(massima n. 1)
L'art. 326 c.p., nel prevedere come reato la rivelazione di “notizie di ufficio le quali debbano rimanere segrete”, si riferisce non soltanto alle notizie destinate a rimanere segrete in ogni tempo e in ogni luogo, ma anche a quelle relativamente alle quali il destinatario della rivelazione non sia titolare del diritto di accesso o non lo abbia azionato con le dovute modalità, ai sensi della legge n. 241/1990; il che vale, in particolare, per i funzionari di cancelleria e segreteria e per i dattilografi giudiziari, i quali, ai sensi dell'art. 159 della legge n. 1196/1960, sono tenuti ad “osservare il più scrupoloso segreto di ufficio e non possono dare a chi non ne abbia diritto, anche se non si tratti di atti segreti, informazioni o comunicazioni relative a operazioni o provvedimenti giudiziari o amministrativi di qualsiasi natura e dei quali siano venuti comunque a conoscenza a causa del loro ufficio". (Nella specie, in applicazione di tali principi, la Corte, in accoglimento del ricorso del pubblico ministero, ha censurato la decisione del giudice di merito che aveva escluso la configurabilità del reato in un caso in cui all'imputato era stato addebitato di aver rivelato ad una persona sottoposta a indagine per truffa, nei cui confronti egli aveva contratto debiti a tasso usurario, i “movimenti e le riunioni di ufficio svolte dal P.M. e dalla P.G. delegata negli uffici della Procura” nonché “la presenza di soggetti da escutere in qualità di testimoni” come pure le iscrizioni e le successive annotazioni nel registro delle notizie di reato riguardanti la medesima persona