(massima n. 1)
In tema di patteggiamento, una volta che le parti abbiano sottoposto all'organo giudicante le loro richieste, queste non possono essere più revocate; il che implica che ogni questione concernente la prova in ordine alla sussistenza del fatto e alla sua soggettiva attribuzione, le eventuali nullità verificatesi nella fase procedimentale, l'entità e le modalità di determinazione della pena non possono costituire motivo di impugnazione della sentenza emessa ai sensi dell'art. 444 c.p.p. Tale conclusione vale sia per l'imputato, sia per il pubblico ministero, per il quale, salva l'impugnazione per erronea applicazione formale di norma di diritto, non sussiste alcun concreto interesse che possa rendere ammissibile una doglianza concernente l'inadeguatezza della determinazione di pena. Ed invero, anche per la parte pubblica l'interesse ad impugnare deve essere collegato alla condotta processuale prefigurata dalle norme relative allo speciale rito del patteggiamento, sicché esso va correlato non solo agli interessi coordinati allo scopo del processo, ma anche a che detto scopo si realizzi con il minimo impiego di attività e di tempo per ridurre al massimo il costo del processo. Ne consegue che, nell'ottica della pena patteggiata, ciascuna delle parti deve, preventivamente all'accordo da sottoporre all'organo giudicante, operare una scelta con coerente rinuncia ad alcune delle facoltà esercitabili nel rito previsto come normale dall'ordinamento processuale, di guisa che, costituendo la concorde richiesta presentata alla valutazione del giudice l'espressione dell'interesse delle parti come sopra specificato, ogni successivo ripensamento sul suo contenuto non soltanto non può costituire motivo di impugnazione, ma anche qualifica il gravame come privo di interesse, avendo la parte già rinunciato, partecipando all'accordo con la controparte, a tale sua facoltà.