell'atto) anche con riferimento ai normali mezzi di impugnazione, senza che al riguardo assuma carattere decisivo la previsione, da parte dell'art. 354, comma primo, c.p.c. della rimessione della causa al giudice di primo grado nel caso di accertamento compiuto dal giudice di appello della inesistenza giuridica della sentenza, visto che nel caso in esame già esiste una prima pronuncia del giudice di primo grado, anche se eventualmente rimasta priva di motivazione. (Nella specie, il pretore, in relazione ad un'impugnativa di licenziamento, dopo aver emanato in udienza un dispositivo di cessazione della materia del contendere, aveva depositato una sentenza – formata da dispositivo e coerente motivazione – di accoglimento della domanda).