(massima n. 1)
Sulla domanda di esecuzione all'estero di una sentenza di condanna a pena restrittiva della libertà personale (art. 743 c.p.p.), alla corte d'appello compete soltanto l'accertamento delle condizioni che rendono legittimo il trasferimento all'estero della persona condannata, mentre l'accordo di cooperazione in materia penale con lo stato estero rientra nella competenza esclusiva del Ministro della giustizia. L'autorità giudiziaria deve limitarsi a statuire sulla sussistenza delle condizioni previste per il trasferimento del condannato (art. 3 della Convenzione di Strasburgo 21 marzo 1983, ratificata con L. n. 334/1988), sulla inesistenza di impedimenti all'esecuzione della condanna (art. 744 c.p.p.) e sulla adeguatezza della pena indicata dal Governo estero non rispetto alla sola condanna ovvero ai criteri dettati dall'art. 133 c.p., bensì rispetto ai criteri sanciti dalla citata Convenzione (artt. 9 e 10), che conferisce allo Stato di esecuzione la facoltà di optare tra il sistema della continuazione dell'esecuzione e quello della conversione della condanna. Il primo sistema (per il quale ha optato l'Ungheria) comporta, quale regola generale, il vincolo per lo Stato di esecuzione alla natura giuridica e alla durata della sanzione così come stabilita dallo Stato di condanna (art. 10.1), ma è proprio la stessa Convenzione a prevedere l'adattamento della sanzione alla pena o misure previste dalla legge dello Stato di esecuzione per lo stesso tipo di reato, in modo da non eccedere il massimo della pena dalla stessa previsto (art. 10.2). Ne consegue che illegittimamente la corte di appello respinge la richiesta di trasferimento da parte del Governo di Ungheria di un detenuto condannato alla pena di anni tredici e mesi sei di reclusione, sulla base della considerazione che, se trasferito in Ungheria per l'esecuzione della pena, il condannato avrebbe beneficiato del fatto che, per il reato commesso, la pena massima ivi prevista è non superiore ad anni otto di reclusione.