(massima n. 1)
Il rifiuto di atti d'ufficio, nei casi previsti dal primo comma dell'art. 328 c.p., è configurabile, indipendentemente dall'esistenza o meno di specifiche richieste o sollecitazioni volte ad ottenere il compimento degli atti medesimi, ogni qual volta dalla indebita e volontaria inerzia del soggetto che dovrebbe provvedervi derivi, pur in assenza di termini previsti come perentori, l'oggettivo pericolo di una lesione del bene tutelato. Ciò vale anche nel caso di atti che debbano essere compiuti dal magistrato, senza che occorra anche la presenza di taluna delle condizioni che, ai sensi dell'art. 3 della legge 13 aprile 1988, n. 117, danno luogo al diniego di giustizia, dovendosi considerare come di per sé integratrice di un siffatto diniego la condotta del magistrato che consista nel ritardare indebitamente, oltre ogni ragionevole limite e, quindi, con effettivo pericolo di lesione degli interessi della giustizia, atti del proprio ufficio. (Nella specie, in applicazione di tali principi, la Corte ha ritenuto che, quanto meno in sede cautelare, fosse correttamente ipotizzabile il reato “de quo” a carico di un magistrato che aveva ritardato, senza alcuna giustificazione ed anche in presenza di ripetute sollecitazioni rivoltegli dal capo dell'ufficio, il deposito di n. 277 sentenze dibattimentali pronunciate tra il maggio del 2000 ed il febbraio del 2002).