(massima n. 1)
Il regime di procedibilità d'ufficio per i reati di violenza sessuale previsto dall'art. 609 septies c.p., introdotto dalla L. 15 febbraio 1996, n. 66, non può produrre effetti sui fatti commessi prima della sua entrata in vigore. Il problema dell'applicabilità dell'art. 2 c.p., in caso di mutamento nel tempo del regime della procedibilità a querela, va positivamente risolto alla luce della natura mista, sostanziale e processuale, di tale istituto, che costituisce nel contempo condizione di procedibilità e di punibilità. Infatti, il principio dell'applicazione della norma più favorevole al reo opera non soltanto al fine di individuare la norma di diritto sostanziale applicabile al caso concreto, ma anche in ordine al regime della procedibilità che inerisce alla fattispecie dato che è inscindibilmente legata al fatto come qualificato dal diritto, specie quando il legislatore in una determinata materia modifichi profondamente fattispecie, pene, denominazione dei delitti, come è avvenuto in quella dei reati di violenza sessuale, sottratti all'area della moralità pubblica e concepiti come reati contro la persona. (Nella specie, relativa a rigetto di ricorso del P.M. avverso rigetto di appello contro diniego di applicazione di custodia cautelare in carcere, la S.C. ha osservato altresì che la rilevante portata dell'intervento innovativo e la mancanza di norme transitorie, certamente non dovuta a disattenzione, denotano inequivocabilmente che si è voluto dare alla normativa, che ha introdotto un regime di maggiore afflittività per chi commette abusi sessuali, operatività con esclusivo riferimento a condotte poste in essere dopo la sua entrata in vigore, sicché il peggioramento del regime di procedibilità per talune ipotesi di reato non può produrre effetti su preesistenti situazioni la cui perseguibilità e punibilità erano rimesse alla volontà della persona offesa dal reato).