(massima n. 1)
In tema di risarcimento danni, qualora la peculiare natura del pregiudizio lamentato dall'attore (e ritenuto esistente, sotto il profilo dell'an debeatur, dal giudice di merito) renda impervia ovvero impossibile la prova concreta del suo preciso ammontare, è legittimo e doveroso il ricorso ad un'autonoma valutazione equitativa del danno — senza che spieghi influenza, in senso contrario, né l'eventuale «insuccesso» della Ctu disposta al fine di quantificarlo in concreto alla luce di criteri lato sensu oggettivi, né l'eventuale inidoneità e/o erroneità dei parametri risarcitori indicati del danneggiato — dovendosi, per converso, ritenere contraria a diritto un'eventuale decisione di non liquet, fondata, appunto, sull'asserita inadeguatezza dei criteri indicati dall'attore o sulla pretesa impossibilità di individuarne alcuno, risolvendosi tale pronuncia nella negazione di quanto, invece, già definitivamente acclarato in termini di esistenza di una condotta generatrice di danno ingiusto e di conseguente legittimità di una richiesta risarcitoria relativa ad una certa res lesiva (nella specie, accertata, sotto il profilo dell'an debeatur, l'illegittimità del diniego di proroga di una concessione di autolinee da parte della P.A. — illegittimità dichiarata dal giudice amministrativo intervenuto ad annullare il provvedimento comunale di diniego di proroga — e predicata la conseguente esitenza di un danno per la società concessionaria, la Corte di merito aveva poi rigettato la domanda risarcitoria per palese inidoneità dei criteri adottati dal Ctu nella relativa quantificazione e per la innegabile difficoltà, ai limiti dell'impossibilità, di individuarne altri, concludendo, per ciò stesso, in termini di «inesistenza di un danno risarcibile»: la S.C., nel cassare la decisione, ha affermato il principio di diritto che precede).