(massima n. 1)
Il ritenere che possa ravvisarsi la continuazione, per l'esistenza di un medesimo disegno criminoso, tra fatti già giudicati con precedente sentenza irrevocabile e fatti commessi successivamente alla data in cui la stessa decisione è stata emessa, è cosa contraria ai principi che regolano la materia. È pur vero che la dizione letterale dell'art. 81, comma secondo, c.p. non pone alcuna eccezione all'applicazione della continuazione, ma da siffatta constatazione non può farsi discendere la possibilità di ritenere la continuazione anche nell'ipotesi suddetta, perché, se così fosse, si verrebbe a violare il principio della maggiore responsabilità, generalmente attribuita al soggetto che, nonostante una precedente condanna, persiste nel delinquere, sia che il proposito criminoso sia antecedente sia che sia susseguente al giudicato (si vedano gli artt. 99 ss. c.p.). Invero affermare che il legislatore abbia voluto favorire chi abbia concepito un disegno criminoso prima della condanna, promettendogli uno sconto di pena per i reati che, da lui ideati, non sono stati ancora commessi, è logicamente assurdo ed in contrasto con i principi fondamentali che disciplinano la pena, la quale deve tendere alla rieducazione del reo (art. 27, comma terzo, Cost.). Né ad un contrario avviso può condurre il rilievo della possibilità di applicazione della continuazione anche in sede di esecuzione, introdotta con l'art. 671 c.p.p., perché tale possibilità (che non modifica, attesa la natura processuale della suddetta norma, la disciplina dettata dall'art. 81 c.p.) non fa venire meno alcuna delle ragioni che si oppongono a ravvisare la continuazione con fatti commessi dopo una sentenza di condanna, essendo sempre imposto al giudice dell'esecuzione di accertare la corrispondenza della fattispecie concreta a quella prevista dalla legge penale sostanziale.