(massima n. 1)
Deve escludersi che l'errore del pubblico ufficiale circa le proprie facoltà di disposizione del pubblico denaro per fini diversi da quelli istituzionali possa assumere qualsivoglia efficacia scriminante perché, pur essendo la destinazione delle somme determinata da una norma di diritto amministrativo, tale norma deve intendersi richiamata dalla norma penale, della quale integra il contenuto. Pertanto, l'illegittimità della destinazione, anche se imputabile ad ignoranza dell'agente sui limiti dei propri poteri, non si risolve in un errore di fatto su legge diversa da quella penale, ma costituisce errore o ignoranza della legge penale e, come tale, non vale ad escludere l'elemento soggettivo del reato di peculato che consiste nella coscienza e volontà di far proprie somme di cui il pubblico ufficiale ha il possesso per ragioni del suo ufficio. Né potrebbe essere utilmente richiamato il decisum della sentenza costituzionale n. 364 del 1988 che ha dichiarato illegittimo l'art. 5 c.p., nella parte in cui non esclude dall'inescusabilità dell'ignoranza della legge penale l'ignoranza inevitabile. Infatti, i soggetti che esplicano professionalmente una determinata attività rispondono anche in virtù della culpa levis nello svolgimento dell'indagine giuridica; da ciò deriva che per la scusabilità dell'ignoranza (e, dunque, anche dell'errore) occorre che da un comportamento degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale venga tratto il convincimento della correttezza dell'interpretazione e, conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto.